lunedì 20 Ottobre, 2025
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1948
Confesso che ho vissuto

Massimo Berruti, la vita in pugno

Il ragazzino esile e tenace diventa campione di balon. Le mitiche sfide con Bertola, sport e ricerca artistica
Nato a Rocchetta Palafea, vive a Canelli. È un mito riconosciuto nel grande territorio del Piemonte e Liguria di ponente dove vive ancora l'antico gioco del balon. Le sue sfide con Felice Bertola hanno gremito per anni gli sfristeri della pallapugno e creato due partiti agonistici: i berrutiani e i bertoliani Ma lui ha saputo andare oltre quelle sfide epiche e ne ha superate altre che la vita gli ha imposto. Più forte delle malattie e degli infortuni ha trovato nell' arte un nuovo modo di esprimersi e completarsi.Questa é la storia di un campione e di un uomo che non teme di andare controcorrente

I ricordi della tua infanzia dove ci portano?

 

Sono nato il 16 marzo 1948 a Rocchetta Palafea, dove ho vissuto fino all’età di quindici anni, quando con la famiglia ci siamo trasferiti a Canelli. Sono il primo di tre figli maschi. Mia madreera casalinga. Mio padre, maestro nelle scuole elementari del mio paese, e mio zio, panettiere, erano di stirpe pallonara e buoni giocatori di balon.

Mio zio è stato battitore in serie A. Mio padre ha giocato qualche partita come terzino con il mitico Augusto Manzo. Il fascino e i primi rudimenti della palla a pugno li ho dunque imparati in famiglia. Come anche l’amore per l’arte e il gusto della lettura.

Che tipo di ragazzino eri?

 

Ho sempre avuto un carattere timido e un po’ introverso. Pur amando il gioco e la compagnia dei coetanei, sapevo anzi desideravo anche starmene da solo. Mi piaceva sognare: per farlo mi arrampicavo come un gatto sulla torre del paese e da lassù,
guardando le nuvole, mi perdevo nei miei mondi.

I miei sogni erano pieni di viaggi spaziali e della voglia di diventare un artista e un forte giocatore di pallone elastico che, a quell’epoca, tutti chiamavano ancora con il nome storico: balon.

Se dovessi raccontarti in una dote e in un difetto?

 

L’onestà e il rispetto degli altri li ho sempre messi in testa a tutto. La cocciutaggine e l’intransigenza mi hanno creato dei problemi di relazione, ma sono anche stati la mia salvezza. Mio padre diceva che ero cocciuto come un mulo. Sul campo non ho mai mollato
un quindici. Nella vita ho saputo ricacciare ai durissimi colpi del destino.

Massimo Berruti bambino accanto al grande Augusto Manzo, mitico campione della palla pugno. (Foto archivio privato Elisabetta Manzo)

Figlio del maestro del paese, quindi un’infanzia protetta?

 

Felice, certo. Ma, come usava allora, nulla di regalato: né in casa né a scuola. Ero mancino e mi sono scontrato con maestre che, secondo i dettami del tempo, mi bacchettavano le dita per costringermi a cambiare mano. Le insistite bacchettate, erano legate anche alla mia cocciutaggine, giacché in realtà ero un po’ ambidestro.

Inoltre, un’infezione al dito medio della mano sinistra richiese un’operazione senza anestesia in cui mi aprirono il dito e asportarono il muscolo flessore, oltre a drenare tutto il possibile per via del tetano che stava salendo lungo il braccio.

Qual è stato il tuo percorso scolastico?

 

Le scuole medie le ho frequentate tra Nizza Monferrato (1^) e Cairo Montenotte (2^ e 3^), che raggiungevo in treno, andando a piedi da Rocchetta Palafea fino alla stazione di Bistagno la domenica e viceversa, sempre a piedi, il sabato con un borsone da viaggio per ogni mano, il sole o la pioggia, il freddo e la neven d’inverno.

Per le scuole superiori sono inizialmente salito sulla strada sbagliata rispetto alle mie inclinazioni, per poi ravvedermi e cambiare completamente direzione. A metà del terzo anno di Ragioneria, ho fatto un’inversione a U e sono passato al Liceo Artistico di Cuneo, preparando due anni come privatista. L’approccio non è stato del tutto tranquillo, giacché vigeva una certa diffidenza verso i privatisti. Il prof di architettura mi aveva affibbiato addirittura un 1 per ripicca, avendo avuto con lui una discussione, ma mi salvai avendo 9 in materie artistiche.

Ho poi frequentato un anno all’Accademia Albertina, alla scuola di Francesco Menzio.

Su quali letture ti sei formato?

 

La mia cultura a vent’anni era tutta incentrata su Arte, Fantascienza, Cosmologia, Scienza informatica e Psicologia. Ero un lettore onnivoro e, per mia fortuna, allora Rocchetta Palafea aveva un centro di lettura gestito da mio padre e così riuscivo a circondarmi di libri.

Momenti della intensa vita agonistica di Massimo Berruti. A lato una foto simbolo delle agguerrite sfide che lo hanno visto contrapposto a Felice Bertola. Un dualismo che ha infiammato per anni il mondo della pallapugno
Momenti della intensa vita agonistica di Massimo Berruti. A lato una foto simbolo delle agguerrite sfide che lo hanno visto contrapposto a Felice Bertola. Un dualismo che ha infiammato per anni il mondo della pallapugno

Qual è stata invece la tua formazione culturale in relazione agli Anni Sessanta, quelli della generazione beat e della protesta giovanile?

 

Sono stato letteralmente fulminato dalla Pop-Art, appena arrivata dall’America, e dal Rock Anni 50 di Jerry Lee Lewis, Bill Haley e, a seguire, Fats Domino, Eric Clapton, Jean-Michel Jarre. Mi ero costruito un impianto Hi-fi di altissimo livello, grazie a un negozio di Cairo Montenotte che sapeva consigliare bene e permetteva cambi dell’usato per arrivare
sempre più in alto come qualità.

I dischi li facevo arrivare da Bologna tramite un negozio che li importava dagli Usa. Tra i
musicisti italiani amavo il “primo Celentano di rottura”, quindi Lucio Dalla, Vasco Rossi. Ero appassionatissimo di pugilato, compravo tutti i numeri di Boxe Ring e conoscevo a memoria i nomi dei primi dieci pugili di livello mondiale di ogni categoria. I miei idoli erano: Bruno Arcari, tra gli italiani, Alexis Arguello, Thomas Hearns, “Mano di pietra” Duran tra gli stranieri.

Il mio look era ispirato ai “capelloni” (allora li chiamavano così) e ai primi beat, da cui mi
sono allontanato quando hanno iniziato a mitizzare la droga.

Veniamo alla tua formazione sportiva: c’è da immaginare quella di un predestinato.

 

I primi pugni al pallone li ho dati da bambino sotto la guida di mio padre e insieme ai miei coetanei di Rocchetta Palafea. Ero mingherlino, svelto, agile, coordinato e sapevo colpire con una straordinaria precisione.

Io non so se innata, come molti dicono. So che passavo ore e ore, da solo, a palleggiare contro il muro di una casa posta di fronte al Municipio, di balzo e di volo, un colpo di qua, l’altro di là, tra porte e finestre, per imparare a dirigere la palla, velocizzare occhio e riflessi, mettere gambe, braccia, muscoli e cervello in sintonia, senza stancarmi mai. Molti venivano a vedermi in quegli infiniti primi allenamenti. Con la squadretta dei miei coetanei siamo anche stati in televisione.

Dalla piazza di Rocchetta Palafea sono poi passato su tutte le piazze del balon di Langa,
Monferrato e Liguria di Ponente. Il mio amico Nando Vioglio ha raccolto un divertente aneddoto relativo a una mia partita da quindicenne sulla piazza di Niella Belbo: la vecchia maestra del paese, vedendo i suoi ex alunni fatti uomini affannarsi contro un ragazzino, li
aveva rimproverati dicendo: «Vergugneve! (vergognatevi!) biteve contra na masnà parei! (mettervi contro un bambino così!)».

Non poteva di certo sapere che i miei avversari di quel giorno non riuscivano nemmeno a vincere un gioco!

Chi erano i tuoi idoli di allora?

In famiglia sentivo raccontare del nonno Pietro e delle sue imprese al bracciale. I miei idoli di allora erano mio zio Franco Berruti, Franco Balestra e Augusto Manzo. Manzo e Balestra li ho conosciuti da bambino: abbiamo giocato una partita di pulcini prima di una loro sfida. Per me è stato come conoscere Pelé, due atleti mitici dotati anche di un carisma personale straordinario.

Massimo Berruti nel suo studio di Canelli dove realizza vetrate artistiche e quadri ispirati a intensi soggetti femminili

La tua carriera sportiva si è sviluppata rapidamente: cosa ti rimane di quegli Anni Sessanta vissuti di corsa? C’è un momento di svolta?

Gli Anni Sessanta sono stati anche gli anni della mia formazione sportiva. Tra il ’62 e il ‘64 ho vinto tre scudetti consecutivi nelle categorie giovanili; ho fatto un solo anno in serie B e, nel 1966, sono approdato in A ad Alba, al fianco di Beppe Corino. Mi aveva voluto Romualdo Isnardi, il patron del mitico Mermet, per tentare di riconquistare lo scudetto, che mancava dal ‘62.

Per due anni ci siamo classificati terzi. Ma, quando da spalla sono passato in battuta, ho avuto modo di mettermi in mostra con battute che superavano gli allora classici 70 metri, per toccare punte anche di 78. Se mi è concesso un parolone, direi che, almeno per la mia
carriera, una data epica è stata il 3 settembre del 1967, con la mia prima vittoria per 11 a 7 su Felice Bertola, il campione da due anni in carica. Quella partita ha aperto la nostra lunga stagione di memorabili sfide.

Il 1968 è stato per me un anno difficile: giocavo a Cairo Montenotte al fianco del mio idolo Franco Balestra, ma per un guaio alla spina dorsale ho dovuto stare fermo per quasi un anno, portare tre mesi di busto al torace e sorbirmi i verdetti dei medici che mi preconizzavano un futuro senza sport. L’anno dopo, g razie a un intenso e mirato lavoro di palestra, ero in campo a Pieve di Teco come spalla di Aurelio Defilippi, con cui mi alternavo anche in battuta.

Eccoci agli Anni Settanta e Ottanta: due decenni tra i più memorabili di tutta la storia del balon. La tua apoteosi ma anche il tuo momento più difficile.

 

Tutto vero. Sono stati gli anni esaltanti delle sfide con Bertola. Attorno a noi, i tifosi e i giornali hanno costruito il classico antagonismo sportivo, opponendo me a lui, i “berrutiani” ai “bertoliani”. In realtà Felice e io, pur appartenendo per cultura a due realtà diverse, ci siamo sempre stimati e rispettati reciprocamente, duellando con grande sportività e onestà. Non abbiamo mai avuto un diverbio. Per caratteristiche di gioco si può dire che eravamo complementari.

Penso che Bertola sia stato il migliore avversario che potessi desiderare. Riempivamo
gli sferisteri e le pagine dei giornali. Abbiamo costretto anche la televisione a occuparsi del balon. La cosa stupenda è che, nonostante l’agguerrita opposizione delle tifoserie, non si è mai verificato un problema di ordine pubblico. Poi, quand’ero all’apice della carriera, a causa di una trombosi al braccio destro ho rischiato addirittura la vita.

Che cosa era successo?

 

Al primo scudetto vinto nel 1973 per Monastero Bormida, ne sono seguiti altri due: nel ’74 ancora per Monastero Bormida e nel ’76 per Cuneo. Nel 1977, nel pieno di una stagione da
dominatore assoluto e con lo scudetto praticamente in tasca, durante un’amichevole in programma a Cervere, ho avvertito lancinanti dolori al braccio destro che mi hanno costretto al ricovero immediato in ospedale in serio pericolo di vita.

Terribile il responso dei medici: trombosi acuta dell’arteria ascellaree minaccia di amputazione del braccio a scanso di estreme conseguenze. Mi sono opposto risolutamente: pazienza per il pallone, giacché avevo già tre scudetti alle spalle, ma rinunciare al braccio con cui dipingere mai!

Le cure alternative che mi vennero proposte contenevano rischi incalcolabili. Il professor
Silvestrini, primario delle Molinette, mi disse: «Fai conto di viaggiare perennemente contromano in autostrada! E scordati il pallone!». Ma non aveva fatto i conti con la mia cocciutaggine: un mese dopo ero già in campo per saggiare prudentemente quel braccio in cui non batteva più il polso.

Il responso di quei pochi colpi fu per me confortante, per cui ricominciai con pesi e palestra, aumentando rapidamente gli allenamenti d’intensità e durata. Agivo pericolosamente in contrasto ai protocolli di riabilitazione educativa che mi erano stati assegnati. In breve
tempo ho recuperato tono fisico e forza muscolare, arrivando a sollevare 40 chili con una sola mano. Insomma, sono diventato e sono ancora oggi un caso clinico di studio portato in discussione nei convegni scientifici dagli stessi medici che mi avevano preconizzato l’inabilità sportiva totale.

Mi sono ripresentato ai nastri di partenza del campionato del 1978 in forma smagliante, vincendolo per i colori di Monastero Bormida contro il mio rivale di sempre, emblema del balon albese.

Epica è stata l’andata di finale in un Mermet stracolmo: con Bertola in vantaggio per 10 e trenta a 6 e due cacce buone e i miei tifosi che già stanno lasciando lo sferisterio, riesco a iniziare una battuta ad effetto che mette in crisi la squadra di Bertola e Bertola stesso. Vinciamo 11 a 10 tra l’incredulità di tutto il pubblico.

Ho poi ancora vinto i campionati nell’80 e nell’81, oltre a trofei e Coppe Italia. Nell’82 ho portato Castelletto Molina in finale, perdendola contro Carlo Balocco. Nel 1987 ho perso in
finale contro il giovane emergente Riccardo Aicardi. Ho chiuso la carriera nel 1991 a quarantatré anni.

Il campione ha giocato in decine di piazze e sferisteri. Le prime partite di balon le ha disputate a Rocchetta Palafea il suo paese dove è nato nel 1948

Come si conciliava la tua modernità culturale con il terragno e tradizionale mondo del balon?

 

All’inizio sono stato vissuto con diffidenza e come un elemento estraneo alla cultura del balon: i miei capelli lunghi, i miei occhiali, alcuni miei sponsor come “Jeans Fashion” erano
quasi una provocazione per molti appassionati. Anche sui giornali venivo definito un mezzo atleta o atleta-robot perché mi allenavo molto in palestra.

La mia sportività, un valore a cui sono stato educato e per me imprescindibile, veniva
scambiata come mancanza di astuzia. Gradualmente e sul campo mi sono guadagnato la simpatia di molti tifosi e il rispetto dei “bertoliani”, un legame di affetto che dura ancora
adesso con mio grande piacere. Il fatto che lo stesso Bertola dica pubblicamente che il mio ricorso alla preparazione tecnica abbia obbligato anche lui a curare gli allenamenti, allungandogli in tal modo la carriera di dieci anni, è per me un motivo di orgoglio. Posso dire che siamo stati noi due a trasformare il balon in un vero sport.

È in questo contesto che si colloca il capitolo delle “traverse”, come venivano chiamate in gergo le scommesse. Anche in proposito sei stato “di rottura”.

 

In realtà io non sono mai stato contrario alle scommesse. Le scommesse fuori dallo sferisterio mi vanno benissimo. Trovavo invece indegno per uno sport il modo volgare in cui avvenivano, riducendo un fatto sportivo a un momento quasi di folclore e scarsamente credibile. Credo che se il balon oggi può stare dignitosamente al tavolo del Coni e goderne gli indubbi benefici economici, ciò sia anche un po’ merito mio e di chi, con me, ha combattuto quella battaglia.

Tra gli altri, vorrei in proposito ricordare Raoul Molinari.

Il mondo del balon, proprio per la sua anima popolare, è ricco di aneddoti: immagino che anche nella tua lunga carriera non manchino.

 

Quando giocavo a Pieve di Teco, durante una partita con 42° gradi all’ombra, un arbitro prese un colpo di sole e ne combinò di tutti i colori, fischiando falli contro di noi al terzo salto e facendo altri errori madornali. Solo a stento riuscimmo a vincere per 11- 10 una partita completamente dominata. A causa del pubblico inferocito, fu necessario far venire la polizia d’Imperia. Scortato fino alla sua macchina, ne ridiscese con una pistola in mano deciso a vendicarsi. Per fortuna riuscirono a bloccarlo!

Altra partita folle: finale del Torneo a Piani di Imperia contro Balocco, che giunse con un’ora di ritardo (accordatagli, a nostra insaputa, dalla Federazione per esame medico). Inizio partita alle ore 22; mezz’ora di interruzione per problemi energia elettrica; fine partita alle 2,30 senza pubblico sugli spalti. Per premio, anziché le medaglie d’oro previste, ci consegnarono 120 kg di pasta…! Lite evitata per un soffio…

Viaggio da Piani fino a casa in cinque su una macchina, ognuno con la borsa da gioco sulle
ginocchia per via della pasta che aveva riempito il portabagagli. Arrivati a Ponti, foratura di una gomma e relativo scarico della pasta sulla strada per estrarre la gomma di scorta… Arrivati all’ingresso di Canelli alle 6, troviamo il passaggio a livello chiuso per un bel po’… Entrati in un bar per prendere un caffè ci salutarono con un: “Alzati presto, stamattina”.

A Monastero Bormida, in una partita al cordino, Bertola e io abbiamo colpito la palla ventinove volte a testa. Credevamo tutti e due di morire stravolti dalla stanchezza.
Poi ci sono gli eventi classici, tanto cari all’epica popolare della palla a pugno: quando ho vinto il primo scudetto abbiamo festeggiato da domenica alle 19 a martedì a mezzanotte
senza interruzione! All’ultimo campionato vinto i tifosi mi hanno “costretto” a 45 cene di festeggiamento in due mesi. Il balon è anche questo.

Una plastica posa di Berruti, battitore potente e preciso. Un momento di relax con il figlio Dario
Una plastica posa di Berruti, battitore potente e preciso. Un momento di relax con il figlio Dario

Torniamo alla tua vena artistica: come ti defineresti?

 

Fin da bambino amavo i colori, su tutti il viola. Mi piacevano così tanto che avrei voluto mangiarli. Ho avuto ottimi professori. Artisticamente, sono partito dalla Pop-Art, su cui ho innestato mie personalissime evoluzioni e contenuti. Dipingo a mano libera con l’aerografo.

Prediligo lavorare su cartoncino nero, che è il colore di fondo dello spazio e dell’inconscio. I miei temi sono: gli spazi siderali come luogo del silenzio e del mistero, dove tutto può esistere; la donna, l’essere che è un tutt’uno come mente e corpo, immagine di bellezza non fine a se stessa ma sguardi e occhi per avvicinarsi alla magnetica insondabile profondità dell’eros.

Ho fatto mostre da Parigi a New York, da Berlino a Montecarlo, da Milano a Firenze. Ho ricevuto offerte vantaggiose da galleristi importanti, ma non ho mai voluto diventare prigioniero. di logiche mercantili, perché la libertà di coscienza e di pensiero non hanno
prezzo. Anche per questo, artisticamente ho sempre vissuto da isolato. Pagando un
prezzo in termini di notorietà, ma restando fedele ai miei valori.

La tua arte è modernissima, quasi da avanguardie metropolitane: come sei riuscito a conciliarla con il tradizionalissimo balon?

 

Ritengo che in realtà anche il balon sia modernissimo: perché, in quanto elemento identitario della nostra cultura, è eterno. La più bella metafora del carattere della nostra gente e delle nostre colline: dell’amore per la sfida, della capacità di arcassé al destino mettendoci lo zembo, di mirare sempre all’intra, di saper stare però
nella lissa. Balon e arte sono stati la tua vita.

E oggi?

 

Anche oggi è ancora così: balon e pittura. Il mio mondo è qui e di qui non mi muovo! Collaboro con la Federazione nel tenere vivo e promuovere lo sport della palla a pugno, alleno alcune giovani promesse, mi divido tra lo studio pittorico e le creazioni su vetro
del negozio “Azzurro Cielo”. E la mia vita continua a correre contromano in autostrada… ma ho ancora tanta strada da fare.

Un consiglio per un giovane che voglia coltivare la sua passione per lo sport.

 

Di non mirare al risultato e al successo, perché la soddisfazione devi coglierla giorno per giorno nel percorso di vita. Essere cioè consapevole che la vera fortuna è quella di poter percorrere quella strada. Se poi arriverà anche il successo, sarà un qualcosa in più. E
se non dovesse arrivare, non toglierà niente alla bellezza del sogno.

l'autore dell'articolo

Luciano Bertello
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Astigiani è un'associazione culturale aperta, senza scopo di lucro, che ha bisogno del sostegno di altri "Innamorati dell'Astigiano" per diffondere e divulgare la storia e le storie del territorio.
Tra i suoi obiettivi: la pubblicazione della rivista trimestrale Astigiani, "finalizzata alla raccolta e diffusione di informazioni e ricerche di storia e cultura astigiana dal passato remoto a quello prossimo, con uno sguardo al presente e la visione verso il futuro (dallo statuto), la raccolta di materiale per la creazione di un archivio fotografico, video e documentale collegato al progetto "Granai della memoria", la realizzazione di presentazioni pubbliche e altri eventi legati al recupero della memoria del territorio.

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