Creò la legione “Redenta” con i prigionieri austro-ungarici di origine italiana che erano nei campi di concentramento dello Zar
Nella grande tragedia della prima guerra mondiale (1915-18) ci sono episodi e uomini che hanno avuto ruoli particolari e sorprendenti. Tra questi anche un ufficiale dei carabinieri di origini astigiane, Cosma Manera, che fu protagonista di una pagina semisconosciuta legata all’odissea dei soldati asburgici di origine italiana (friulani, trentini, triestini, istriani e dalmati) chiamati a combattere, sul fronte orientale, contro i Russi. In molti, fino nel 1916, erano caduti prigionieri dell’armata zarista e il governo italiano organizzò una missione per rintracciarli e convincerli ad arruolarsi sotto le bandiere di Casa Savoia. Della missione facevano parte tre ufficiali dei Reali Carabinieri, tra i quali il capitano astigiano Cosma Manera.
Fu scelta la via del Baltico per raggiungere la Russia: la missione italiana si imbarcò in Inghilterra e attraverso Norvegia, Svezia e Finlandia, raggiunse San Pietroburgo. I tre ufficiali presero a girare i campi di prigionia dove i russi tenevano gli austro-ungarici catturati. In pochi mesi un primo contingente di 1698 ex prigionieri poté imbarcarsi alla volta dell’Inghilterra, quindi della Francia e infine dell’Italia. Seguirono un secondo e un terzo contingente, che portarono a circa 4000 il numero degli uomini che si ritrovarono a combattere una seconda volta, ma sotto le bandiere italiane e non più al comando degli ufficiali di Cecco Beppe.
Il capitano Manera, nel frattempo promosso maggiore, proseguì la missione nei primi mesi del 1917, raggiungendo la lontana Siberia, nella baia di Gornostaj, vicino al porto militare di Vladivostok sul Pacifico. Qui reclutò altri prigionieri asburgici di origine italiana. Attraverso marce forzate e usando i treni della Transiberiana, portò altri 1800 uomini a costituire una formazione militare italiana.
I russi concessero l’uso del legname dai boschi siberiani e sorse il campo “Battaglione Redenti” con camerate, dormitori, mensa, forno per il pane. Al centro la piazza per l’alzabandiera del tricolore con lo stemma dei Savoia. Il distaccamento italiano non sarà però un’isola felice. Tutt’attorno l’impero zarista sta crollando sotto i colpi della rivoluzione russa che porterà a novembre del 1917 alla presa di potere da parte dei soviet guidati da Lenin.
Nei mesi precedenti lo Zar Nicola II aveva tentato di salvare il regno e la dinastia abdicando e lasciando San Pietroburgo con tutta la famiglia imperiale. Confinati a Ekaterinenburg sperano nelle truppe lealiste o nell’esilio e non mancano contatti per una fuga in Italia. Ma la storia riserva loro un diverso fatale destino: in una notte di luglio sono sterminati nella cantina della dimora che li ospita. La morte dello Zar addolora moltissimo Manera, che lo aveva conosciuto a San Pietroburgo. Anche Vittorio Emanuele III ne resta sconvolto, non solo per la sua amicizia personale con Nicola, che aveva accolto a Racconigi pochi anni prima, ma per il dolore della regina Elena, montenegrina, cresciuta alla corte dei Romanov.
Ad Asti la valle dei Manera
Ma chi era Cosma Manera? Nato ad Asti il 15 giugno del 1876, era il primogenito di una famiglia di antiche e solide tradizioni militari. Secondo Carlo Ecclesia, che lo citò nel 1976, la valle alle porte di Asti, nella regione di Viatosto, è la “Valle dei Manera” (o Valmanera), tratto che si estende dalla regione San Raffaele (dove c’erano le bule) fino alla sorgente del rio, perché i Manera vi avevano case e terre.
Cosma è il primo di sette fratelli. Papà Ferdinando, generale di divisione dei Reali Carabinieri, conserva nel carattere e nella disciplina verso l’educazione dei figli lo spirito della caserma. La madre, Delfina Ruggero, è un’ombra silenziosa dietro l’autorità del marito. Destinato inevitabilmente alla vita militare, Cosma a undici anni frequenta il severo Collegio militare di Milano, quindi, a sedici anni, l’Accademia di Modena: ne esce con il grado di sottotenente di fanteria nel 1898.
È un ufficiale vivace, intelligente, curioso, portato allo studio delle lingue; ne impara otto in pochi anni: francese, tedesco, inglese, greco, turco, bulgaro, serbo, russo. Parte per la sua prima missione all’estero a Creta (1899) per istituire un servizio d’ordine che freni le tensioni tra turchi e greci. Nel 1901 passa tra i Reali Carabinieri. Nel 1904 è assegnato al ministero degli Esteri e inviato in Macedonia per riorganizzare la gendarmeria locale. Dai Balcani rientra nell’agosto 1908.
Promosso capitano nel 1911 è nuovamente inviato in Albania. Rientrato in Italia allo scoppio della guerra, si occupa della sicurezza delle ferrovie, dove devono passare le tradotte per il fronte. Nel 1916 la svolta. Le forze armate dissanguate da morti e feriti hanno bisogno di uomini e parte la missione di “reclutamento” dei soldati austro-ungarici (fatti prigionieri dai russi), originari del Trentino e della Venezia-Giulia.
Fin dall’inizio delle ostilità nel 1914 lo Zar Nicola aveva inviato a Vittorio Emanuele III missive diplomatiche, segnalando la presenza italiana tra i prigionieri austro-ungarici. Da Roma mandano a visitare i campi di prigionia in Russia i giornalisti Virginio Gayda e Mario Ceccato che inviano tragiche corrispondenze sulle condizioni di vita nel freddo siberiano. . Dopo la dichiarazione di guerra italiana a fianco di Inghilterra, Francia e Russia il “recupero” di quei prigionieri si fa urgente e legittimo.
L’amicizia con Nicola II Romanov
Manera parla il russo e aveva conosciuto lo Zar a San Pietroburgo nel 1913: mostrava orgoglioso un orologio da tasca che lo Zar gli aveva donato dopo un pranzo a corte. Molti degli “irredenti” sono contadini, boscaioli, pescatori, che parlano poco e male l’italiano, che non si erano mai allontanati dal loro paese. Spaventati, malati, rassegnati, non aspettano altro che poter tornare alle loro case. Passare con gli italiani può essere rischioso. Se dovesse vincere l’Austria saranno considerati traditori.
Manera non si perde d’animo. Buon parlatore, li saluta nei loro dialetti. Scova nella memoria le canzoni della sua giovinezza (tra queste: La biondina in gondoleta e La bela gigogin) e le intona durante le marce. Quelle canzoni hanno sapore di casa, rincuorano, danno speranza. Offre pane, birra, sigarette, s’informa della salute, delle famiglie, chiede indirizzi per spedire la posta. Lo ascoltano, gli credono, li convince. Si è detto che la prima missione italiana nel 1916 riuscì a localizzare circa 4000 ex prigionieri.
Il primo scaglione imbarcato, nel settembre 1916, è di 1698 unità, i più deboli e malati. Arrivano in Francia e in treno raggiungono Torino. L’accoglienza di popolo e autorità è calorosa. Il secondo scaglione parte su un piroscafo francese e ripercorre la stessa strada.
Al maggiore Manera (che era rimasto in Siberia) viene affidato l’incarico di rintracciare e riportare in Italia un altro gruppo di ex prigionieri (circa 3000). Il mandato si fa difficilissimo: la rivoluzione sta sconvolgendo l’assetto politico, sociale e militare della Russia. L’odissea dei prigionieri italiani è tremenda: sbandati, affamati, senza coperte e vestiti adatti al freddo, sono esposti a violenze e malattie.
Manera non si perde d’animo e con tenacia riesce a recuperare oltre 2000 prigionieri, con i quali forma 3 battaglioni di 4 compagnie ciascuno. Usando i treni ancora in circolazione sulla Transiberiana fa partire i “suoi” soldati alla volta di Vladivostok, dove giungono dopo circa due mesi, stremati dal freddo e dalla fame. Qui, non essendoci navi disponibili a un lungo viaggio verso l’Italia, decide di tentare la via della Cina, in una sorta di riedizione dei viaggi di Marco Polo. Percorse le strade della Manciuria, nei primi mesi del 1918 l’ufficiale e i suoi reparti furono accolti nella «Concessione italiana» di Tientsin (vicino a Pechino) e in parte nella stessa Pechino.
Intanto in Russia l’evolversi della rivoluzione bolscevica aveva portato alla guerra civile e gli Alleati (tra i quali l’Italia) organizzarono un intervento militare a favore dei “bianchi” che combattevano in Siberia contro le armate dei “rossi”. Manera fu coinvolto con i suoi reparti (nel frattempo armati e rifocillati), inseriti nel Corpo di spedizione italiano in Estremo Oriente.
Nel settembre 1918 dopo una breve permanenza a Tokyo come addetto militare dell’ambasciata italiana, Manera fu “rispedito” in Russia, per rintracciare altri prigionieri irredenti. Le ricerche portarono a inquadrare altri 1800 prigionieri che, accasermati nella baia di Gornastaj, diedero vita alla «Legione Redenta».
La guerra in Europa sta finendo. Alla notizia della liberazione di Trento e Trieste, che arriva telegraficamente al campo di Krasnojarsk, si fanno i fuochi d’artificio. Ma il 4 novembre 1918 la Legione Redenta non potrà ancora deporre le armi. Gli uomini di Manera diventano ufficialmente “volontari” ed è affidata loro la difesa di tratti della Transiberiana, in molti punti sabotata. Sono i “redenti neri”, dalle mostrine nere sui baveri. Si fanno onore, ma le truppe che tentano di arginare l’avanzata dei rossi sono ricacciate indietro e restano poche sacche di resistenza.
Nel febbraio 1920 Manera abbandona Krasnojark, a 16 chilometri da Vladivostok, per il ritorno in Italia. Lascia intatta la piccola cittadella militare, comprese le preziose centrali idroelettriche e l’ospedaletto da campo. Con l’aiuto di amici dell’ambasciata italiana riesce a noleggiare tre mercantili americani e vi imbarca i suoi uomini.
In due mesi di navigazione tocca i porti di Singapore, Colombo, Aden, Porto Said, Suez. Poi nel Mediterraneo risale l’Egeo e l’Adriatico, Bari poi Trieste. L’arrivo di Manera coi suoi “redenti” viene annunciato dalla stampa, sul Piccolo di Trieste. Sul molo principale, il San Carlo, si ammassano autorità, parenti, amici, reduci già tornati. La banda cittadina è pronta, sindaco con la fascia e le altre autorità in prima fila. Il momento tanto atteso arriva, ma il comando militare preferisce un arrivo meno solenne e dirotta la nave su un molo secondario.
Il rientro a Trieste fu tenuto sottotono
I soldati scendono in fretta, chiamati, abbracciati dai parenti, stretti agli amici. Molte donne abbracciano Manera, gli baciano le mani, lo benedicono. I loro uomini avevano lasciato le case nel 1914, sei anni prima, in divisa austriaca. Tornavano in una Trieste italiana, ma a quasi due anni dalla fine della guerra, con molte speranze deluse.
La ragione di quel divieto di sbarco solenne non è chiara. Forse la popolarità dell’ufficiale, la sua capacità organizzativa, facevano temere un altro colpo di mano, tipo quello di D’Annunzio a Fiume. La stessa sera Manera parte per Roma a disposizione del Comando dell’Arma.
Nel Museo Storico dell’Arma a Roma è conservato un esemplare del manifesto che i “reduci” della Russia, salvati dal maggiore Manera, fecero affiggere in ogni comune delle Valli Sole e Non, in occasione di una visita dell’ufficiale. In esso il maggiore Manera è definito “Padre dei Redenti che ridonò alla Patria oltre 10.000 cittadini”. Dopo pochi mesi è inviato in Egitto con il grado di tenente colonnello, poi sul Mar Nero.
Nel 1923 il re Vittorio Emanuele III gli concede “mutu proprio” l’alta onorificenza sabauda: il collare dei SS. Maurizio e Lazzaro. Nelle cerimonie ufficiali Manera sfoggia un medagliere imponente, tra cui: l’Ottomana Sega Kat, l’Ordine Turco del Kedivè, la Croce dell’Ordine Militare di Bulgaria, la Croce dell’Ordine del Tesoro Sacro Giapponese, la Commenda dell’Ordine di Sant’Anna di Russia, la Croce di Guerra Inglese, la Croce dell’Ordine Militare di Polonia, la Legion d’Onore di Francia. In totale 27 onorificenze.
Nell’aprile 1927 è colonnello e nominato comandante della Legione di Roma, poi di quella di Milano, Livorno e Bologna (ricoprirà la carica di podestà di Castelbolognese).
Nel frattempo, nell’aprile 1923, si era sposato con Maria Amelia Pozzòlo, di 25 anni più giovane, figlia di un amico colonnello di artiglieria. Nel 1933 è promosso generale di brigata. Nel 1940, nell’imminenza dell’entrata in guerra, è assegnato alla Riserva e promosso generale di divisione. Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Manera trasferisce la famiglia in campagna, a Rivalta. La grande casa seicentesca diventa presto il rifugio di profughi, anche ebrei. Molti sono aiutati a nascondersi e a fuggire in Svizzera.
Il generale muore a Torino nel 1958 a 83 anni, circondato dall’affetto della moglie e delle figlie Beatrice e Laura. La salma riposa al cimitero di Asti. La famiglia ha donato il medagliere alla Città di Asti. Il 28 novembre 2013, alla presenza di tre suoi nipoti, gli è stata dedicata la piazza d’armi al Pilone, accanto al nuovo comando dei carabinieri.
Bibliografia e approfondimenti
www.carabinieri.it
sezione L’Arma Missioni all’estero, 1918-1920: Cosma Manera e gli Irredenti
Raffaela Del Puglia: Cosma Manera, Generale dei Carabinieri
Calendario storico dell’Arma dei Carabinieri
(Ed. 2013, Roma)
Museo Storico dell’Arma dei Carabinieri a Roma
Stefano Masino, Il Platano, 2013
RINGRAZIAMENTI
Al Museo storico dell’Arma dei Carabinieri a Roma, diretto dal generale di brigata Nicolò Paratore, per la concessione di fotografie