Ho conosciuto Felice Andreasi nel 2004, mentre stavo preparando il cortometraggio Nanà. Speravo volesse interpretare il ruolo principale di Nandu e così andai a trovarlo a Cortazzone nella casa-atelier dove viveva con la moglie Grazia. Parlammo a lungo, gli spiegai la trama e le atmosfere. Lo convinsi e Nanà è stata una delle esperienze più intense della mia vita artistica. Quel film ha visto anche l’ultima interpretazione di Andreasi che, già malato, sarebbe scomparso il giorno di Natale dell’anno dopo, nel 2005.
Sono tornato in quella casa di Cortazzone per salutare Grazia, un’amica vera, che vive i suoi ottant’anni con la leggerezza e la profondità che solo le donne che hanno vissuto intensamente sanno trasmettere. Credevo di aver conosciuto a fondo Felice, ma mi è rimasta la curiosità di conoscere la loro storia d’amore e aggiungere tasselli alla ricerca sull’artista Felice Andreasi. Grazia sorride e quasi si scusa: «Non è facile raccontare Felice, era un uomo straordinario, fuori dal comune. Come ci siamo conosciuti? Ma davvero interessa a qualcuno? È una vicenda intima. La nostra storia ricorda un po’ la trama di un film francese che nessuno ha ancora girato». La pensava così anche Gianni Penati, un fotografo amico di famiglia. E allora eccola la traccia della sceneggiatura di questa storia d’amore che potremmo intitolare L’uomo con il binocolo e la fanciulla che mangiava la mela, con Felice e Grazia protagonisti e Penati nel ruolo di aiuto regista. Location: Torino nel dopoguerra. Il binocolo è lo stesso che Grazia ancora conserva in casa tra mille altri cimeli e le fotografie di una vita artistica straordinaria.
Prima scena: studio di pittore, interno giorno. Felice dipinge. Ha affittato una soffitta in corso Rosselli e quando lascia i pennelli per distrarsi prende il binocolo e osserva fuori dalla finestra, curiosando lungo la strada e nelle case di fronte. Cerca ispirazione, un colore, un taglio di luce. Non era un ficcanaso, gli interessava cogliere attimi. I ricordi di Grazia vanno in flashack: «Io abitavo quasi di fronte a lui e spesso andavo a mangiare una mela sul balcone. Non sapevo di essere osservata». Felice notò quella giovane donna e chiese a Gianni Penati di informarsi. E così Gianni si mise alla ricerca della fanciulla che mangiava la mela sul balcone. Trovò il numero di telefono e lo passò all’amico. Iniziò un corteggiamento insolito che oggi considereremmo al limite dello stalking. È ancora Grazia a svelarsi: «Per due anni mi chiamò al telefono. In quel periodo ero sposata e a volte capitava di ricevere telefonate da sconosciuti e logicamente riattaccavo, ma quando sentivo la voce di Felice, che ancora non conoscevo, non so per quale motivo, non riuscivo a riattaccare. Quella voce mi piaceva, mi stava catturando». Cambio scena: un giorno, un ignaro amico del marito porta Felice a una festa e i due si incontrano. Grazie rivive quei momenti: «Fui subito colpita dal suo modo di fare. Il giorno dopo si presentò alla mia porta e mi disse che voleva farmi un ritratto. In quell’attimo ho capito che Felice sarebbe stato l’uomo della mia vita. Mi ero innamorata perdutamente». Altra scena. Grazia affronta la questione con il marito: «Mi ero sposata giovane. Lo conoscevo da quando avevo 15 anni. Non è stato facile lasciarlo, ma non volevo mentirgli. Mi chiese se ero innamorata di quell’altro e gli risposi: sì dal primo momento che ho visto Felice. Sono stata sincera». Nuova scena, altri ricordi. «Un giorno andai con mio fratello che accompagnava Giorgio Arlorio, sceneggiatore e amico di Mario Monicelli, nella casa di Felice e mi ricordo perfettamente che pensavo “eccomi qua, andiamo via insieme”. Credo che un amore così sia difficilissimo incontrarlo e poterlo vivere pienamente. Sono stata fortunata». La traccia di sceneggiatura percorre il tempo. I due decidono di mettersi insieme. Nel 1974 Grazia divorzia e tre anni dopo sposa Felice che nel frattempo si era fatto conoscere nel mondo del cinema e del cabaret con quei suoi personaggi stralunati, ironici, compassati, fuori dagli schemi della comicità tradizionale. «Ho vissuto con lui in un’atmosfera romantica come in certi film di Buster Keaton. Ero la sua consigliera e leggevo i copioni che arrivavano a Felice. Ricordo certe serate di festa a casa di amici: lui scrutava gli ospiti e poi d’emblée prendeva la scena e imitava coloro che lo avevano più colpito. Mi divertivo come una matta».
In casa con loro per 30 anni c’era anche Coco il pappagallo che ispirò Enzo Tortora nel gioco di Portobello
In casa, tra i tanti quadri c’è anche un “ritratto” di Coco, il loro pappagallo. Altro ricordo: «È l’unico affetto che che mi sono portata via da casa dopo la separazione da mio marito. Lasciai tutto, portai solo ciò che amavo». Felice ci giocava continuamente come se fosse un bambino e in auto cantava, è rimasto con noi per quasi trent’anni. Coco ballava, e ripeteva sempre ai semafori quando eravamo in auto: «che barba». Grazia racconta un aneddoto che pochi conoscono: quando Felice conobbe Enzo Tortora, fu lui a suggerirgli di inserire nel programma tv “Portobello” il gioco del pappagallo. Sta per cambiare la location. Andreasi e moglie vivono a Torino in via Moncalvo. Lui si divide tra cinema e pittura. Grazia però ha un sogno. «Fin da piccola ho sofferto la città quando mi hanno portata via da Rorà in Val Pellice, e così presi alcuni giornali e cercai gli annunci immobiliari. Li abbiamo sfogliati e c’era l’annuncio di una casa a Montafia. Per un anno siamo andati un po’ girovagando tra le Langhe e il Monferrato. Finché capitammo a Cortazzone. Un paesino, le case in mattoni rossi. Ce n’era una in vendita. Ci piacque e la prendemmo. Era il 1975». Andreasi e Grazia “emigrano” nell’Astigiano. Non mancano i richiami delle grandi città. Un giorno vennero alcuni agenti del Bagaglino di Roma a chiedergli di trasferirsi nella capitale per un importante contratto, ma lui rifiutò. Stava bene tra la gente e amava le lunghe passeggiate nei boschi. Si fece subito uno studio per dipingere e raccontava divertito il primo incontro con il contadino suo nuovo vicino di casa che si presentò così: «Mi chiamo Carlo Ponti, ma mia fumna non è la Sofia Loren». Grazia sintetizza quella loro nuova vita: «Le passioni maggiori di Felice erano la pittura, la Juventus e poi io. Lui rideva e diceva che non era vero o perlomeno non in quell’ordine».
Con Felice e Mario Monicelli sul set di Nanà l’ultimo film di Andreasi
La sceneggiatura dovrebbe far riflettere su quante persone oggi hanno una storia d’amore simile a questa? Chissà, forse erano altri tempi, forse c’era un contatto umano diverso, comunque Grazia e Felice sono stati unici. Ma andiamo avanti con la nostra trama. All’inizio della carriera, Felice aveva comprato un registratore a doppia pista, con cui si divertiva a “giocare” con la sua voce. L’incontro con Claudia Giannotti fu fondamentale per la sua carriera di attore, perché lo portò a doppiare tutti i personaggi in uno dei capolavori italiani di Mario Monicelli, I compagni, film del 1963. La magia del cinema li porterà a reincontrarsi dopo quarant’anni, sul set di Nanà. Durante le riprese Mario mi raccontava estasiato la bravura di Felice, di cambiare totalmente il tono di voce, da un personaggio all’altro. Ci sono stati anche momenti di relax. Non dimenticherò mai le partite a calciobalilla tra me, mio padre, Felice Andreasi e Mario Monicelli durante le riprese a Moleto, piccolo borgo con le case in mattoni e tufo immerso nel Monferrato. Quel mio “piccolo grande film” ha ricevuto, oltre agli elogi di registi come Pupi Avati al festival internazionale di Bellaria, i premi al Festival di Venezia “Cinecittà Holding” (come miglior corto italiano) e al Miff di Milano, oltre a un premio ritirato all’Istituto Italiano di Cultura di Los Angeles. Durante le riprese, Grazia mi confidò che Felice non stava bene. Il Parkinson stava avanzando. Grazia, con la sua dolcezza e persuasione, lo affiancò. Lei ha sempre consigliato e letto le sceneggiature che arrivavano a Felice e, molto spesso, era lei che determinava la decisione finale, anche perché gli provava le battute dei copioni, e fu così anche per Nanà. Felice ebbe tempo di vedere quel mio film finito. Ci complimentammo. Mi disse che si era trovato a suo agio come non mai nel personaggio: «Peccato sia un cortometraggio!». Ho ancora “incontrato” Felice in sogno mentre preparavo il film Zoè con Francesco Baccini, Serena Grandi, Bebo Storti, Andrea Pinketts. Mi svegliai con l’idea di chiamare Grazia per farmi raccontare alcuni fatti da lei vissuti durante la guerra. La storia di Grazia e Felice può diventare un film straordinario. Prima di lasciare la casa di Cortazzone penso che è vero il detto «Dietro un grande uomo, c’è sempre una grande donna». Lo dico a Grazia. Lei mi guarda, sorride e mi abbraccia: «Ma va là, sono stupidate… non scherziamo. Felice era un uomo straordinario, io mi sono divertita a fargli da spalla».
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