sabato 27 Luglio, 2024
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1881

C’è Asti anche in California

Storie di vini e di pionieri
Ci sono profonde e significative radici astigiane nell’epopea della vitivinicoltura californiana. Storie di imprenditoria visionaria (o lungimirante), ispirazione, duro lavoro, viaggi attraverso l’oceano che portarono un “savoir faire” tutto piemontese nel mito del far west. La parabola dell’Asti Winery, alle pendici delle Russian Hills, nella contea di Sonoma, e la company town nata nel 1881 dall’utopia cooperativistica di Andrea Sbarboro e dalle intuizioni di Pietro Carlo Rossi. L’avventura di Secondo Guasti che, partito da Mombaruzzo, impiantò “il più grande vigneto al mondo” nel deserto di Cucamonga e lì costruì una chiesa dedicata a San Secondo d’Asti. Il successo senza eguali di Ernest e Julio Gallo, segnato dalla fine tragica della madre Assunta Bianco, originaria di Agliano.

Andrea Sbarboro e i suoi soci italo-americani investono in terra di future vigne 25.000 dollari

 

C’è un’altra Asti al di là dell’Oceano Atlantico. È una colonia agricola legata al mondo del vino sorta in California su un progetto molto avventuroso e coraggioso. C’è anche una data di nascita precisa: il 10 marzo 1881, quando fu fondata l’Italian Swiss Agricoltural Association. L’aveva fortemente voluta e promossa un imprenditore di origine ligure, Andrea Sbarboro. Giunto in America giovanissimo, Sbarboro aveva fatto fortuna in vari settori, soprattutto nel campo delle costruzioni e del credito. Nutrito da letture di utopisti come John Ruskin e Robert Owen e dalle loro descrizioni di comunità ideali, Sbarboro scrive, anni più tardi, nella sua compiaciuta autobiografia “An early American Success Story”: “Molti braccianti italiani arrivavano nel mio ufficio per chiedere un lavoro. Poiché erano contadini e sapevano bene come si coltivava la vite pensai di utilizzare i proventi di una delle mie associazioni di edilizia cooperativa per investirli nell’acquisto di terreni con l’obiettivo di dare lavoro a questi vignaioli”. Il suo non era solo mecenatismo, o filantropia verso i connazionali, ma calcolo economico preciso.

In California, la produzione media di uva era stimata all’epoca attorno alle 5 tonnellate per acro e a fronte di costi di produzione di 20 dollari, il profitto netto si attestava sui 130 dollari per acro (“State Board of Viticulture” citato da Sbarboro). Fu così che, raccolti i capitali iniziali tra affaristi italoamericani di San Francisco, si partì alla ricerca del terreno su cui costruire questa nuova grande azienda agricola. Un gruppo di esperti valutò la qualità e le caratteristiche del suolo, l’esposizione, le condizioni climatiche e confrontò il prezzo di decine di grandi appezzamenti nel nord della California. 

 

California: pranzo nel refettorio (Out West),

 

Andrea Sbarboro a un picnic a inizio Novecento e in una tavolata con soci e visitatori dell’Italian Swiss Colony nel 1910.

Il nome della tenuta diventa Asti in omaggio alla città del vino e all’origine delle barbatelle. Le spedì un medico di Rocca d’Arazzo

 

La scelta cadde sulla Tenuta Truett, 15 mila acri affacciati sul Russian River nella contea di Sonoma, occupati da pascoli per pecore e boschi di querce. Un acro di terreno equivale a circa 4 mila metri quadri, quindi quella tenuta era di circa seimila ettari. Sbarboro era un abile affarista: pagò quella terra 25 mila dollari, di cui 10 mila in contanti, e ribattezzò il sito “Asti”. Sui motivi che indussero a chiamare Asti quest’area ci sono diverse interpretazioni.

Lo studioso Simone Cinotto, nel volume “Terra soffice uva nera” scrive che il nome fu scelto in maniera benaugurale: “in onore alla città già allora nota per la qualità dei suoi vini”. Alla fine del XIX secolo infatti il Piemonte e la Toscana erano le più illustri regioni vitivinicole italiane e Asti era conosciuta per i suoi spumanti, ma anche per i rossi, Barbera in testa. Ma non c’è solo la tesi della semplice notorietà del nome della città. Giancarlo Libert, in un saggio dal titolo “Contributi astigiani e piemontesi alla vitivinicoltura della California” (numero 28 de Il Platano), afferma che si trattò di “un omaggio alla città da dove faceva arrivare le barbatelle delle viti”: fu infatti il medico Giuseppe Ollino, nativo di Rocca d’Arazzo, a scegliere le 200 mila piantine di vitis vinifera delle principali specie europee da inviare in California per mettere a dimora le nuove vigne nella tenuta di Sbarboro e soci. Un articolo riferisce che nell’Asti piemontese sarebbe nata la madre di Andrea Sbarboro (Nickolas Marinelli, “Cavalier Andrea Sbarboro”, 27 maggio 2011) e questo sarebbe stato d’ispirazione per il nome.

Maurizio Rosso nel libro “Piemontesi nel Far West: studi e testimonianze sull’emigrazione piemontese in California” suggerisce a sua volta che Asti sia stata evocata “per somiglianza con la regione vitivinicola piemontese”. Di fatto, prima che il paesaggio californiano arrivasse ad assomigliare anche solo vagamente a quello astigiano e monferrino l’opera di trasformazione fu immensa. Negli anni si sbancarono colline e si spianarono, dissodarono, ararono terreni dall’est all’ovest e da nord a sud, poi si introdussero diverse varietà di vite e altre colture. L’intervento evidentemente funzionò, e davvero quello divenne un piccolo angolo di Piemonte nel Nuovo Mondo, tanto che lo scrittore Frank Norris, ironicamente raccontò: “Venerdì scorso sono andato in Italia. Sono andato, ho dato un’occhiata e sono tornato nel giro di un solo giorno. Mi è costato tre dollari: in California, Italia significa Asti, la Italian Swiss Colony che sorge all’imbocco della valle del Russian River”. Era il 24 ottobre 1896. 

 

Operai dopo una battuta di caccia al cervo nella Napa Valley (Alfreda Cullinan/San Francisco Museum and Historical Society)

 

Uomini e cavalli al lavoro per dissodare il terreno e impiantare vigneti ad Asti, California (Alfreda Cullinan/San Francisco Museum and Historical Society)

La prima vendemmia è del 1888. Direttore della cantina è Pietro Carlo Rossi di Dogliani

 

Ecco una eloquente descrizione di Asti: “Un panorama di vigneti e di ville, pittoresche abitazioni di lavoratori, cantine ricoperte di rose, è un modello per tutta l’industria del vino in California, ha preso il posto di collinette selvagge, coperte solo da boscaglia” (“The Italian-Swiss Colony of Asti, California. The History of Its Organization and Progress”, 1914). Il terreno acquistato da Sbarboro e dai suoi soci venne completamente rimodellato e riconformato dall’opera degli immigrati. Sin dall’inizio l’Asti californiana si organizzò come comunità autonoma, con i suoi 150 lavoratori pagati tra i 30 e i 40 dollari al mese a seconda delle mansioni, oltre a vitto, alloggio e vino. Nel 1903 la comunità aveva già una scuola per i figli dei dipendenti, un proprio ufficio postale, una linea telefonica e telegrafica, giardini, impianti elettrici. 

La Asti californiana crebbe, insomma, come “company town”, divenendo una piccola cittadina con una stazione ferroviaria sulla Northwestern Pacific e una chiesa cattolica, la Our Lady of Mount Carmel, costruita nel 1907 nella caratteristica forma a botte ed edificata con il legno delle botti di vino usate. Nonostante le minacce della fillossera, gli straripamenti del Russian River, ovini e cavallette che devastarono i primissimi raccolti, nel 1888 si ebbe la prima vendemmia completa sotto la sapiente guida del direttore Pietro Carlo Rossi, laureato in Farmacia all’Università di Torino e originario di Dogliani, il paese del Dolcetto.

 

Si cercano contadini piemontesi disposti a emigrare

 

L’anno successivo la cantina arrivò a produrre 130 mila galloni di vino (poco meno di 5 mila ettolitri) e fu avviata la commercializzazione a partire dalla California fino alle Little Italy di Chicago e New York, alla costa atlantica, a New Orleans: i consumatori di vino in America furono per decenni soprattutto gli immigrati dal Sud Europa, italiani in particolare, che preferivano sulle etichette nomi riconosciuti ed evocativi come Chianti, Capri e la stessa Asti. Era forte l’importazione anche di Marsala.

Due anni dopo, ad Asti, l’estensione dei vigneti aveva raggiunto i 600 acri, che divennero 1000 nel 1893. Furono chiamati dall’Italia, e in particolare dal Piemonte, nuovi lavoratori. Quando nel 1898 si arrivò a produrre 4 milioni di galloni di vino dai 1500 acri di vigneti, l’Italian Swiss Colony di Asti era ormai l’azienda vinicola più grande della California e una tra le meglio attrezzate. Si specializzò nella produzione di vini secchi e spumanti, per il clima della zona che somigliava a quello del basso Piemonte.

La comunicazione aziendale faceva un vanto del fatto che vi fossero più varietà di uva cresciute nell’Asti californiana che in ogni altro sito produttivo degli Stati Uniti, e certamente in cantina si poteva trovare il frutto di diversi vitigni, compresi Barbera, Pinot nero, Pinot bianco, Cabernet, Zinfardel, Riesling, Sauvignon, Carignano. L’Asti Winery spumantizzava il Moscato e distillava grandi quantità di brandy e grappe. Il vino bandiera, noto in tutti gli Stati Uniti, era il “Chianti Tipo”, bianco o rosso, venduto nei classici fiaschi (Italian Swiss Colony, pp. 28, 42, 55)

 

Il benvenuto che accoglieva i visitatori all’Asti Winery: fino agli anni Sessanta fu la maggiore attrazione turistica della California dopo il parco Disneyland di Anaheim.

Un grande ballo con orchestra dentro la gigantesca cisterna-cantina

 

Con l’intenzione di ampliare le capacità di magazzino, nel centro della tenuta fu costruita anche una gigantesca cisterna sotterranea, un serbatoio della capacità di mezzo milione di galloni. Un’opera record, scavata nella roccia per 25 metri di lunghezza, 10 di larghezza e 7 e mezzo di profondità, rivestita di cemento. Fu inaugurata il 14 maggio 1898 con una grande festa ospitata all’interno della cisterna, con tanto di ballo di gala e orchestra. Duecento invitati arrivarono ad Asti per l’occasione con un treno speciale fatto partire da Sausalito. 

Fu un grande evento che attirò sulla Asti californiana l’attenzione della stampa internazionale come era già accaduto nel 1896, quando l’Italian Swiss Colony ricevette la visita di Luigi di Savoia, cugino del re d’Italia, con dieci ufficiali del suo seguito. Pochi anni dopo giunse ad Asti anche una delegazione di 46 esperti in agricoltura inviati dal governo tedesco per studiarne i vigneti e le cantine. Asti e il suo progetto furono anche al centro di una operazione che oggi definiremmo di marketing territoriale: nelle pubblicazioni promozionali non si parlava soltanto della qualità dei vini prodotti, ma si faceva riferimento alla storia dell’Italian Swiss Colony, con le difficoltà incontrate e i successi ottenuti, le visite eccellenti e le descrizioni di Asti come “paradiso dei lavoratori”. 

Anche l’“etnicità” della colonia veniva utilizzata nel pionieristico marketing di Sbarboro come strumento di identità e conoscenza: “Ad Asti i lavoratori sono pittoreschi. Hanno figli graziosi, allegri, dagli occhi scuri, e donne meravigliose” riporta in un dépliant di inizio Novecento. Negli Anni ’40, i vini provenienti da Asti venivano già pubblicizzati sui giornali come “Wines with a past”, vini con un passato. 

 

Una pagina pubblicitaria dell’Italian Swiss Colony del 1944: “Wines with a past… for your pleasure today”.

La storia di Asti in California continua, anzi evolve. L’azienda entra nell’orbita della Gallo Winery

 

“Sessantadue anni fa – si legge in un redazionale dell’epoca dedicato ai vini dell’Italian Swiss Colony – un gruppo di persone fondò una Colonia unica in America, che presto divenne famosa per i suoi vini eccellenti. Le diedero il nome di Italian Swiss Colony. Scelsero un terreno tra le colline della contea di Sonoma – il cuore della regione vinicola californiana – dove suolo e clima erano ideali. Piantarono le migliori viti europee, che crebbero senza irrigazione. Poi, con perizia e pazienza, i coloni fecero vini che vinsero molte medaglie d’oro e prestigiosi riconoscimenti in tutto il mondo. Per conoscere il resto di questa romantica storia, aprite, e godetevi, una bottiglia di vino di Asti. Scoprirete un vino profumato, tanto straordinario quanto il luogo in cui è stato prodotto”.

Fino agli Anni Sessanta del Novecento Asti fu la maggiore attrazione turistica della California dopo il parco Disneyland di Anaheim. In molti oltreoceano ricordano ancora gite di famiglia e vacanze all’Asti Winery. Il fondatore, Sbarboro, era morto – milionario – il 28 febbraio 1923. All’inizio del Novecento il re d’Italia gli aveva conferito il titolo di Cavaliere della Corona d’Italia. “I vitivinicoltori piemontesi – californiani del terzo millennio – scrive Simone Cinotto nel suo libro – possono usufruire di un importante bene lasciatogli dai predecessori di cento e più anni fa, la storia: un’epopea di padri fondatori che, nell’ambito dell’interesse tutto postmoderno per le radici, le tradizioni e la memoria, aggiunge un’importante dimensione culturale al loro lavoro nell’industria del vino contemporanea”. Sonoma e la vicina Napa Valley sono diventati da decenni tra i territori del vino più famosi al mondo.

Altri italiani (come Robert Mondavi, di origine marchigiana, grande amico dei vignaioli piemontesi) hanno contribuito a far conoscere la qualità e la storia dei vini californiani. La realtà e la storia della Asti californiana si inseriscono in questo filone e rappresentano uno dei punti di partenza dell’epica impresa vitivinicola e sociale che la “nostra” Asti, in Piemonte, dovrebbe meglio conoscere e intrecciare. Partiamo da un’altra radice astigiana che affonda nella storia del colosso del vino italoamericano E&J Gallo Winery. La madre dei fratelli Ernest e Julio Gallo, Assunta “Sousie” Bianco, era nata infatti nel 1887 ad Agliano, come attesta lo studio di Cinotto.

Era figlia di Battista Bianco, un viticoltore emigrato in America nel 1893 con moglie e prole; la famiglia si era stabilita ad Hanford e aveva avviato una produzione vinicola (“Family Secrets: Today, They Produce 25% Of The Wine Sold In This Country. But The Gallos’ Climb To The Top Was Anything But Smooth. Their History Includes Allegations Of Bootlegging, Family Violence And A Bitter Fight Over Assets” Los Angeles Times, 28 febbraio 1993 Ellen Hawkes).

 

Una attrazione enoturistica della California

 

Climb To the Top Was Anything but Smooth. Their History Includes Allegations of Bootlegging, Family Violence and A Bitter Fight Over Assets” Los Angeles Times, 28
febbraio 1993 Ellen Hawkes).

La vicenda della famiglia Gallo, tra luci e ombre, genialità e dramma, somiglia alla trama di un film: Giuseppe Gallo aveva lasciato Fossano per approdare in California, dopo aver cercato fortuna in Venezuela e a Filadelfia. Nel 1908 aveva sposato Sousie. Aveva lavorato come operaio e gestito dei saloon in alcune cittadine della frontiera mineraria prima di lanciarsi nel commercio del vino, piantando una vigna nella San Joaquin Valley, a Modesto. Giuseppe e Sousie diedero alla luce Ernest (1909-2007), Julio (1910-1993) e Joseph(1919-2007). 

Il 21 giugno1933 Sousie fu trovata morta in un campo nella casa di famiglia vicino a Fresno: era stata raggiunta alla testa da un colpo di pistola sparato dal marito, che poi aveva rivolto la calibro 32 Smith & Wesson verso sé stesso e si era ucciso, probabilmente a causa dei debiti che aveva contratto durante la grande depressione del 1929. Due mesi dopo l’omicidio-suicidio dei genitori, ormai alla fine dell’epoca del Proibizionismo, Ernest e Julio crearono la E&J Gallo Winery grazie a un prestito di 5900 dollari. Come spiega Ernest nel libro “Ernest e Julio Gallo: la nostra storia”, fino a quel momento erano stati in grado di fare soltanto “un vino che a dicembre sembrava succo d’uva e a giugno aceto”.

“Ovviamente – scrive Gallo – non sapevamo nulla sulla produzione del vino. Sebbene avessimo pochi fondi, cercammo un esperto da assumere ma non trovammo nessuno che ci aiutasse, così Julio e io andammo avanti da soli”. “Nella biblioteca di Modesto cercai un libro sulla vinificazione. Spiegai alla bibliotecaria cosa avevo in mente ma sugli scaffali non aveva nulla del genere. Dopo tutto, eravamo alla fine di una decade di Proibizionismo, nessuno aveva più fatto ricerche sulla produzione del vino da tempo. Stavo per andarmene quando la bibliotecaria si ricordò di alcuni opuscoli che tenevano in magazzino. Scesi le scale e vidi una pila di riviste e opuscoli tra cui uno sulla fermentazione firmato dal professor Frederic T. Bioletti del Dipartimento di Viticoltura ed Enologia dell’Università della California di Davis. C’era una serie di questi opuscoli pubblicati dall’università su diversi esperimenti enologici. Era esattamente ciò che stavamo cercando”.

Il primo anno Ernest e Julio guadagnarono 30 mila dollari lavorando 18 ore al giorno, sette giorni alla settimana. Al momento della sua scomparsa, nel 2007, Ernest Gallo era diventato uno degli uomini più ricchi d’America, con un patrimonio di famiglia miliardario. Nella società lavorano oggi 6 mila persone e i vini Gallo sono diffusi in 90 paesi del mondo, Italia compresa.

 

L’Asti “Tipo Chianti”, successo commerciale dell’Italian Swiss Colony (Collezione di Simone Cinotto)

Vite d’emigranti

 

Ernest Gallo aveva accettato nel 2001 di partecipare ad Asti a un convegno organizzato nell’ambito della Douja d’Or da Sergio Miravalle e Roberta Favrin. “Vite d’emigranti” mise a confronto storie di piemontesi che avevano fatto fortuna nel mondo producendo vino (Bianchi da Castello d’Annone all’Argentina, Canepa dalla Liguria al Cile) e storia di recente immigrazione con albanesi, svizzeri, macedoni al lavoro nelle vigne piemontesi. L’11 settembre 2001 l’attacco alle Torri Gemelle bloccò tutti i voli da e per l’America ed Ernest Gallo non potè partire per Asti per venire a raccontare la straordinaria storia della sua impresa. 

Il 20 luglio 2015, una nota stampa dal quartier generale della E. & J. Gallo Winery annuncia l’acquisto della Asti Winery da parte della casa vinicola di Modesto. “La Asti Winery fu fondata dall’italiano Andrea Sbarboro nel 1881 – si legge nel comunicato stampa –. Nota come Italian Swiss Colony, la Asti Winery è stata di proprietà di molte famiglie locali e produce una varietà di vini da numerosi vigneti del posto. Oggi si estende per oltre 500 acri ed è in grado di lavorare più di 35 mila tonnellate di uva”.   

Le Schede

 

L'AUTRICE DELL'ARTICOLO

Astigiani è un'associazione culturale aperta, senza scopo di lucro, che ha bisogno del sostegno di altri "Innamorati dell'Astigiano" per diffondere e divulgare la storia e le storie del territorio.
Tra i suoi obiettivi: la pubblicazione della rivista trimestrale Astigiani, "finalizzata alla raccolta e diffusione di informazioni e ricerche di storia e cultura astigiana dal passato remoto a quello prossimo, con uno sguardo al presente e la visione verso il futuro (dallo statuto), la raccolta di materiale per la creazione di un archivio fotografico, video e documentale collegato al progetto "Granai della memoria", la realizzazione di presentazioni pubbliche e altri eventi legati al recupero della memoria del territorio.

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