lunedì 30 Dicembre, 2024
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Sboccia il fidanzamento e le coppie “si parlano”

Il rito del corteggiamento nelle veglie di campagna
Quando i fidanzamenti venivano decisi a tavolino nelle case di campagna, una tradizione ormai scomparsa ma parte della nostra storia.

Molti annunci ufficiali di fidanzamenti, soprattutto in campagna, un tempo avvenivano in primavera: erano il risultato delle veglie invernali nelle stalle. Terminato il servizio militare, era buona norma che un giovane si trovasse una moglie: chi non se la sbrigava da solo, fino agli Anni Quaranta poteva contare sull’aiuto del bacialè, il sensale di matrimoni, di solito un marus-ciòn, un trafficone che trattava vari generi di affari e quindi conosceva tutti. Negli anni Sessanta molti bacialé si specializzarono in matrimoni “misti” tra scapoli contadini piemontesi e donne del Sud disposte a venire a lavorare in campagna, spesso sotto la gerarchia rigida della suocera. 

Il bacialé, se avesse dovuto “pilotare” i due colombi dal primo incontro fino all’altare, avrebbe avuto per compenso un cappotto o la somma equivalente per acquistarlo, se invece si limitava a dare l’imbeccata, si accontentava di un foulard. Nel secondo caso, il giovanotto si rivolgeva a lui e a- i fava dì, faceva chiedere alla ragazza se era contenta che lui la frequentasse. In campagna di solito questi tentativi avvenivano prima dell’inverno, la stagione in cui s’andava a vjè, si andava a vegliare nelle stalle, e il lavoro agricolo non era troppo pressante.

In questo caso la giovane chiedeva al padre se il tale poteva andare a vegliare da loro o accompagnarla alla veglia dai vicini di casa: se fosse arrivato il placet paterno, il fidanzamento sarebbe stato già a buon punto.

Se le vià erano state positive e anche un po’ galeotte, in primavera si annunciava il fidanzamento: da quel momento i due potevano andare insieme alle feste e intrattenersi a chiacchierare senza troppa “sorveglianza”. Il loro status si sintetizzava nella frase a-s parlu, “si parlano”, che equivaleva al fidanzamento.

Comunque, anche in questa loro nuova condizione che permetteva un po’ più di confidenza reciproca, sicuramente non si perdevano in effusioni. Mia nonna paterna, Deli, Adele, classe 1900, è stata fidanzata due anni con mio nonno Gundìn, Secondo, classe 1898, e un giorno mi ha confessato che in tutto quel tempo «…j’heu mai sdàmna che ‘l grand u cicava». «… non mi sono mai accorta che il nonno masticava tabacco».  Un amore veramente platonico. E non è finita qui. Si sposarono nel 1920 nella chiesa di Migliandolo e in quell’epoca il parroco non era ancora ufficiale di stato civile: lo divenne nel 1929, con la firma del Concordato tra Stato e Chiesa.

Quindi, secondo la consuetudine, dopo la cerimonia religiosa gli sposi, seguiti dalla folla dei parenti, andavano a fare registrare il matrimonio in municipio, nel loro caso a Portacomaro, una passeggiata di quasi quattro chilometri su una strada polverosa e martellata dal sole.

Siccome mio nonno era un “armadio”, molto alto per un uomo della sua generazione, e mia nonna sembrava na bivàta, una bambola, faticava a tenergli dietro e all’improvviso ebbe un pensiero “temerario” che mi raccontò così: «A vava quasi pièlu an sletti per arsimi, ma ‘m pariva d’essi sfacìaia», «Ero sul punto di prenderlo sottobraccio per appoggiarmi, ma mi pareva di essere sfacciata». Si erano appena sposati. 

 

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