In casa lo abbiamo sempre considerato un cimelio. È il diario di mio padre, il nostromo Aldo Paracchino: la cronaca copre la quasi totalità della guerra, dal giugno 1940 al novembre 1944. Su quelle pagine ingiallite, scritte giornalmente con la sua calligrafia ordinata, trovano eco snodi fondamentali del conflitto. Le battaglie della Sirte, l’affondamento della corazzata Roma o l’armistizio dell’8 settembre, visti dal punto di vista dell’equipaggio che affrontava ogni notte di navigazione come se fosse l’ultima. Nato nel 1921, partì volontario perché era l’ultimo di sette fratelli. All’epoca in tanti da Asti si arruolavano in Marina, e lui che nemmeno sapeva nuotare fu addestrato per sei mesi sulla Amerigo Vespucci. Poi scoppiò la Seconda Guerra Mondiale. Al diario mio padre aveva anche dato una sorta di titolo: “Per ricordo delle mie più gloriose giornate di guerra”. A seguire, un dettagliato elenco delle missioni sulla nave Oriani dal giugno 1940 e fino all’aprile dell’anno successivo. Salpando da Taranto, Messina, Napoli e altri porti del Sud, mio padre partecipò a 41 missioni sulla cacciatorpediniere. Per ognuna, aveva indicato il numero di ore e le miglia percorse. Tra tutte spicca la data del 7 luglio 1940: 1191 miglia, “missione ove per la prima volta si fece contatto con gl’inglesi”. A questo episodio, passato alla storia come battaglia di Punta Stilo, dedicò un resoconto conservato nelle pagine successive. “La mattina del 7 da tutte le basi navali si ricevette l’ordine di accendere e tenersi pronto a mollare gli ormeggi. Difatti verso le 11 si lasciava la base di Augusta […] Verso le 10 un ricognitore nemico spiava le nostre mosse battendo il nostro campo, questo dava il sospetto che il nemico era in vista. Infatti erano circa le 14 quando l’8a divisione avvistava una grossa formazione nemica, che cercava di dirigersi verso le coste italiane. Si erano sbagliati, perché dovevano prima fare i conti coi nostri cannoni. Cosicché verso le 14.30 le nostre navi aprivano il fuoco, le prime salve degli incrociatori da 152 partirono.” La descrizione della battaglia prosegue con sequenze toccanti: “Le salve cadevano da tutte le parti. Il nostro capo squadriglia Alfieri [un’altra cacciatorpediniere, ndr] fu coperto da una bordata che cadde a pochi metri, per qualche secondo scomparì sotto le colonne d’acqua”. Nonostante la superiorità navale, sottolinea mio padre, il nemico fu sconfitto: “Gl’inglesi hanno imparato che non si viene indisturbati vicino alle coste italiane”.
Imbarcato sulla “Oriani” colpita nella battaglia di Capo Matapan
Nel diario, l’interesse di mio padre è rivolto più alla descrizione delle manovre, all’elenco delle unità coinvolte, a una cronaca che oggi definiremmo asciutta. Ma ogni tanto nel racconto si apre uno spiraglio sulle paure provate dai marinai. Come nel caso della battaglia di Capo Matapan, che si concluse con una grave sconfitta per la Marina Italiana. Durante lo scontro, anche la Oriani fu colpita: “Erano le 22.45 quando una grande vampata di fiamme s’innalzava dalla macchina di prora, eravamo colpiti, un proiettile da 152 perforante oltrepassò la lamiera all’altezza della linea di galleggiamento. Dopo di che scoppiò nel deposito di nafta, fortunatamente le schegge squarciando la paratia ruppero il tubo di vapore dell’alta pressione facendone uscire il vapore che con la sua violenza spense l’incendio propagatosi. La nave pur essendo colpita continuava a forte velocità in direzione da portarsi fuori dal tiro nemico. […] Finalmente si fecero vedere i primi bagliori dell’alba, nessuno aveva ancora abbandonato dal giorno precedente il suo posto di combattimento. Si navigava sempre, erano ormai trascorsi quattro giorni dal giorno di partenza dalla base, ciò significava che eravamo agli sgoccioli con la nafta e con l’acqua, i viveri ormai erano esauriti. La caccia inglese però non si dava per vinta perché sapeva benissimo la nostra sorte. Verso le 10 del giorno 30 tutta l’acqua potabile venne utilizzata per il servizio delle caldaie, così pure la nafta con le gamelle del mangiare venne trasportata da un deposito all’altro, il combustibile era preziosissimo, ogni goccia valeva tanto oro. “Poi per quattro ore la Oriani rimase in balia delle onde, a macchine spente. “Non ci rimaneva altro di attendere con calma e serenità un aiuto da parte di qualche nostra unità”, commenta mio padre. A recuperare la nave arrivò la torpediniere Schiaffino: “Alle ore 11 del giorno 31 entravamo ad Augusta dove con rito sacro e solenne sbarcavamo i nostri compagni morti”. Scorrendo le pagine del diario, si incontra la data dell’8 settembre. E le parole di mio padre, allora imbarcato sulla torpediniera Impetuoso, dimostrano cosa significò quella svolta storica per i soldati italiani.
Dopo l’8 settembre la fuga da La Spezia e l’autoaffondamento nel mare spagnolo
“Giorno 8/9: sera, si rientra a La Spezia. Ore 20: il Capo del Governo Maresciallo Badoglio chiese l’armistizio con gli Angloamericani. Giorno 9/9: ore 1.20, si parte con tutta la squadra dirigendosi a La Maddalena. Ore 5: quando fummo sotto l’isola della Maddalena, ci fu segnalato che i tedeschi avevano occupato La Maddalena. Allora si mise a massima forza girondolando per il mare.” Non riuscì a fuggire in tempo la Roma, poderosa nave da battaglia che venne centrata da un aerosilurante tedesco. Morirono circa 1400 persone. Le ore successive videro lo sbando delle forze navali, come testimoniato dal diario: “Ore 20: l’ora in cui la Marina Italiana depose le armi. L’Ammiraglio telegrafò dicendoci «Libertà di manovra», ossia ognuno per il suo destino. Allora noi piuttosto di consegnarci od agli inglesi od ai tedeschi, abbiamo deciso di farla saltare per aria. Infatti verso mezzogiorno del 10 [settembre] siamo entrati noi Impetuoso e il Pegaso in un piccolo porto di un’isola della Spagna chiamato Polenza [l’isola è Palma de Maiorca, ndr]. Dopo circa 15 ore di permanenza in questo porto, i due comandanti diedero ordine di buttarsi in mare […] Erano le 3 dopo di che la luna si erano nascosta, ognuno dovette abbandonare la propria nave e darci l’ultimo saluto: «Viva il Re» e l’ultimo addio. Nessuno che possa escludere che non abbia lasciato cadere qualche lacrima dovendo lasciare per sempre la nostra casa sul mare. Erano le 7.37 del mattino, la nave si inabissava a poche miglia dalla costa dell’isola.” Il diario prosegue ancora per un paio di pagine, riprendendo il racconto a gennaio del 1944. Mio padre e il resto degli equipaggi restarono in Spagna fino a luglio, poi da Gibilterra l’incrociatore Duca d’Aosta li riportò a Taranto.
Congedato dalla Marina divenne commerciante all’ingrosso di frutta e verdura.
Chiuso il diario, rimangono gli episodi che ripeteva spesso. Come quella volta che ricevette un encomio perché fece il contrario di quanto gli era stato ordinato: uscendo dal porto di Taranto, mise i motori indietro tutta perché si era accorto che stavano per speronare un’altra nave. Dopo la Liberazione, si mise subito a lavorare. Iniziò la sua attività di commerciante all’ingrosso di frutta e verdura, viaggiando tra Bologna, Milano e Genova. E quando nel 1972 fu costruito il mercato ortofrutticolo in corso Venezia, aprimmo uno stand a conduzione familiare. Tra le sue passioni ricordo le bocce: l’aveva consigliato il medico di iniziare a giocare, e lui diventò un campione. Quando giocava a Montiglio, spesso condivideva il campo con il suocero di Nené, il calciatore della Juve che si era sposato in paese. Se n’è andato a 92 anni, il 12 luglio del 2013. Ma fino a pochi mesi prima è rimasto lucido, non si faceva mai mancare le sue partite a scopa al circolo Way Assauto. Ora che non c’è più, il diario è tra le cose più preziose della nostra famiglia. Perché sfogliarlo aiuta a sentire ancora vicino mio padre, e mi stupisce ogni volta pensare quanto sia stato fortunato. È passato attraverso quattro battaglie nel Mediterraneo, fame e affondamenti, ed è tornato a casa. Ma il diario ha un significato anche per chi non conosceva direttamente Aldo Paracchino: ricorda anche alle generazioni che sono venute cosa significa una guerra sulla pelle delle persone comuni.