Dietro al viaggio che ha segnato la mia vita c’era una motivazione che nulla aveva a che fare con il turismo, né con il desiderio di conoscere nuovi luoghi. Era il desiderio
di lasciare in eredità un mondo più giusto la ragione per cui, un giorno del 2005, camminavo per le strade di Kathmandu insieme a un bambino di sette anni.
Era l’8 marzo e il sole asciugava i campi e la città, sollevando volute di vapore verso il cielo. Guardavo il piccolo Bal camminare al mio fianco ed ero felice, perché sapevo che avrei ricordato quella giornata per sempre.
Occorre però fare un passo indietro. Dal 1996 il Nepal era infiammato dalla guerra civile tra le squadre della morte del re e i guerriglieri maoisti. L’ex paradiso degli hippie era diventato un inferno. Nessuno sapeva dire quanti fossero i “Bepatta”, l’equivalente dei “desaparecidos” argentini o cileni. Nel Paese dilaniato, c’era chi non si poneva il problema di mescolarsi alle vittime della parte opposta. Erano i piccoli ospiti dell’orfanotrofio Sahara Group, a Nepalganj.

Nell’istituto giocavano insieme gli orfani di genitori che si facevano la guerra
Cinquanta ragazzini, figli di soldati di maoisti o di civili scomparsi, giocavano a nascondino e schiamazzavano nello stesso cortile, lontani dagli spari. Attraverso un’associazione di Ciriè, io e mia moglie avevamo avviato da un pezzo le pratiche per l’adozione di un bambino che non vedevamo l’ora di conoscere. Visitammo la struttura per la prima volta nell’aprile del 2004.
L’istituzione privata che ospitava i ragazzini li raccoglieva per le strade, sui sentieri e nei villaggi. Prima di trovare rifugio, quasi tutti erano stati costretti a imparare un mestiere per rimediare qualcosa da mangiare. Alcuni badavano a fratelli e sorelline più piccole di loro. La maggior parte lavorava spaccando pietre, e alla fine della giornata potevano permettersi un po’ di riso e il necessario per cuocere su bidoni di acciaio il kapaci, una sorta di piadina locale.
Bal aveva quattro anni quando lo incontrammo per la prima volta nell’istituto. Fino a quel momento l’unica immagine che avevamo di lui era una foto sbiadita, ricevuta molto tempo prima in Italia. Non potevamo però tornare subito a casa con il bambino, i
tempi della burocrazia ci costrinsero ad attendere più di un anno.
Il tempo lentamente trascorse e ci portò a marzo del 2005. In quei giorni ero in Nepal da solo, mia moglie aveva dovuto riprendere il lavoro in Italia. Io ero rimasto per compiere le procedure necessarie all’adozione del bambino. Raggiunsi il grande quartiere del Parlamento che ospita le palazzine governative dei vari ministeri in compagnia di Bal e di Roshan, uno dei dipendenti dell’orfanotrofio.
Una lunga coda di persone ci suggeriva di metter da parte la fretta. Con pazienza chiedemmo un primo pass che ci venne negato, poi una telefonata a chi non so e un nuovo tentativo ci consentirono di passare la prima transenna. Al secondo posto di blocco ci perquisirono, stupidamente avevo con me la macchina fotografica, e questo
fu motivo di un nuovo stop.
Roshan prese la mia macchina, dicendomi di stare tranquillo e di aspettarlo lì. Dopo
qualche minuto tornò dicendomi che tutto era a posto. Non osai chiedergli che fine avesse fatto la macchina fotografica. Una nuova coda, poi finalmente entrammo in un ufficio decadente.
Incontrammo un uomo, dal fare ordinato e discreto e seduto in sala di attesa. Solo dopo avrei capito che si trattava del comitato di accoglienza: feci sedere Bal, mentre
io non riuscivo a tenere ferme le gambe. L’uomo, fingendo di scrivere su un registro, si avvicinò e iniziò a porre domande al bambino: «Come ti chiami? Da dove arrivi? Qual è stata la tua casa fino ad ora?» Poi, con fare più insistente, l’uomo chiese per tre volte al piccolo di dire il suo nome.
Percepivo il cuore di Bal a distanza senza toccarlo, e con una voce uscita chissà da dove e con chissà quale energia, gli rispose: «Bal Krishna». Abbassò gli occhi, come a chiedere di smettere. L’uomo si alzò, si allontanò e poi rientrò nella stanza.
Erano passati pochi minuti ma per noi furono lunghissimi. Io ero emozionato, da Bal non una parola, non un sorriso, solo uno sguardo a perforarmi come per trovare serenità. Una compostezza insolita per un bimbo della sua età.
Era il momento. Il funzionario chiamò Bal e lo fece avvicinare alla sua scrivania. Quindici minuti per cercare di capire quanta decisione accompagnasse la sua volontà di trasferirsi in un paese lontano come l’Italia, affrontando un volo aereo di tante ore.

«Ciao-ciao», il saluto italiano del piccolo Bal
Ho intravisto gli occhi di Bal diventare lucidi, le sue guance rosso fuoco, il suo piede destro giocherellare tra punta e tacco, le mani composte nelle tasche dei pantaloni,
il suo nasino sudare per l’emozione.
Nonostante il parlare del funzionario, Bal non riuscì a dire una parola. Una voce chiamò anche me, mentre Bal fu lasciato libero di tornare a sedersi. Faticai a comprendere l’inglese con cui mi comunicavano che ero diventato genitore di Bal Krishna.
Con fiducia, mi dicevano, riponevano in me le responsabilità di educarlo e crescerlo. Al termine del colloquio, una stretta di mano con le congratulazioni e un augurio. Ritirai le due buste che mi consegnarono, velocemente raccolsi tutto, io e Bal ci guardammo e
all’unisono salutammo la commissione: «Ciao-ciao», «Bye-bye». I funzionari
sorrisero, stupiti dal saluto italiano uscito dalla bocca di Bal.
Liberati di un peso emotivo, schizzammo giù per le scale ripide e in legno. In un lampo ci trovavamo nuovamente in strada, fuori dal quartiere. Nello zaino, documenti fondamentali per il nostro futuro. Arrivati in albergo aprii la finestra, e lasciai che l’aria fresca della sera entrasse nella stanza.
Rimasi lì senza pensare a niente, sentendo solo i miei piedi che premevano sul pavimento, mentre gli occhi erano fissi su Bal. In lontananza, sentivo il latrato di cani. Io non ero io, io non ero niente – e questo mi sembrava meraviglioso, guardando quel visino che mi domandava “Papà piange?”