Era l’estate del 2009 quando io e mia moglie Carlotta affrontammo l’Oregon Trail, un tour di quasi 6 mila chilometri nel cuore degli States.
Visitare l’America dell’Oregon Trail è stato come vedere gli Stati Uniti dalla parte delle radici, per parafrasare Davide Lajolo, perché ha significato immergersi nella cultura agricola dei coloni e dei cowboys come testimoniano i simboli di questi stati: la rosa selvatica dello Iowa, l’ape da miele del Nebraska, il cavaliere a cavallo del Wyoming, la patata dell’Idaho e l’abete del verdissimo Oregon.
Noi volevamo inseguire le tracce di quei due milioni di pionieri che nel giro di circa 40 anni, dal 1830 al 1870, hanno seguito la pista che collegava gli stati del Midwest sino all’Oregon,
lo stato sulla costa pacifica a nord della California.
Su una Ford Escort, presa a nolo, abbiamo attraversato le praterie, superato valichi, scavalcato colline e montagne, percorso le vallate dei fiumi Missouri, North Platte, Wind River, Snake River sino ad arrivare alle cascate di The Dalles e al Columbia che ci ha portati a destinazione, a Oregon City.
Per i coloni a bordo delle loro carovane la via della speranza verso il West durava almeno cinque mesi, partivano in primavera per avere erba per gli animali: a noi sono bastati 20 giorni, concedendoci piccole digressioni a Deadwood, la città dove venne assassinato il celebre pistolero Will Bill Hickok, a Little Big Horn nel Montana, dove il generale Custer e il suo settimo cavalleggeri furono sconfitti e massacrati da Cavallo Pazzo e Toro Seduto, e nella vicina riserva dei Corvi per assistere a un powwow, il raduno delle tribù dei nativi che avviene ogni anno a metà agosto.
Ma questi sono viaggi nel Viaggio. Il nostro viaggio per me, appassionato e storico dei fumetti, è stato anche un omaggio a Tex Willer, il personaggio che mi ha portato con la
fantasia in questi luoghi e a quell’epoca.
Il tracciato dell’Oregon Trail è perfettamente segnalato, che si tratti di attraversare l’Interstate o le strade provinciali, oppure seguire le piste lungo le praterie. Sono sistemati cartelli e punti di visione, con spiegazioni accurate e registri dove apporre il proprio nome di visitatore e brevi riflessioni sul viaggio. Delle migliaia di chilometri (circa tremila) del percorso originario, un buon 15% è ancora conservato e mantiene le caratteristiche dell’epoca: si tratta di sterrati dove è possibile vedere ancora le tracce lasciate dai carri.
Degli indicatori di metallo bianchi rilevano la pista dove passavano le carovane. È un viaggio davvero unico, lontano dalle rotte turistiche. Si tratta dell’America rurale e dei grandi ranch. Ampie distese di terra a volte aspra, a volte fertilissima. È il caso del Nebraska che ha rappresentato la nostra prima tappa. Una linea di marcia che ha preso le mosse da Council Bluff e da Omaha, che costituiva l’alternativa alla più trafficata Indipendence nel Missouri.

Da qui partivano i mormoni che si ricongiungevano alle altre carovane all’altezza di Fort Kearney, lungo il North Platte, il placido fiume che accompagnava i pionieri sino alla Chimney Rock. Siamo ai confini tra lo Iowa e il Nebraska. A Omaha, ricca città agricola del Nebraska, dove vive il miliardario filantropo Warren Buffet, si trova un museo che raccoglie
le testimonianze dei viaggi dei pionieri e i quadri dell’artista americano Alfred Jacob Miller, il pittore-viaggiatore che descrisse per primo, con le sue accurate illustrazioni, il percorso dei pionieri.
Il meraviglioso Wyoming è il secondo stato che abbiamo attraversato. Una regione grande quanto Piemonte, Lombardia e Veneto insieme, ma abitato da appena 500 mila abitanti. Visitato Fort Laramie, sito dove fu firmato il trattato di pace tra le giacche azzurre e Nuvola Rossa nel 1868, che assegnava definitivamente le Black Hills ai Sioux (accordo ovviamente
disatteso dai “visi pallidi” pochi anni dopo), abbiamo raggiunto la riserva di Wind River dove vivono insieme i discendenti delle tribù Arapaho e Soshoni.
Qui ho gustato una cena che avrebbe fatto invidia a Tex e al suo pard Kit Carson: in un ristorante arredato in stile Anni ’70, cameriere ultra sessantenni hanno servito una bistecca alta tre dita che si tagliava come burro, dorate patatine fritte e la torta di mele. Il mattino dopo siamo partiti per Jackson Holl, amena località sui monti Teton, ma prima abbiamo
dovuto superare South Pass, un passo di montagna sullo spartiacque Continental Divide nelle Montagne Rocciose del Wyoming sud-occidentale. A sorpresa si esce dall’Interstate e si percorre uno sterrato in cui ci si imbatte in due ex città minerarie conservate come alla fine dell’Ottocento: South Pass City e Atlantic City.

Siamo scesi giù sempre con la nostra Ford e abbiamo affrontato un tratto di prateria, percorso che facevano le carovane un secolo e mezzo fa. Sul cruscotto dell’auto è però apparso il segnale della perdita di pressione di un pneumatico. Avevamo bucato: abbiamo tolto le valigie dal bagagliaio per permettere all’esile cric in dotazione di sollevare la vettura e cambiare la ruota. Non ho però calcolato il terreno sabbioso e il cric è affondato.
Ci siamo guardati intorno: il deserto totale. D’improvviso, dopo un’ora di vana attesa, abbiamo intravisto un nuvolone di polvere all’orizzonte. Come nei film western quando “arrivano i nostri”. Era un pick-up che si è fermato per prestarci soccorso: dal mezzo è sceso uno smilzo personaggio con baffoni bianchi e un cappello da cowboy e al suo fianco un donnone che era il doppio di lui. Hanno preso dal pick-up un piantone che avrebbe sollevato un tir, e cambiato la ruota in pochi minuti. Angeli della prateria.
Tremila chilometri dopo siamo giunti al museo di Oregon City: ci attendeva una scalinata
che indicava i luoghi che percorrevano i pionieri. Noi li avevamo fatti tutti. Carlotta e io abbiamo osservato le scritte con un moto d’orgoglio. Tempo dopo Sergio Bonelli, l’editore di Tex, mi scrisse in un nostro scambio epistolare: «Ho letto con interesse la sua documentazione sia come editore che come viaggiatore: a questo proposito le invidio sicuramente il lunghissimo viaggio sull’Oregon Trail, che invece io (moltissimi anni or sono) ho percorso soltanto in parte». Il riconoscimento più bello della nostra impresa.