Salva i gradi, ma non la faccia, nella tragedia di Caporetto
Lo confesso: io, astigiano, detesto l’astigiano Pietro Badoglio. Quando non so più con chi prendermela, apro le sue memorie o i libri scritti dai suoi turiferari e panegiristi mediocrissimi, tutti attendenti e parenti stretti per la verità, e subito mi rassicuro. Basta una riga e tengo in pugno il mio uomo. Mi fa uscire dai gangheri, mi fa fremere. Per detestarlo da vicino, da contemporaneo, faccio tabula rasa di un secolo e lo seguo nei suoi giri. I successi mi indignano, le sconfitte mi riempiono di gioia. Ritorco contro di lui la frenesia che mi comunica. Basta! Il giudizio di Angelo Gatti, un altro astigiano, è risolutivo! Perché ancora perder tempo? «La virtù che consacra i comandanti, la forza costruttiva dell’intelligenza, gli mancava».
Non vi basta? Un altro generale, allora, Carboni, apparteneva alla stessa camarilla soldatesca a cui, sciaguratamente, in epoche tristissime venne affidato il Paese: «La testa di Badoglio è talmente limitata da non essere capace di contenere più di una idea per volta». Un cretino, insomma. E Capello. L’altro vinto di Caporetto (ma lui marcò visita, mentre i tedeschi affettavano le sue divisioni) non fa sconti: «Badoglio è un ciula, ma mi serve!». Le selezioni al contrario non sono novità nella storia patria. Senonché talora la Storia, dispettosa, prende questi uomini e li piazza, sull’attenti, ai crocevia decisivi, li sistema a organizzare l’andirivieni nelle ore più affollate e inquiete del traffico degli eventi. E se ne sta poi, hegelianamente, a sghignazzare guardando la confusione e il caos che aumenta.
Un mondo rispettabile, anche se con molti vizi, l’Italia risorgimentale e l’Italietta giolittiana, viene a patti, nella figura del generalissimo di Grazzano, con il suo male, con il virus che lo corrode, non ha più rispetto di sé e lascia circolare un Badoglio con pennacchi greche e lustrini. Per ciò stesso si dichiara vinta, tarlata, finita. Un mondo di umile rigore, sacrifici, fedeltà a simboli e sogni cedette e si inchinò di fronte a un personaggio simile che ci ispira un misto di avversione e incredulità. Il fascismo lo ereditò con i soprammobili del Paese appena uscito boccheggiante dalla prima guerra mondiale: gli lustrò i pennacchi e le immeritate medaglie, lo utilizzò per le sue imprese falsamente titaniche. E in fine si fece raggirare e liquidare proprio da Lui, il Carrierista sommo, il più dotato, il più scaltro, il più ispirato imbonitore del circo mussoliniano. Non si erano accorti, gli zucconi in orbace, storditi dalle marcette e dai pugnali di cartapesta, che il visconte di Caporetto tra molte strade sapeva sempre imboccare quella buona: che gli rendeva in baiocchi e in carriera. E già: quelli della sua specie vanno a colpo sicuro, non certo ossessionati dalla posterità, dall’eco che susciteranno le loro gesta. Sono le prebende e le poltrone militaresche e civili che interessano. Un mediocre ma furbo. Ecco in un aggettivo la sua biografia e i suoi limiti, non occorrerebbe altro.
Protagonista di un ruralismo da operetta
L’astigiano Badoglio, dunque! Il signore della guerra che gioca a bocce con i contadini di San Marzanotto dove aveva la villa e dove passava la villeggiatura d’autunno, tra caccia, mosti e bollito, con le bretelle bene in vista e la paglietta, per le sequenze del cinegiornale Luce. Ruralismo da operetta, in linea con l’immaginario bucolico del n.1 “profondamente rurale”, del fondatore, il Dux dei campeggi estivi e di Margherita Sarfatti. Una mania dell’epoca, comunque: Graziani, che l’aveva in antipatia somma e nel ’43, invece di godersi la pensione, si fece fucilatore e lacché dei tedeschi per potergli dare del traditore, pascolava anche lui buoi e mieteva il granturco come un Coriolano risorto.
Il contadino Badoglio: figlio davvero di coltivatori diretti, anche se non proprio indigenti. E forse la leggenda che da bambino, quando l’inverno a Grazzano mostrava la grinta, andava a dormire con lo scaldino per non congelare, è una invenzione per dare un tocco proletario al maresciallo. Dei contadini aveva, quella autentica, la avarizia. Con l’eterno trucco degli avari, lui che era milionario, andava in giro senza soldi: ad Asti, al caffè, si faceva pagare il vermuth dall’attendente o dagli avventori adoranti. Ed era già conte, eccellenza, Maresciallo eccetera eccetera. Da contadino agiato erano i suoi menù, sempre eguali, e il vinello buono. Ma se lo faceva arrivare, a qualsiasi costo, sulle ambe etiopiche e sulle pietre insanguinate del Carso, insieme al grappino dopo il pasto. Abitudine contadina quella di andare a dormire alle ventuno, guerra o non guerra. Una leggenda!
Il 7 settembre del 1943 gli irrompono in casa due inviati americani, uno è Maxwell Taylor futuro comandante della Ottantaduesima, le aquile urlanti. Sono venuti a controllare che tutto sia pronto per il giorno dopo quando sarà annunciato il cambio di casacca degli italiani, il lancio dei paracadutisti su Roma e altri dettagli. Il maresciallo è già in pigiama. Sproloquia di rinvii, invita i due fastidiosi cowboy a riposare qualche giorno a Roma, poi tutto si aggiusterà. Guarda l’orologio. In dialetto annuncia: «Buona notte. Io vado a dormire». È lettore di libri gialli, Badoglio, tipico approdo di quelli che hanno mezza cultura e si addormentano sui libri seri. Il generale assomiglia più ai contadini di Zola, gretti e feroci, che a quelli di Pavese e Fenoglio. L’avidità lo spinge a collezionare case ville e castelli (molti regalati) e soprattutto stipendi.
L’uomo che ha perso quarantamila uomini a Caporetto tra morti, feriti e prigionieri, abbandonandoli al di là dell’Isonzo e fuggendo nella terribile notte tra il 23 e il 24 ottobre del 1917 (cancellata dalla storia d’Italia per non turbarne l’immancabile ascesa), colleziona incarichi. Capo dell’esercito, ambasciatore in Brasile, governatore della Libia, vicerè d’Etiopia, presidente del consiglio nazionale delle ricerche, senatore del Regno, marchese del Sabotino, collare dell’Annunziata, duca di Addis Abeba, primo ministro: ogni volta accuratamente Badoglio conservava stipendi e prebende precedenti, aggiungendoli a quelli nuovi, pioniere e vate dell’Italia delle triple pensioni e degli incarichi contemporanei.
Collezionista di incarichi e prebende
Sotto i cipigli teutonici e i superbi berretti fiorivano rozzi opportunismi. Qui non siamo più all’istinto contadino che teme la grandine e la malora; è l’avidità del piccolo borghese italico, eterno come il bel paese, a cui “la roba’’ proprio per i secoli di miseria che ha sul gobbone non basta mai. Un episodio tra i tanti: i frutti sugosi della vittoria in Etiopia contro un esercito di negretti, già limato dal vecchio De Bono, consistono nel palazzo di via Bruxelles a Roma con parco statue e aquile romane e littorie, la tessera ad honorem del partito fascista (può servire ), il titolo di duca di Addis Abeba, la conservazione degli appannaggi di guerra compreso il soprassoldo, razioni di viveri in contanti e creazione di stipendio per la carica di vicerè da cumulare ovviamente con quello di capo di stato maggiore e Maresciallo. Ebbene stupitevi, inorridite: tutto questo non gli basta. Appena inviato il plutarchesco telegramma parte in fretta e furia lasciando a Graziani e ad Amedeo d’Aosta le delizie della guerriglia abissina. Ha un affare urgentissimo da risolvere sui colli fatali, da regolare con “il Duce magnifico’’, “il Duce dalla infallibile profetica azione dell’avvenire’’ (così lo definiva nei discorsi, l’inabbordabile condottiero). Scrive incalzante all’uomo di Predappio: «Ricevo dalla consulta araldica una lettera nella quale mi viene comunicato che il titolo di duca di Addis Abeba è trasmissibile senza il predicato di Addis Abeba a tutti i miei figli. Mi permetto di far presente a vostra Eccellenza che al maresciallo Diaz venne concesso il titolo di duca della Vittoria, trasmissibile con relativo predicato ai figli. Ho l’onore di chiedere a V.E. che mi sia usato lo stesso trattamento». Ecce Homo!
Badoglio e il fascismo: encomiabile leccastivali del Duce per venti anni, lo elimina appena “il cugino’’ Vittorio gli manda l’ordine. Per prenderne il posto. Si è accorto che la malandata barca del regime si avvicina al naufragio. Nel 1922 Mussolini capì subito che quell’uomo era il più pronto se non l’unico disposto a servirlo, un uomo senza idee, senza cultura, senza carattere o coscienza, avido vanitoso leggero, pronto a genuflettersi davanti al potente, ricattabile con quella faccenduola di Caporetto.
Pronto a genuflettersi davanti al potente
È il ritratto del perfetto cortigiano. Il giornalista Mussolini, compulsatore indefesso di dossier, aveva letto con attenzione quelli sul condottiero e sapeva di tenerlo in pugno. Il piccolo borghese monferrino era in fondo un parvenu attaccato agli onori e al denaro con tutte le sue ventose, in un incessante lavorio di espedienti, basse furberie, colpi gobbi, prepotenze e viltà.
Un perfetto gioco delle parti che la guerra svelò. Mentre i soldati italiani morivano come bestie, come piante divelte e marcite nel fango di Grecia, impresa tragica a cui il signorsì Badoglio non si era opposto (anzi, l’Epiro come obbiettivo non gli bastava, strepitava di marciare su Atene), ora che la farsa inaugurata con leggerezza goliardica volgeva in disastro, chiese una licenza per ragioni di salute. Subito concessa. Gli informatori della polizia lo scovarono a sparare ai fagiani nelle tenute dell’industriale Necchi, un amico. Il Marte di Grazzano che avrebbe poi fulminato il Principale ormai nella polvere dandogli del caporale, non aprì bocca agli annunci di discesa in campo a fianco dei nibelunghi d’oltralpe. Quanto agli slittamenti all’indietro delle armate imperiali in Africa e altrove sotto il suo comando, l’importante era che non ne turbassero gli avanzamenti e gli scatti di anzianità. Basta.
Vendicativo, non dimenticava i presunti torti subiti
Viene il dubbio di infierire. Ma come non citare un altro dei capisaldi del suo carattere, l’astiosa memoria dei torti subiti, la voglia di vendetta. Chi lo intralciava era sicuro di esser spazzato via. A Diaz (gli aveva evitato la corte marziale nel 1917!), quando ne prese il posto, requisì l’ufficio e lo relegò in uno stambugio. Ma il tremendo capolavoro fu Cavallero, il casalese Cavallero. Avevano litigato come comari per una questione di precedenza a una parata, davanti al re. Cavallero si era illuso di averla scampata, lasciando l’esercito per dedicarsi agli affari. Anche lui, in fondo, un pioniere: procurava commesse militari all’Ansaldo, ma le corazze per le navi da guerra risultavano opportunamente alleggerite. Almeno a leggere una inchiesta subito soffocata per non creare scandalo. La guerra è un brutto affare ma incrementa gli affari. Mussolini lo mise al posto di Badoglio quando sembrava che i greci ci avrebbero ributtato in mare. Accettando, segnò la sua condanna a morte. Prima della gloriosa ritirata dell’8 settembre verso Pescara, lasciò sul tavolo del ministero della guerra, perché i tedeschi li leggessero, documenti che incastravano il rivale, delineando suoi progetti di tradimento dell’alleanza. L’altro Maresciallo fu suicidato poco dopo.
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