L’epopea del Salera, l’albergo ristorante nella memoria degli astigiani
Duecento anni di storia, sedi che si sono susseguite nel tempo trasformandone estetica e in parte destinazione d'uso. Questa è stata l'epopea dell'albergo ristorante Salera. Prima in Via Gardini, in pieno centro, ha affascinato gli astigiani con la sua atmosfera liberty, i succulenti classici della cucina piemontese e la frizzante gestione di Joselito. Dagli Anni Sessanta, nella nuova e ampia struttura un zona nord, ha ospitato cene sociali, meeting, serate con squadre sportive, veglioni studenteschi, comitive di turisti, con una clientela sempre più internazionale. Vivaio di generazioni di futuri ristoratori astigiani, ha perso nell'ultimo decennio lo smalto d'antan, fino alla definitiva chiusura nel novembre 2017. Quale sarà il suo futuro? Sono in molti a chiederselo.
«In essa [Osteria del Cannon d’oro, ndr] e nell’albergo annesso si trattano i forestieri bene». da Stefano Giuseppe Incisa, Giornale d’Asti, 1789
«Da quanto abbiamo capito, la proprietà ha deciso di chiudere questa struttura dopo la partenza del nostro gruppo. A noi sembra un gran peccato perché è una struttura importante per la città di Asti e unica nel suo genere: avevamo contato in una collaborazione proficua per la stagione 2018. Peccato che non sarà possibile». Da Tripadvisor, 14 novembre 2017 Testimonianza di un gruppo di turisti tedeschi
Dal Cannon d’oro al Centrale Salera in via Gardini
L’oggetto di queste “recensioni” è l’Hotel Salera (in un remoto passato “Cannon d’oro”), l’albergo ristorante che ha accompagnato la storia di Asti per almeno due secoli. Positive entrambe, a distanza di più di duecento anni. Quella comparsa su Tripadvisor (il celebre aggregatore di recensioni sulle strutture ricettive), suona come un epitaffio: l’ultima gestione, infatti, ha deciso di chiudere definitivamente e dal 12 novembre 2017 il Salera è diventato “ex”.
Come altre strutture ricettive della città – ugualmente antiche e in gran parte oggi scomparse, dal Leon d’oro all’Albergo del Cervo –, il Salera ha visto cambiare insegna e ubicazione. Stando alle cronache dell’abate Incisa (fine Settecento), era osteria con stallaggio con il nome di Cannon d’oro, situata in via Garibaldi (allora Contrada Turinetto), alla confluenza di questa strada con la piazza del Quartier Nuovo, poi piazza della Libertà. Area che nell’Ottocento faceva tutt’uno con la piazza Alfieri, essendo del primo Novecento le delibere comunali che istituirono sia via Gardini sia piazza della Libertà.
Con questo medesimo indirizzo è citata da una curiosa guida per viaggiatori compilata nel 1897 che raccomanda aziende, negozi e alberghi, oltre che indicare percorsi ferroviari e di navigazione sui laghi italo-svizzeri. Compare il nome nuovo, Albergo Centrale e Salera, si precisa la proprietà (Arri Vincenzo) e se ne sintetizzano le caratteristiche e i servizi: completamente rimesso a nuovo, dotato di ristorante e di caloriferi, ben frequentato da viaggiatori di commercio, comodo agli omnibus e ai treni. Con lo stesso nome e la stessa proprietà è presentato in una pubblicità del 1916, ancora più attraente. Si citano le camere ben riscaldate e aerate, il gran salone e la terrazza per pranzi e riunioni, si decanta la specializzazione in vini delle colline astigiane ed esteri (a prezzi moderati!). La stessa réclame ricorda che l’albergo è in zona è centrale, vicino sia alla stazione ferroviaria sia agli uffici pubblici e ha tutte le dotazioni atte alla comunicazione.
Alla fine degli Anni Sessanta dell’Ottocento era stato edificato l’elegante Palazzo Armandi che la Banca Agraria Bruno nel 1925 elesse a sua sede, fondando al tempo stesso l’Immobiliare Salera. Fotografie e acquerelli della prima metà del Novecento ritraggono l’edificio e l’insegna.
Gli interni rivelavano grandi specchi a parete, stucchi, velluti rossi, tavoli apparecchiati con tovaglie di fiandra, posate d’argento, fini porcellane. Un ambiente di solido gusto borghese, con un tocco che faceva tanto “Torino sabauda”, accoglieva pranzi di lavoro, festeggiamenti familiari, viaggiatori di commercio di un certo livello. Con la gestione di Giuseppe Bruno, detto Pinin, astigiano purosangue, arriva nelle cucine del Salera Aldo Nosenzo, detto ël Ciorgnèt, cuoco eccellente, tradizionalista, intransigente. L’impostazione di cucina non muta con la gestione successiva, quella di Giuseppe Vittorio Olivero, per tutti Joselito, che resse le sorti del locale dal 1955 al ’65. Il “Vecchio” Salera acquistò con questo personaggio dai mille sorprendenti mestieri un che di frizzante.
Perché Joselito era un artista a tutto tondo: suonatore, compositore di livello (suoi tanghi e valzer di carattere sudamericano hanno fatto il giro del mondo), caricaturista e pittore, cui piaceva estrinsecare la sua vena anche sui cartoncini dei menù. «Gli astigiani con lui passavano allegre serate a mangiare, più ancora a bere, a far musica e caricature e scherzi rimasti famosi». A scrivere queste parole è il compianto avvocato gastronomo Giovanni Goria (vedi a pagina 34) che, a sua volta, ha raccolto le memorie di Aldo Cavagnero, proprio quell’Aldo di Castiglione che ha concluso prematuramente la sua brillante carriera nel delizioso locale di via Giobert. Cavagnero ha ricordato il suo apprendistato quando, giovanissimo, veniva spedito a fare acquisti di verdura, frutta e pollame al mercato dei contadini, allora nell’attuale piazza del Palio. Al Salera dunque, come sottolinea Goria, si faceva una cucina stagionale e “di mercato”, ancor prima delle teorizzazioni di Gault&Millau e dei celebrati chef francesi.
Nel menù del vecchio ristorante ogni giorno della settimana era dedicato a una specialità
È ancora Aldo, che fu poi aiuto-cuoco, a descrivere la mitica trippa in umido (da lui ripresa nel suo ristorante, con la piccola correzione di una gratinatura in forno, si veda Astigiani, n° 1, pag 101 del settembre 2012), così buona perché veniva preparata pazientemente e insaporita con tanti profumi dell’orto. Non c’era bisogno di prenotarla, bastava andare a pranzo di sabato.
Il bello del Salera era che coniugava la qualità con un certo carattere popolare, conservando il rito dei piatti settimanali comune in molte trattorie del tempo.
Al giovedì c’erano gli gnocchi di patate, conditi alla bava o con un buon ragù di carne, e i batsoà tra i secondi. Il mercoledì nel salone faceva trionfante ingresso lo chef per colmare i piatti degli avventori con i fumanti tagli del bollito misto. Il venerdì era consacrato al merluzzo al verde servito con la polenta. Tutti i santi giorni c’era il minestrone, proposto freddo d’estate e, soprattutto il sabato e la domenica, ecco i “grandi” della cucina piemontese borghese: la fonduta, la finanziera, il fritto misto, il brasato rimasto in fusione in “vero” Barolo.
Il capitolo vini, altra gloria. Soprattutto nel periodo di Joselito, che ne era conoscitore e ricercatore, molti venivano al Salera per trovare, oltre al meglio del territorio, buone scelte di Châteaux e di Champagne francesi. La carriera di Aldo Cavagnero prosegue, dal 1965, al “Nuovo” Salera di via Monsignor Marello in qualità di chef, e con sé porta i suoi cavalli da battaglia, la finanziera in primis. Con lui – ed ecco il primo allievo di quella “nave-scuola” – lavorano certi camerieri i cui nomi sono diventati importanti per la ristorazione astigiana successiva: Mario Cornero, fondatore con la moglie de “La Fioraia” in Castello d’Annone, lasciata in eredità come ristorante di classe alla moglie stessa e ai due figli dopo la sua prematura scomparsa; Mario Bigliani, primo sommelier ad Asti, poi gestore per qualche tempo della “Enoteca del Castello” di Costigliole; Renato Miotto, il popolare patron de “La Piuma d’oro” di via Cesare Battisti. A ricordare questi personaggi, e tante altre cose, è Antonio Campagna, che oggi gestisce con la famiglia il ristorante “L’angolo del Beato” in vicolo Cavalleri, dopo una precedente esperienza a “La Vigna” dell’Hotel Rainero.
Dal 1965 la nuova e moderna struttura in zona Fortino. Ricordi sportivi di chi c’era: foto ricordo con Gigi Riva
Al nuovo Salera Antonio, appena diciottenne, fece il suo apprendistato per tre anni, durante i quali si contavano ben 27 dipendenti. «Erano tempi, quelli, in cui noi ragazzi appena assunti facevamo di tutto prima di passare alla sala, compreso il lavare i piatti. Il primo insegnamento che mi impartirono i camerieri più anziani fu il taglio del pane (si dovevano rispettare precise regole nell’affettare le micche e le grissie), poi la disposizione delle posate.
In breve tempo sono diventato bravo, tanto che spesso mi esibivo con la cottura “alla lampada” fatta, o rifinita, direttamente davanti al commensale: il filetto alla Voronoff mi è rimasto nel cuore, e me lo sono portato appresso». Gli Anni Sessanta e Settanta sono, in genere, connotati da una ristorazione che prevede il carrello degli antipasti e talora delle carni, e il servizio “alla francese”, con i camerieri che passano di tavolo in tavolo con il vassoio. Così anche al Salera. importante della città: ospita i matrimoni più chic degli astigiani, è eletto come sede delle cene sociali di club come il Rotary, il Lions, il Panathlon, ed è meta del crescente turismo straniero. Sono numerosi anche i meeting commerciali, le presentazioni, le cene di leva. Insomma, se si tratta di “fare bella figura”, si va al Salera, il cui ristorante non rinuncia a proporre pranzi e cene “quotidiane” alla famigliola o al gruppo di amici che ha deciso di mangiar fuori.
A questo scopo sono adibite cinque sale più piccole, che affiancano il salone grande, capace di 300 coperti. «La “vera” cultura del vino, poi, è venuta in seguito – osserva Campagna–, andavano bene Grignolini, Dolcetti e Barbere senza star a fare ricerche mirate sulle etichette e sul valore “assoluto” dell’azienda. D’altra parte, in quegli anni, i produttori di qualità nell’Astigiano non erano molti. Anche il successo del Barolo era ancora lontano». Lo spostamento di sede nella zona nord della città in Strada Fortino, poi via Monsignor Marello, conferisce all’Hotel Salera una nuova fisionomia.
Si tratta di una struttura ricettiva moderna – occupa un’area di 7000 mq, con una superficie coperta di 1600 mq – dalle molte vocazioni e dai molti servizi: albergo a quattro stelle con una cinquantina di camere spaziose e confortevoli, saloni per feste, meeting e convegni (nei locali all’ultimo piano), sale ristorante dove si pratica una cucina d’impronta piemontese, giardino, parcheggio, anche coperto. Costruito a partire dal 1965, con l’insegna sul tetto visibile anche da chi transiterà sulla futura autostrada Torino-Piacenza, il “Nuovo” Salera diventa presto l’albergo più importante della città: ospita i matrimoni più chic degli astigiani, è eletto come sede delle cene sociali di club come il Rotary, il Lions, il Panathlon, ed è meta del crescente turismo straniero. Sono numerosi anche i meeting commerciali, le presentazioni, le cene di leva.
Insomma, se si tratta di “fare la bella figura”, si va al Salera, il cui ristorante non rinuncia a proporre pranzi e cene “quotidiane” alla famigliola o al gruppo di amici che ha deciso di mangiar fuori. A questo scopo sono adibite cinque sale più piccole, che affiancano il salone grande, capace di 300 coperti.
Politici, attori e una clientela internazionale. Declino e chiusura nel 2017, un futuro da residenza per anziani?
A proposito delle frequentazioni dell’albergo, è ancora Antonio Campagna (memoria di ferro!) a tirar fuori ricordi preziosi, che riguardano soprattutto il mondo dello sport: «Il Salera è stato “la casa” della Libertas Pallacanestro Asti, il mitico squadrone della Saclà di patron Ercole, che in soli cinque anni aveva fatto una fenomenale scalata, raggiungendo nel 1973 la serie A. Era spesso ospitato da noi il Torino calcio nei weekend in cui giocava in casa. E che dire di Antognoni che nell’Asti Ma.Co.Bi. si è fatto le ossa giocando per due stagioni… Ma le serate più emozionanti sono state quelle dell’aprile 1970, quando il Salera ospitò la squadra del Cagliari – quella di Riva, Albertosi, Domenghini, Nené, per intenderci – che giocò l’ultima di campionato contro il Torino, con lo scudetto ormai in tasca. Ho scambiato qualche commento con “Rombo di tuono”…»
Era una struttura unica ad Asti, per ubicazione e ricettività. Si lavorava molto bene con le comitive straniere: i pullman che provenivano dal Nordeuropa diretti a Roma, facevano sosta proprio nella nostra città, che garantiva, al Salera, un’accoglienza capace di soddisfare grandi numeri».
A parlare è Angelo Lupo che, in società con Valter Fasciola e alcuni dipendenti dell’albergo, ha gestito il Salera dal 1974 al ’92. Quasi vent’anni. «Senza contare i numerosi politici (son passati proprio tutti) impegnati nelle campagne elettorali e nei congressi dei partiti o famosi attori e attrici in scena negli spettacoli teatrali in città. In diciotto anni, non ho mai avuto una questione con un cliente. Neppure con la troupe che soggiornò da noi quando nel 1980 si girò il film Spaghetti a mezzanotte. Banfi e la Bouchet: gentilissimi e alla mano». Sorride, Lupo, nel ricordare quella vicenda che ebbe anche una coda giudiziaria, per via di certe fatture non pagate, ma non per colpa della troupe (si veda Astigiani, n° 7, pagg 52-58). Tra l’altro in quei giorni la Bouquet era in albergo con il marito produttore Luigi Borghese e il figlioletto Alessandro, destinato a diventare un famoso chef, dalle frequenti apparizioni televisive.
E quando il discorso si sposta sulla ristorazione, Lupo racconta che si lavorava in maniera specializzata (tre chef, ciascuno esperto in una tipologia di portate) e con criteri “moderni”: cura nella presentazione del piatto, attenzione alla qualità più che alla quantità, rispetto della tradizione piemontese, con qualche piccola puntata nella cucina internazionale. «Piacevano certe preparazioni “scenografiche”. Come il salmone in bellavista, che arrivava in sala intero, ben disposto su di un carrello con tutte le sue guarnizioni, per essere porzionato davanti ai commensali».
C’è ancora un periodo particolare per la vita del Salera: i dieci anni della gestione di Albino Gado, alle prese con la cucina fin da giovanissimo e con esperinze di catering. «Ho messo a frutto la mia passione per le specialità piemontesi classiche, con cui ho voluto connotare la cucina del ristorante. Per quanto riguarda l’albergo mi è sembrato opportuno trasformare la struttura in un centro convegni. Si faceva così “girare” il salone cambiandogli faccia, a volte, tre volte al giorno: allestito la mattina per il convegno, diventava poi sala da pranzo. Si ripreparava il tutto per ospitare la cena. Quanto lavoro!». La clientela di “questo” Salera è sempre più internazionale (al 70% straniera, tra tedeschi e americani) e il gestore lavora a stretto contatto con le agenzie di viaggio: «Nel 2001 – racconta Gado – avevo stipulato un interessante contratto con un’agenzia di Boston. L’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre ci sconvolse tutti. Persi l’intera commessa, naturalmente».
Ancora cambiamenti. La società Vip Hotel si riprende la gestione (l’hotel nel settembre 2012, il ristorante nel marzo 2014) e si impegna a realizzare un profondo restyling della struttura, piuttosto trascurata negli ultimi tempi. Si programmano lavori per migliorare il confort della clientela e rifinire particolari funzionali ed estetici degli interni.
Invece, passano pochi anni e arriva la doccia fredda della chiusura. A partire dal 12 novembre 2017. Quel giorno l’edizione astigiana de La Stampa, pubblica la notizia: «Nei giorni scorsi la Vip Hotel, la srl proprietaria della struttura (famiglie Massimelli e Soave), ha siglato l’accordo con i sindacati relativo alla procedura di licenziamento dei sette dipendenti per cessata attività. L’attività non era più redditizia: pochi clienti e costi di gestione elevati. Chiuso da tempo il ristorante, ormai lontani gli anni di splendore. L’Hotel solo un anno e mezzo fa aveva avviato la procedura per l’ampliamento». Nel cortile posteriore dell’hotel, vicino al liceo “Vercelli”, stava infatti sorgendo una nuova struttura destinata, pare, a diventare parte integrante dei servizi per l’albergo, che si diceva pronto a essere trasformato in residenza per anziani.
La notizia, in verità, pare contraddire le speranze di chi parla di potenziamento turistico e della necessità di puntare sull’incremento della capacità ricettiva di Asti. «Negli anni – conclude La Stampa – l’Hotel era diventato un luogo geografico della città». Dire “dove c’è il Salera” era la bussola che orientava nella mappa cittadina, e al tempo stesso identificava un pezzo della zona Nord di Asti. Mette tristezza, oggi, vedere le transenne di plastica arancione che circondano l’area, le siepi da potare, la mancanza di aiuole fiorite, il buio serale. E due straccetti di bandierine colorate che penzolano sbiadite. Tornerà a vivere il Salera? Chi ne vorrà rialzare la bandiera?
Molti astigiani custodiscono nella memoria qualche frammento di vita cittadina rotante attorno al vecchio Salera degli anni ‘55-‘65 e, prima ancora, fra le due guerre […]. La mattina nei bar del centro si commentava di un pranzo sontuoso ed elegante fatto la sera prima con uomini importanti e donne “imbardatissime” […], il tutto, poi, servito in una sala che pareva quella di Cavour al Cambio di Piazza Carignano a Torino, con gli alti specchi, gli stucchi d’oro, i velluti rossi; e ancora, l’argenteria abbondante e vecchiotta, le venerabili porcellane, le tovaglie di fiandra, ed i camerieri anziani o almeno adulti, compiti e discreti che consigliavano il cliente con rispettosa confidenza, parlando astesan con qualche studiato tocco torinese da bin. Su questo singolare albergo-ristorante di provincia piemontese, assai migliore come cucina dei pari grado dell’epoca nelle altre città, locale insieme familiare e soigné, imperò dal 1955 al 1965, imprimendovi un suo carattere, quella figura insolita, eclettica e astigianissima che fu Giuseppe Vittorio Olivero che tutti conoscevano e chiamavano Joselito. Nel 1955 aveva 50 anni giusti perché era nato il 12 febbraio 1905 in via XX Settembre all’ombra dello storico Palazzo Catena. Vive gli anni un po’ scapigliati e ribelli dell’adolescenza: il suo primo mestiere è di barbitonsore ma volentieri scappava al pennello insaponato per tracciare col carboncino sui marciapiedi le sue strane ma folgoranti caricature dei personaggi astigiani del tempo, ora del banchiere, ora del commerciante “da vacche”, ora del carbonaio; o per andarsene a far musica, prima col trombone, più tardi con la chitarra mediante la quale giunse a vette di raffinata espressione artistica, suonando di tutto, instancabilmente, da Bach a Granados alle musichette del tempo, per noi tanto nostalgiche.
Entusiasmavano veramente la gente i tanghi e valzer sudamericani, suonati da lui e dai suoi giovani orchestrali astigiani negli anni ‘30: mentre certe sue composizioni da chitarra – Ascensión, la Canzone del bimbo, Amargura e tante altre – facevano realmente il giro del mondo […]. La sua grande vocazione fu la pittura: una sua inconfondibile grafica e personalissima coloritura, espressiva, tutta tesa a scavare la figura umana, a rivelarla per iperbole – non direi per caricatura – nella sua miseria e nella sua allegria, nel dolore, nella deformità, nel tripudio della Il menu del vecchio Salera nel 1924. Si noti il tacchino in gelatina, annunciato come “Dindo” baldoria; fino all’ultima tematica sua nel tempo, ancora realistica e sofferta, che fu quella della Resistenza partigiana. Gli astigiani che con lui passavano allegre serate a mangiare, più ancora a bere, a far musica e caricature e scherzi.
Dopo i lontani splendori dell’anteguerra colorati di leggenda, il Salera subito rifiorisce nella Repubblica democratica con la gestione di Giuseppe Bruno detto Pinin, astigiano di puro sangue. Egli mette a capo delle cucine del Salera il mitico Aldo Nosenzo, detto él Ciorgnèt, cuoco bravissimo, tradizionale, intransigente, per lui la cucina piemontese era come il Vangelo, non se ne cambiava neanche una lettera. La sua sovranità sulle cucine del Salera raggiunge l’apice e trionfa nel decennio di gestione di Joselito (‘55-‘65), quando sono definitivamente cessate le restrizioni della guerra in un modo o nell’altro risentite sino alla fine degli Anni Quaranta e comincia l’era della prosperità e della voglia matta di spendere e di mangiar bene. Él Ciorgnèt era alto e lungo, iracondo, gridava e strapazzava gli aiutanti, specialmente uno – un ragazzo silenzioso che era il più bravo di tutti e si chiamava Aldo, subito battezzato Aldo cit in contrapposizione al grosso chef che chiamavano Aldo gròs. Aldo “piccolo” dopo quasi venti anni di Salera è diventato oggi “Aldo di Castiglione”, titolare e cuoco di quel suo ristorante sulla collina di Castiglione, molto amato e frequentato dagli astigiani, che costituisce in questo momento il più autorevole continuatore della vecchia cucina astigiana, avente le sue radici nel Salera di anteguerra, nel Cervo, nel Leon d’Oro, nell’Antico Paradiso, nel Falcone e nel Reale senza contare le rinomate buone bettole, come l’Osteria di “Cico per tèra” al Ponte Verde.
È proprio dalla memoria di Aldo, paziente ed un po’ commossa, che ricaviamo le notizie per comporre il quadro di come si mangiava al Salera nel periodo di Giuseppe Vittorio Olivero. Intanto non v’erano lunghe conservazioni, la roba si comprava e si consumava in un giorno.
Tutte le mattine presto, l’aiutante di cucina più fidato, Aldo cit, veniva mandato sul mercato dei contadini – ora Piazza del Palio – a comprare la verdura, la frutta, il pollame più fragrante della stagione […]. Secondo principio era che ogni giorno della settimana si facevano certi piatti, L’autoritratto di Giuseppe Olivero, detto Joselito, del 1971 “L’adoratore di Barbera” dipinto da Joselito nel 1976 ha le fattezze di Emanuele Pastrone cosicché la gente era sicura un certo giorno di trovare pronto il piatto di cui aveva voglia. Così il lunedì v’era la pastasciutta di linguine col ragù di carne, e le polpettine o quajétte imbottite di pancetta e profumi, ad una cui variazione piccantina e spagnoleggiante introdotta proprio da Joselito venne dato il nome famoso di “Messicani”.
Chi amava mangiare i bolliti misti non occorreva che li ordinasse, gli bastava andare al vecchio Salera il mercoledì quando nel salone faceva maestoso ingresso lo chef coi suoi aiutanti, tutti armati di coltelli lunghi come sciabole, i quali si mettevano a colmare i piatti degli avventori con fumanti fettone di scaramella, di punta, di fiocco, di culatta, di spalla, di noce della gamba, di testina, di coda, di zampino, e poi di gallina lessa, di cotechino e di rolata (oggi non si fa quasi più, era un gran rotolo di copertina di petto, farcita di uova sode, salame cotto, pestata di lardo, pepe, aglio ed erbe come prezzemolo e salvia, qualche bacchettina di carota, ben legata con forte spago e fatta lessare col resto, che si serviva a grandi fette bellissime a vedersi).
Con i bolliti venivano serviti i bagnetti freschi, quello verde e quello rosso e quello cotto, la senape ed il rafano; a disposizione di tutti il gran vaso di sale grosso appena un po’ triturato con la bottiglia, di cui i buongustai spargevano una manciatella sulle carni bollenti, allontanando poi i pezzi di sale non sciolti al momento di fare il boccone. Oggi, mi domando io, chi sa ancora che sul lesso non bisogna mettere mai il sale fine?! Quanto doveva essere buono quel gran bollito del Salera anni ‘50 e ‘60, di vitello di cascina nostrana, certamente non punturato, certamente non rimpinzato di schifosi mangimi giapponesi con la puzzina di pesce!
Al giovedì c’erano gli gnocchi di patate, conditi alla bava con burro, parmigiano e fontina valdostana filante, oppure col condimento di carne tritata grossa e pomodoro; fra i secondi, sempre al giovedì, si facevano i buoni ossibuchi gremolati in padella, oggi quasi dimenticati nella cucina piemontese; e soprattutto i batsoà.
Mi raccontava un collega avvocato che mangiava al Salera, che un giovedì spuntò un signore corpulento, si sedette, ordinò quattro porzioni di batsoà – una montagna biondeggiante – con calma se li mangiò tutti bevendoci sopra una bottiglia di Grignolino, non chiese altro, pagò, si pulì ibaffi col tovagliolo e sparì. Il venerdì era sacro al merluzzo al verde, bagnato col latte fresco, servito con la polenta, che si diceva essere il merluzzo più buono, morbido e perfetto della città. Ma per chi voleva restare nel pranzo di magro, c’era anche una squisita anguilla alla livornese, e d’estate bellissime tinche d’oro in carpione.
Al sabato, trippa, come in moltissime trattorie del tempo. Era così buona, quella trippa in umido, perché veniva pazientemente preparata, lavata tante volte e poi lessata con profumi ed ortaggi, sicché conservava il suo buon sapore naturale e quel colore tra il grigio caldo ed il giallino, mica bianca come la neve e totalmente priva di qualsiasi gusto che non sia di plastica, come la conciano oggi a forza di sostanze chimiche caustiche e biancanti […]. Al Salera ci mettevano sedano, carota e cipolla, salvia, prezzemolo e patate, la insaporivano con un battuto di lardo e di prosciutto crudo, le davano un po’ di colore con poca conserva di pomodoro, vi aggiungevano qualche cucchiaio di fagioli borlotti freschi d’estate, la bagnavano con mestoli di buonissimo brodo di carne, restringevano il sugo con una lunga cottura (e con un bel piotin messo fin dall’inizio a far da leggero collante), infine il cliente, se credeva, la informaggiava nel piatto.
Tutti i giorni che faceva Iddio c’era il minestrone, allora chiamato piemontesemente “la giardinera”, fatto con tutte, assolutamente tutte le verdure di stagione […]. D’estate il minestrone era arricchito da un bel pesto ligure, per il quale arrivava il basilico autentico da Genova, poi, sia nel minestrone sia nella zuppa di soli fagioli, d’estate, non veniva messa la pasta, tipo le lasagnette, ma del buon riso. I piatti di minestrone freddo, con pesto, riso e fagioli venivano messi in offerta sulla credenza – non proprio freddi ma tiepidi – e i clienti li guardavano, ne fiutavano l’aroma e spesso se ne prendevano uno, specie nel colmo dell’estate.
Gli antipasti erano meno numerosi di adesso: consistevano in buonissimi affettati col burro, gran piatti di acciughe, di sardine e di sottaceti messi via in casa, peperoni con la salsa d’acciuga, in primavera gran terrine di tonno con uova sode e cipollotti crudi. Si faceva anche il vitel tonné, e nei pranzi solenni come a Natale il paté di fegato. Non c’erano invece tutti i flan e gli sformati con salsine e le terrinette che usano adesso. Gli antipasti caldi erano limitati alla lingua in bagnetto cotto verde e rosso e talvolta al fritto misto. Inutile dire che quest’ultimo – giustamente servito da antipasto e non da secondo – non conteneva tutte le sciocche aggiunte odierne (banana, ananas, amaretto) ma comprendeva solo cervella, filoni, animelle, salsiccia, bistecchina milanese e piccatina di maiale, frittura nera e frittura bianca, le carote gialle a bacchetta e, unico elemento dolce, un semolino bianco (latte, uovo, semola e vaniglia) a forma di rombo.
Tra i secondi, ambitissimi, erano i brasati fatti veramente con buone bottiglie di Barolo in lunga fusione, il comodà di carni miste, il fricandò astigiano e soprattutto, principe di nobiltà, il “misto arrosti”: il cliente buongustaio si trovava nel piatto almeno quattro elementi ben dorati ed arrostiti: una fetta di vitello (sottopaletta o tenerone), una coscia posteriore di coniglio, una bell’anca di faraona, un pezzo di spalla di capretto; qualche volta c’era invece il capocollo o il carré di maiale, l’anatra o la tacchinella, o semplicemente i magnifici galletti ruspanti di quel tempo […].
Al Salera in autunno spesso c’erano grandi tavolate di cacciatori anche “di fuori”, amici di Joselito, che ordinavano o addirittura si portavano la selvaggina: erano allora lepri in civet e in tanti e diversi intingoli, fagiani in salmì coi tartufi, pernici grigie e rosse arrostite con le erbe e bagnate di Madera, raramente beccacce e germani, invece immensi risotti con le quaglie. I dessert consistevano in crostate di frutta, classici bonet astigiani, torte castagnaccio di zucche e mele alla monferrina, torta di castagne secche a Pasqua e di castagne fresche ai Santi (ecco il Monte Bianco).
La cantina del Salera era fornitissima: vi era il meglio di tutti i vini delle nostre cascine, dal Barbera al Grignolino, dal Dolcetto al Freisa, dal Moscato d’Asti ai grandi vini albesi Nebbioli e Baroli; e non mancavano le migliori scelte degli Châteaux e degli Champagne francesi. Anzi, proprio nel periodo di Giuseppe Olivero che ne era un buon ricercatore, molti avventori venivano al Salera proprio attirati dalla bontà e schiettezza dei vini.
Il grande salone delle feste del nuovo Salera era anche sede privilegiata dei veglioni che, fino a quel momento, si erano tenuti al Teatro Alfieri, talora al Politeama o al “Winter Garden” di via Carlo Leone Grandi.
Ma quelli all’Alfieri, organizzati pro Croce Verde o il Veglionissimo dello Sport, per lo più carnevaleschi, erano “inter-generazionali”, con madamine in toilettes, coppie anche attempate, autorità e notabili cittadini. Ora tra la fine degli Anni Sessanta e i Settanta la scena la occupano i giovani, che hanno voglia di essere protagonisti esclusivi, di sentire la loro musica, di ballare i loro ritmi, di riconoscersi in un look – zampa di elefante o capelli lunghi che fossero, che cercano l’effetto notte per ballare un lento stretti a ventosa. Che non si accontentano più delle festicciole organizzate all’“angolo dei fessi” del Cocchi per andare nella casa disponibile di un amico, prime occasioni per pomiciate prolungate.
E se qualche Veglione delle matricole già aveva scatenato la goliardia cittadina, ora al Salera imperversano i Veglioni studenteschi, in cui le scuole superiori astigiane, licei e istituti, fanno a gara per la migliore organizzazione, per le trovate più originali, per la più bella miss, per il gruppo musicale più “in”, risorse permettendo. E poi tutti a leggere Intervallo, il supplemento studentesco de La Nuova Provincia, per rivedersi in una foto, per commentare qualche gossip amoroso, per prendere in giro gli amici dei “Geometri” del Giobert – istituto prevalentemente maschile – che ancora una volta si sono associati per il veglione ai “Ragionieri”, con la speranza di ramazzare un po’ di ragazze.
E se il veglione si fa una volta l’anno, tutti i fine settimana c’è il “Whisky Notte”, nel seminterrato della struttura del Salera, che negli Anni Settanta e Ottanta funziona come discoteca. Un locale che per un certo periodo apriva anche la domenica pomeriggio: una “libera uscita” anche per le ragazze che ancora dovevano fare i conti con madri apprensive e padri all’antica. È in questo locale che si esibisce per la gioia degli amici un giovane Giorgio Faletti. Studente di ragioneria, poi iscritto all’Università a Torino, mette a frutto le naturali doti comiche e ironiche di intrattenitore che gli apriranno la strada del cabaret e poi della televisione.
Molti ricordano ancora l’esilarante gag del contadino che, dopo essere andato al cinema, racconta in dialetto agli amici la trama dello Squalo di Spielberg.
Paola Gho
l'autore dell'articolo
[starbox]
Astigiani è un'associazione culturale aperta, senza scopo di lucro, che ha bisogno del sostegno di altri "Innamorati dell'Astigiano" per diffondere e divulgare la storia e le storie del territorio.
Tra i suoi obiettivi: la pubblicazione della rivista trimestrale Astigiani, "finalizzata alla raccolta e diffusione di informazioni e ricerche di storia e cultura astigiana dal passato remoto a quello prossimo, con uno sguardo al presente e la visione verso il futuro (dallo statuto), la raccolta di materiale per la creazione di un archivio fotografico, video e documentale collegato al progetto "Granai della memoria", la realizzazione di presentazioni pubbliche e altri eventi legati al recupero della memoria del territorio.
Quanta bellezza ci regala il nostro territorio nelle varie stagioni. Avete presente quando in primavera incominciano a fiorire i ciliegi? Mille batuffoli bianchi con...
13 gennaio
Impresa alpinistica per l’imprenditore canellese Ssergio Cirio, presidente dell’azienda enomeccanica Arol. Insieme alla guida alpina di Cervinia François Cazzanelli, conquista la cima del...
Gianluigi Faganelli
Genova 22 novembre 1933 – Cocconato 24 luglio 2018
Geologo e insegnante di scienze
Una laurea in Geologia e la passione per le scienze naturali...
In una stanzetta al fondo dei locali al pian terreno di Palazzo Alfieri, che oggi, dopo il restauro, ospitano la Fondazione Guglielminetti, oltre 30...
This website uses cookies to improve your experience while you navigate through the website. Out of these, the cookies that are categorized as necessary are stored on your browser as they are essential for the working of basic functionalities of the website. We also use third-party cookies that help us analyze and understand how you use this website. These cookies will be stored in your browser only with your consent. You also have the option to opt-out of these cookies. But opting out of some of these cookies may affect your browsing experience.
Necessary cookies are absolutely essential for the website to function properly. These cookies ensure basic functionalities and security features of the website, anonymously.
Cookie
Durata
Descrizione
cookielawinfo-checkbox-analytics
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Analytics".
cookielawinfo-checkbox-functional
11 months
The cookie is set by GDPR cookie consent to record the user consent for the cookies in the category "Functional".
cookielawinfo-checkbox-necessary
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookies is used to store the user consent for the cookies in the category "Necessary".
cookielawinfo-checkbox-others
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Other.
cookielawinfo-checkbox-performance
11 months
This cookie is set by GDPR Cookie Consent plugin. The cookie is used to store the user consent for the cookies in the category "Performance".
viewed_cookie_policy
11 months
The cookie is set by the GDPR Cookie Consent plugin and is used to store whether or not user has consented to the use of cookies. It does not store any personal data.
Functional cookies help to perform certain functionalities like sharing the content of the website on social media platforms, collect feedbacks, and other third-party features.
Performance cookies are used to understand and analyze the key performance indexes of the website which helps in delivering a better user experience for the visitors.
Analytical cookies are used to understand how visitors interact with the website. These cookies help provide information on metrics the number of visitors, bounce rate, traffic source, etc.
Advertisement cookies are used to provide visitors with relevant ads and marketing campaigns. These cookies track visitors across websites and collect information to provide customized ads.