“Ci sono delle persone per cui Dio avrebbe dovuto fare delle eccezioni e non obbligarli a morire come tutti gli altri essere umani ma, a vantaggio dell’umanità intera, mantenerli nel loro peso forma, intorno ai 150-160 kg” (Bruno Lauzi)
La briosa barbera La Monella nata nel 1961 come risposta alla depressione del mercato dello sfuso
Ho conosciuto Giacomo Bologna “Braida” nel 1964. Mi ero da poco trasferito da Castellazzo Bormida ad Asti per lavorare alle Poste. La provincia a forma di grappolo mi intrigò da subito e fu così che decisi di avvicinarmi al vino. A quei tempi, c’erano corsi alla scuola agraria di Asti: potatore, assaggiatore Onav, cantiniere… li frequentai. In quei percorsi, incrociai Giacomo un paio di volte, già personaggio del vino estroverso e stravagante.
Braida era lo stranòm del padre di Giacomo, Giuseppe, a sua volta mutuato dal nonno, commerciante di cavalli e campione del balòn, il pallone elastico, e questi pare lo avesse ereditato da un parente. Anche Pinòto, il padre di Giacomo, che faceva il carrettiere e morì tragicamente quando il figlio aveva appena quindici anni, amava i cavalli e il pallone elastico. Quel soprannome dinastico “fenogliano” passò al figlio Giacomo, nato il 26 gennaio 1938, che manco a dirlo, fin da ragazzino, nutrì un’attrazione smodata per cavalli e balòn.
A Rocchetta Tanaro, cavalli e vino sono di casa e hanno rappresentato un binomio vincente fin da quando il marchese Mario Incisa della Rocchetta fu artefice nella sua seconda patria, la Toscana, di due gioielli: uno ippico, il grandissimo “Ribot”, e l’altro enologico, il Sassicaia, fatto nascere a Bolgheri lungo il viale dei cipressi di carducciana memoria.
Giacomo lo conobbi meglio il giorno che decisi di andare a Rocchetta Tanaro a mangiare nel suo òsto: la Trattoria Braida, che aveva aperto con la mamma Caterina nel 1958 sulla piazza del paese, dove fin dal 1952 avevano il Bar degli Amici. Entrando in quella sala di lato al bar in qualche maniera entrai anche in un mondo che non ho più lasciato. Nacque un’amicizia duratura e profonda, sincera, vera, senza segreti, una passione umana sempre condivisa. Giacomo aveva la capacità unica di entrare in sintonia con le persone, facendole sentire tutte importanti e speciali: era una dote naturale.
In quel primo incontro nel 1964, tra un merluzzo al verde e due agnolotti al ragù di mamma Caterina, Giacomo mi raccontò come tre anni prima avesse litigato con il commerciante che gli ritirava il vino sfuso perché non voleva pagargli più del solito l’epocale annata del 1961. Giacomo gli aveva chiesto il doppio (150 lire al litro) e l’altro non aveva nessuna intenzione di salire sopra le 80 lire… Pagava la quantità non la qualità.
Con uno dei suoi colpi di testa (e di fortuna) decise allora di smettere di vendere all’ingrosso ad altri e di imbottigliare con propria etichetta tutta la produzione: era nata così la sua Barbera di Rocchetta Tanaro. “La Monella” fu il suo primo successo. Una barbera giovane e vivace con fragrante bouquet che sapeva essere intrigante e piacevole. Insomma un vino allegro come lui. Negli Anni ’70 inventammo a Quattordio il “Palabarbera”, sponsorizzato dal patron dell’industria Ivi Pino Codrino, dove tra degustazioni guidate da esperti, giochi enoici e cene, centinaia e centinaia di persone si avvicinavano e conoscevano il mondo barbera, in modo nuovo e originale.
I ricordi a distanza di 24 anni da quell’ultimo Natale del 1990 sono nitidi e sovrapposti insieme: ci sono Giacomo, Anna, sua moglie, i loro figli Beppe e Raffella e la vita in quel piccolo grande centro del mondo che è stata Rocchetta Beach (come la chiamava ironicamente Giacomo). Con Giacomo ho avuto il privilegio di conoscere e incontrare le persone giuste, non giuste perché ammanicate (i fa-fiochéo e perda balle avrebbe detto lui), ma quelle che ti fanno capire i valori della vita e crescere culturalmente. Insomma gli amici che ti fanno vivere bene.
L’incontro con Veronelli e la regola dello stare alla larga da fa-fioché e perda balle
In questo senso è stato un compagno di vita per un quarto di secolo. Lo accomuno solo a Gino Veronelli, che incontrai proprio insieme a Braida nel 1972 negli studi della Rai di Torino: per entrambi provo ancora oggi una riconoscenza e un amore senza fine.
“I piemontesi sono pazzi, sono brasiliani con la nebbia dentro”
(Bruno Lauzi)
Giacomo Bologna è la barbera, e la barbera è il Piemonte. The big Jack, come lo chiamarono subito gli americani, è tutto quello che il Piemonte racchiude e conserva: la follia lucida, la tenacia contadina, la generosità pubblica e la risata privata, l’orgoglio e la testardaggine che non sente ragioni se non l’istinto.
Una sola cosa non aveva Giacomo del piemontese: la prudenza, e meno male. Perché nella sua incoscienza sapeva credere ciecamente ai suoi sogni e anche far sognare i suoi amici. L’elenco delle sue intuizioni, a volte vere follie che invece sono diventate magnifiche realtà, è lungo e sorprendente: si va dall’aver convinto a fare il vino persone come Giovanna e Bruno Lauzi che si erano trasferiti a Rocchetta e l’attrice Ornella Muti che aveva preso una cascina dalle parti di Ovada.
Sua anche l’idea delle lingue di suocera fatte sfornare dall’amico panettiere Mario Fongo. Intuizione, sincero e concreto appoggio hanno favorito la nascita di altre idee: le bornìe di verdure e salse dei Santopietro al Mongetto di Vignale, la rinascita della mostarda di Paolo e Paola Frola, il lancio del fegato grasso d’oca di Gioacchino Palestro in Lomellina, il Loazzolo moscato vendemmia tardiva voluto con tenacia da Giancarlo Scaglione, senza dimenticare i salami di Berruti a Rocchetta Palafea e la robiola di Roccaverano di Nervi. Era un dispensatore di entusiasmo.
Giacomo si divertiva anche in campi diversi dall’enogastronomia: c’era la passione per l’allevamento dei cavalli, era diventato socio della scuderia “Il ronco” a Tradate, vicino a Milano, frequentava l’ippodromo di San Siro ed era diventato anche editore cofondatore della rivista Cavalli & Corse con il “presidente” Giacomo De Laude.
Socio di una scuderia frequentava San Siro e il suo amico Gianni Rivera
Amava il calcio e si vantava di aver contribuito alla scoperta del talento di un giovanissimo Gianni Rivera quando ancora era con i grigi dell’Alessandria. Andava a vederlo giocare con l’avvocato alessandrino Gino Testa, il suo pigmalione. Rivera gli è rimasto amico e riconoscente fino all’ultimo e gli presentò l’allenatore del Milan, il “paron” Nereo Rocco, uno che il vino lo faceva bere ai suoi giocatori anche negli spogliatoi.
Bologna era ingordo di conoscere e lo affascinava anche il jazz: rivedo Gianni Basso, Gianni Coscia, Oscar Valdambrini e Dino Piana alternare virtuosi assoli alle zingarate con Paolo Frola, cantautore istrionico e surreale, vero animatore di mille cene e feste e anche sorprendentemente medico del paese di Rocchetta.
“Il mio paese non è una sorpresa,
son dieci vigne sei case e una chiesa.
Il mio paese non è una scoperta,
ma il cielo è una coperta
sulla campagna stesa”.
Il testo di questa canzone cantata da Frola lo scrisse il giornalista di Repubblica Gianni Mura su una tovaglia di carta nell’osteria di Giacomo ed è ancora per me la più bella sintesi della campagna italiana e la descrizione più autentica di Rocchetta Tanaro.
La quieta follia di Rocchetta beach dove si impiglia la simpatia
Siamo sull’orlo delle colline monferrine che scivolano nel Tanaro e oltre diventano pianura di grano e nebbia. Un paese come tanti altri, circondato di vigne e boschi che a un’occhiata distratta non ha nulla di speciale. E invece le persone che ci capitavano restavano stupite, a volte folgorate, perché qui spesso si rimaneva impigliati nella simpatia della gente, nella voglia di festa per qualunque ragione e in ogni stagione, nelle piccole strane particolarità come la banda del paese accompagnata dallo schiocco delle fruste, a ricordo dell’antico mestiere dei carrettieri.
C’erano personaggi memorabili come il Chinin, il matto lucido del paese, che girava in bici di notte a suonare i campanelli, sempre però in impeccabile cappotto scuro. Oppure Cesco Bo, il fabbro-artista, che creava grappoli e pampini di ferro battuto, il muratore Tuioli, costruttore di una barca in cemento armato varata e affondata ma, diceva lui, solo perché nella stiva c’erano troppe bottiglie di vino.
C’era il gusto dello stare insieme in attesa del fatidico “lasciami andare”, cioè l’ultima bottiglia di commiato che arrivava sempre più tardi. Certe zingarate duravano anche una settimana passata a cantare, bere e mangiare tra le due Rocchette (Tanaro e Palafea), come ricordano ancora bene tre dei “seigiornisti”: Pierino Barbero, Berruti padre e Beppe il Cit, citando la memoria di Cesco Borgatta l’ideatore di quelle performance.
“Giacomo Bologna, tappi non parole”
Cesare Pillon
Anna, la ragazza di Belveglio che gli ha vissuto al fianco e faceva quadrare i conti
Non si può raccontare Giacomo senza parlare di Rocchetta e non si può oggi pensare a Rocchetta senza ricordarsi di Giacomo. Un carisma e una generosità unica, trascinanti, che lo hanno fatto amare da tutti, superando le inevitabili gelosie, le invidie e le competizioni dei piccoli borghi.
Ha vissuto di slanci, improvvisate e risate incontenibili. Era un gigante che aveva sempre, in stagione, un tartufo in tasca, e a casa una bottiglia ancora da bere e una storia ancora da raccontare.
C’è poi la figura di Padre Eligio, a cui Giacomo era legatissimo (la sua generosità diventava qui beneficenza anonima). Nel 1989, in occasione dei 25 anni di matrimonio, il frate celebrò nuovamente le nozze di Giacomo e Anna nella comunità di Cozzo Lomellina, con benedizione di barbera e comunione a lingue di suocera… poi il mitico chef stellato Angelo Paracucchi cucinò per un centinaio di invitati.
Non si può parlare di Giacomo e della sua incontenibile personalità senza far entrare in scena Anna: una sicurezza, una fibra (e una pazienza) ammirevoli. Anna, la ragazza di Belveglio, che, quando lo incontra al ballo di Capodanno a Mombercelli, rimane stregata (eccolo il paese: dove le signorine ancora debuttano ai balli e si innamorano del cavaliere e lui per fare il duro le dice che non le piacciono le ragazze con gli occhiali).
Quando si sposano quasi non riescono a festeggiare il matrimonio perché lo sposo, a fine festa, viene rapito dagli amici e il viaggio di nozze slitta di un giorno. Andranno una settimana ad Amalfi e al ritorno subito in trattoria a lavorare.
Anna che gli dà due figli a loro immagine e somiglianza (Raffaella è Giacomo mentre Beppe è Anna, occhiali compresi). Anna che amministra un’azienda che oltre alle intuizioni folgoranti di Giacomo ha bisogno anche di qualcuno che faccia quadrare i conti.
Anna, dopo quel Natale luttuoso del 1990, rifiutò le offerte interessate di chi la invitava a “vendere tutto” e trovò la forza di completare il progetto del marito ampliando la cantina nel 1994 (superando anche le paure dell’alluvione) e poi nel 2007 la nuova azienda alle Ciappellette, poco fuori il paese.
“Viva la Barbera”
(Giacomo Bologna su La Stampa, in risposta allo scandalo metanolo nel 1986)
Giacomo Bologna ha avuto il merito di credere fermamente nei vini piemontesi e nelle loro diversità da una collina all’altra, negli anni in cui c’era chi ipotizzava soluzioni “industriali” con vini standard per non “confondere” il gusto dei consumatori.
Braida divenne un marchio di successo e Giacomo nel suo catalogo oltre ai suoi vini, ricavati da uve selezionate che sapeva cercare in giro da conferitori fidati (barbera, grignolino, brachetto e moscato), man mano che il tempo passava (e le amicizie aumentavano) aveva messo in lista altri vini di “amici del cuore”: da Specogna a De Bartoli, Gresy, Hauner, Chionetti, Marzi della Cantina del Glicine di Neive, Forteto della Luja, Morellino di Scansano di Erik Banti. C’è stato un momento in cui Giacomo “aiutò” anche grandi barolisti, quando il Barolo pareva non volerlo più nessuno: ricordo i Conterno e il vecchio Pira.
La rete infinita di amicizie e conoscenze di un “animale da fiera”
Giacomo aveva una rete infinita di conoscenze, ristoratori, clienti privati di prestigio nel mondo dello spettacolo e dello sport, gente che credeva a ogni suo suggerimento, che si fidava di lui e del suo palato.
Lui era uno straordinario “animale da fiera”: Torino, Milano e soprattutto il Bibe di Genova e il Vinitaly a Verona lo vedevano assoluto protagonista con un marketing inventato, unico e inimitabile fatto di bevute, mangiate, aneddoti, zingarate e “meno 20” tutte le sere. Lo stand di Braida era un punto di riferimento per tutti: giornalisti, amici, clienti.
«Tutto quello che beviamo non resta nell’invenduto»
Un episodio poco noto è la decisione di ritirare dal magazzino della Carpano, che fino ad allora importava in Italia la Romanée-Conti, una selezione di vini francesi: spese una fortuna ma si portò a casa centinaia di casse e magnum, in serie complete di varie annate. Ricordo che stappava con generosità La Tâche o Richebourg prendendole a caso e rovinando irrimediabilmente una serie che così era certo di bere con gli amici («Tranquilla Anna, la finiamo!»), per la disperazione della moglie che vedeva finire nei bicchieri parte dell’investimento: d’altra parte una sua celebre esclamazione era: «Tutto quello che beviamo non resta nell’invenduto!». La storia del Bricco dell’Uccellone parte da lontano.
Le barriques di California e Borgogna gli ispirano nel 1984 il “Bricco dell’Uccellone”
Il fatto che gli americani potessero fare dei grandi vini era una cosa inconcepibile per un piemontese doc. Quando nel 1978 Giacomo andò in California con Veronelli e scoprì che da zone senza identità né radici nascevano grandissimi vini rossi telefonò ad Anna dicendo «Abbiamo sbagliato tutto, questi qui sono avanti a noi di un bel pezzo».
In California capì l’importanza della barrique e intuì prima degli altri che poteva far svoltare la sua barbera. Così decise di approfondire con un corso a Beaune (era già stato in Borgogna nel 1970 in un viaggio di piacere e di studio) e una celebre foto lo ritrae di nuovo tra i banchi di scuola con compagni speciali come Maurizio Zanella della Franciacorta e Angelo Gaja da Barbaresco.
“Ai nostri dolor insieme brindiam / col tuo bicchiere di barbera, col mio bicchiere di champagne”
(da “Barbera e Champagne” di Giorgio Gaber)
Il Bricco dell’Uccellone (che chiamò così perché la vecchia proprietaria del vigneto aveva un naso aquilino e vestiva sempre di nero), esce nel 1984, annata 1982: un anno di legno francese, un anno in bottiglia, un’infinità di assaggi e prove con l’apporto tecnico di Giuliano Noè, Giancarlo Scaglione e dell’“enologo filosofo” Ferruccio Ghigo, senza dimenticare il confronto costante con il patriarca degli enologi, il franco-russo André Tchelistcheff. Il successo presso la critica enologica è clamoroso (e Giacomo vede finalmente anche i francesi comprare barbera).
Dopo qualche vendemmia ecco il Bricco della Bigotta, altro vigneto che mette così d’accordo sacro e profano, come ricordava, con un sorriso, il conte Riccardo Riccardi, indimenticabile, raffinato, intelligente, ironico gourmet, di scuola sabauda. Nel frattempo Giacomo inaugura la cantina-casa-taverna dove una grande e suggestiva barricaia accoglie i visitatori.
Nella primavera del 1986 scoppia lo scandalo del vino al metanolo e nella bufera mediatica Giacomo Bologna tiene fermi i concetti del vino di qualità di certa origine e allontana l’infamia che vede abbinato il nome della barbera alle morti degli avvelenati. Si informa e pubblica su La Stampa un’inserzione anonima con la sola scritta «Viva la Barbera». Un grido di rabbia e di orgoglio viscerale in difesa del suo vitigno e di tutti i vignaioli onesti d’Italia.
Giacomo amava viaggiare ed ebbe una folgorazione internazionale dopo un viaggio in Georgia sulle orme degli antichi vigneti caucasici. Giacomo si innamorò della terra che fu culla storica del vino. I muri di Berlino stavano cadendo così come le ideologie. Invitò un gruppo di vignaioli georgiani a Rocchetta nel 1989 per un gemellaggio enologico.
Ceci e costine in clinica poco prima di morire la notte di Natale del 1990
L’ultimo vino era figlio delle uve vendemmiate in quell’anno: uscì nel marzo del 1991 con etichetta “Ai suma” (Ci siamo!… uno dei suoi più frequenti intercalare), ma Giacomo non c’è più da pochi mesi. Giacomo ci ha lasciato la notte di Natale del 1990 (come sua madre 5 anni prima) dopo aver scelto, con la sua proverbiale generosità, regali speciali per tutti i suoi amici.
Veronelli, lo aveva visto ancora poche ore prima e ne scrisse un bellissimo epitaffio: «Ho bevuto il mio vino come la mia vita. La mia vita ho bevuto come un vino». Poche settimane prima, con Giacomo, come da tradizione di famiglia, avevamo festeggiato ancora Ognissanti con ceci e costine (e Monella) assieme agli amici più cari direttamente in clinica dov’era ricoverato, tra lo stupore dei medici: «Non li capisco questi medici, non mi fanno vivere».
“Verrà l’Anticristo.
E sarà vegetariano ed astemio.”
(conte Riccardo Riccardi)
Gli amici lo hanno ricordato con un premio dedicato alla “qualità della vita”
Sulla carta intestata della sua azienda aveva fatto stampare una frase che è rimasta a suggello di una vita: «Costruitevi una cantina ampia, spaziosa, ben aerata e rallegratela di tante belle bottiglie, queste ritte, quelle coricate, da considerare con occhio amico nelle sere di Primavera, Estate, Autunno e Inverno sogghignando al pensiero di quell’uomo senza canti e senza suoni, senza donne e senza vino, che dovrebbe vivere una decina di anni più di voi».
Giacomo Bologna “Braida” ha saputo innescare con carisma, passione e intelligenza, la consapevolezza che sulle nostre colline il vignaiolo deve credere con orgoglio alle proprie radici, osare e riprendersi la dignità. Dal 1993 a Rocchetta Tanaro, il fratello di Giacomo, Carlo, con la moglie Mariuccia e il figlio Beppe con Cristina, hanno riaperto con successo e professionalità la trattoria “I Bologna”.
Dal Duemila al 2004 la famiglia e l’associazione di amici che si costituita attorno al nome di Giacomo ha istituito un premio intitolato alla “Qualità della vita.”. La giuria composta da: Maria Grazia Dandini, Giorgio Calabrese, Paolo Massobrio, Sergio MIravalle, Beppe Orsini e Anna Bologna lo ha assegnato nel Duemila all’allora sindaco Stefano Icardi e Agnese Ziliotto per il loro libro di memorie su Rocchetta.
Negli anni successivi sono poi stati premiati: Padre Eligio, Curt Ellison per le ricerche sul resveratrolo e gli effetti benefici del vino, Gianni Rivera, Carlo Urbani (alla memoria) per i suoi studi sul campo sulle malattie tropicali. Sembrerebbe “solo” una bella storia di paese, Rocchetta Tanaro, dove tutto iniziò, un paese al centro del mondo; il tutto così lontano da quella facilità per cui spesso molti, con retorica, vogliono far passare l’idea che il tutto avveniva poiché si era in un momento storico più favorevole.
Anna Martinengo Bologna ci ha lasciati nel 2010. Ha fatto in tempo a vedere spuntare e crescere i “germogli” dei nipoti: Giacomo, Greta e Riccardo. Beppe e Raffaella con il marito Norbert, medico austriaco conquistato alla causa enologica, e i preziosi collaboratori ora continuano il lavoro nel nome di Giacomo e Anna. I valori di un passato che continua nel presente. L’azienda “Braida” oggi è una realtà vitivinicola con 56 ettari, 32 dipendenti, presente sui più importanti mercati internazionali. Giacomo ne è orgoglioso.
Per saperne di più
A Giacomo Bologna Paolo Massobrio ha dedicato un libretto di testimonianze The big Jack. La biografia di Giacomo è stata curata da Nichi Stefi per la collana “I semi” di Veronelli Editore.
Giulia Graglia ha girato e montato il lungometraggio Il Re del Mosto, ovvero l’uomo che inventò la Barbera che racchiude spicchi di vita, testimonianze e brani inediti.