Un ramo di pino addobbato con mandarini
Ricordo il profumo dei mandarini. Un sapore per l’anima. Spuntavano poco prima di Natale e sono diventati magici dal giorno in cui furono eletti ad addobbo del mio albero di Natale.
Non ho memoria chiara di aver visto alberi di Natale prima del mio. Nei primi Anni ’50 la televisione non poteva recitarmelo, ancora in fase di sperimentazione e lontana dalle case. Forse qualcosa può essermi scesa dentro attraverso Il Corriere dei piccoli, che era il mio appuntamento settimanale fin da quando dovevo ancora aspettare che qualcuno me lo leggesse. Data da allora l’emozione inesausta verso la carta stampata, viva di colori, densa di personaggi che, in quel caso, dividevo anche con l’infanzia di mia madre e di mio padre.
Il Corriere dei piccoli (come, credo, Topolino) non ha creato spaccature generazionali, anzi ha fatto spesso da comune denominatore per emozioni che andavano ad allargare l’anima di incontri nuovi, dove la matrice di etica era la stessa per almeno tre generazioni.
Oltre al Presepe non so se c’era altro a dire il Natale a noi bambini se non le cartoline d’auguri messe in bella mostra sul caminetto o sulla credenza a spandere piccole scaglie argentate.
Per questo ancora adesso mi chiedo come abbia potuto venire in mente alla nonna Lidia, prima che agli altri, di regalarci il primo albero di Natale. Proprio alla nonna più austera a causa di una vita versata in tante lacrime su un figlio morto giovane, alla nonna dal sorriso raro e malinconico, dalla voce bellissima nel recitare il Rosario in latino o nel cantare le lodi di chiesa sottovoce.
Era una donna parca di costumi per se stessa e senza risparmio nel lavoro per gli altri. Sapeva far di tutto e cucinava pranzi dagli infiniti sapori che ingolosivano della sua ospitalità. Teneva fitte corrispondenze con i fratelli lontani e con le amiche. Quasi ogni giorno le portava una lettera, da cui si capiva gioia di comunicare. Aveva un senso della morale che riusciva a trasmettere alle cose che faceva e a far sentire come un fine bello da raggiungere per essere grandi davvero.
Poco curiosa delle faccende altrui, non aveva mai un accenno di pettegolezzo e, quando non scriveva o lavorava, passava le sere a leggere il messale o la Bibbia, con un ginocchio appoggiato al sedile della sedia e i gomiti sul tavolo, quasi che pregasse.
Un anno, credo l’antivigilia di Natale, tornò da Asti con dei piccoli involucri gonfi di vaporosa carta velina.
Ricordo come fosse ora che entrò nel nostro tinello al primo piano di casa (quel primo piano ci rendeva famiglia giovane, quasi un’impalcatura fiorita più in alto sul tronco annoso della stirpe) con un’aria di mistero gaudioso, forse un po’ timida lei stessa per quell’ardire nel tentare nuove tradizioni più consumistiche.
Quando ci spiegò tra le mani, con attenzione massima, quelle minuscole palline di vetro, un’emozione scintillante e trasparente corse a farsi un nido nell’anima per riproporsi intatta ogni anno davanti al mio nuovo albero. Ricordo, tra le altre, due funghetti rossi con i puntini bianchi in rilievo che hanno accompagnato tutti i Natali della mia infanzia fino alla gioventù, prima di dissolversi in un “paff” tintinnante sul pavimento. Come un sogno.
La nonna non si fermò lì. Nel pomeriggio si avventurò a cercare un ramo di pino nella campagna bianca di gelo. Da sola. Come usava fare, non essendole mai piaciuto chiedere servizi agli uomini che lavoravano alla nostra cascina.
Non seppi mai da dove lo trasse, perché era rarissimo nelle nostre campagne imbattersi in un pino, se non nel profondo dei boschi più lontani e arroccati. Mi piace pensare a un suo segreto misterioso, quasi di fata buona. Quel ramo, fitto di verde, che da in piedi benissimo simulava le impalcature e la punta di un abete tutto intero, arrese i suoi umori di gelo in piccoli diamanti spuntati tra gli aghi e profumò la casa di essenza…
Ricordo che mio padre e mia madre si sentirono sollecitati a perfezionare l’addobbo e li vidi coinvolti come bambini appena più grandi di me dietro la direttiva della nonna che aveva impartito nuova vita ai nostri giorni già magici.
Mio padre tornò la sera con le candeline a tortiglione, mia madre con piccoli addobbi di zucchero e cioccolato e mandarini che pazientemente infilzò con lo spago per dotarli di un laccio che servisse ad appenderli ai rami.
Nella notte dell’antivigilia l’albero era una nuova presenza della casa. Come quattro bambini felici, la mia piccola famiglia accese le candeline e spense le luci, incontrando un nuovo canto del dentro in quell’atmosfera che scintillava piccoli bagliori scovati e riflessi dalle fiamme vive che, di tanto in tanto, in uno slancio più lungo verso l’alto, lambivano un ago di pino che si incendiava bianchissimo, scoppiando la linfa del cuore.
Mia sorella e io scendemmo le scale a chiamare la nonna per parteciparle la gioia di questa nuova favola e, davanti all’albero trionfante di luci e di profumi, forse non dicemmo altro che qualche parola di grata meraviglia, mio padre
e mia madre un poco titubanti per aver preso parte a quel gioco con un coinvolgimento di palese contentezza, come colti in fallo in una dimissione da intenti adulti.
C’era in casa nostra, tra una generazione e l’altra, una strana soggezione nel manifestare la gioia come se si trattasse di mettere a nudo un punto debole, ma io, piccola carta assorbente per tutte le vere emozioni dell’istinto, capivo che quella scorza mostrava incrinature profonde, specialmente dove la vita aveva segnato a fuoco i suoi significati nei ricordi di tante infanzie bruciate in fretta nella fede che crescere fosse giocare anche meglio i fremiti più minuti del cuore.
Intatta, di tutto quel Natale, mi è rimasta una sola pallina, grande poco più che una noce, di un rosa pallido che la racconta quasi antica.
L’appendo ogni anno per ultima, dicendo “la pallina della nonna Lidia”. E la gratitudine che torna nel cuore è la più bella preghiera di ricordo che il bene possa recitare.