Le sale da ballo e i balli a palchetto, presenti soprattutto nelle feste di paese, erano il “palcoscenico” degli incontri tra i giovani in età da matrimonio.
Per decenni e fino alla fine degli Anni Sessanta le ragazze non fidanzate ufficialmente erano di solito accompagnate dalla mamma, una zia o da una sorella maggiore già sposata che non le perdeva mai di vista, perchè il ballo era già una sorta di impegno. Le donne al seguito della ragazza, dotate di golfino, anche in pieno agosto, erano gli occhi della famiglia sul buon nome della giovane. Infatti, quando gli anziani dicevano “El fa balè na fija”, “Fa ballare una ragazza”, sottintendevano che tra i due ci fosse del tenero: fare coppia fissa con assiduità nel ballo era considerato il primo passo ufficiale e pubblico. E questa espressione veniva sempre usata al maschile: era l’uomo che faceva ballare la ragazza, che si faceva avanti per chiederle: “Permette questo ballo?”, e di conseguenza era ritenuto il protagonista di una scelta nella quale la donna si limitava al ruolo di prescelta.
È un’illusione che le donne ci hanno lasciato per molto tempo, quella di essere noi ometti a scegliere, in realtà, quasi sempre, oggi come allora, optiamo per la scelta che loro, con bel garbo, cun bel deuit, ci hanno portato a preferire.
Dal secondo dopoguerra alla fine degli Anni Sessanta il ballo continuò a essere “galeotto” di tanti amori, mantenendo grosso modo inalterati i comportamenti, il linguaggio e i personaggi.
All’invito a ballare la ragazza rispondeva “sì” oppure dava el casü, letteralmente il mestolo, espressione che indicava il rifiuto: nasce dal fatto che, nel dire “no”, la donna sollevava il mento sporgendo in fuori il labbro inferiore, ricordando proprio la foggia del mestolo. C’era tra i giovanotti una sorta di gara consolatoria a chi prendeva più casü,
Nei valzer e nelle mazurke la distanza da mantenere tra i due ballerini era facoltà della ragazza: se lasciava avvicinare un po’ di più del consueto il partner (almeno quando sperava di sfuggire all’attenta sorveglianza delle già citate mamme, zie e sorelle) era perchè il giovanotto aveva qualche chances, in caso contrario non c’erano speranze.
Dopo la seconda guerra mondiale arrivarono gli slow, i lenti, in astigiano strensòn, perchè si poteva stringere a sé la ragazza, magari arrischiando un guancia a guancia, sempre che lei lo permettesse. La formula classica delle orchestrine era tre lenti, tre veloci e un riposino. E si ricominciava.
E, ballando ballando, si chiacchierava, si faceva conoscenza, si scopriva qualche interesse in comune: se scattava la scintilla, al termine della serata o del pomeriggio (la domenica) il ragazzo l’avrebbe accompagnata a casa e, magari, azzardato la richiesta di un puntèl (o un tèco), un appuntamento, per il giorno successivo, all’uscita dal lavoro o dalla scuola. Ma per lui la strada restava in salita: ammesso che sbocciasse l’amore, ci voleva tempo per il primo basìn, bacio, e ancora di più per arrivare a una timida ispessiòn a la lingeria (dal francese lingerie), ispezione alla biancheria intima, solitamente bloccata sul nascere. La regola aurea, almeno fino a quando non si era già fissato il giorno del matrimonio, restava racchiusa in una sigla goliardica C.G.P., ciulè gnanca parlena..