L’uovo: alfa e omega, uno-tutto, perfezione. Unità conchiusa ma feconda di nascita, sviluppo, differenziazione. Che si tratti dell’uovo “cosmico”, posto all’origine del mondo da parte di alcune antiche civiltà, o del significato di fertilità e dell’eterno ritorno della vita attribuitogli dai culti pagani, o, ancora, del forte valore che acquistò nella religione cristiana che lo vide come il simbolo della resurrezione di Cristo e della rinascita dell’uomo. Un’infinità di simbologie, dunque, circonda le uova, non ultime quelle – più laiche, semplici e popolari – che le associano alla primavera, alla fine dei rigori dell’inverno, al desiderio di uscire “dal guscio” per respirare un’aria che odora di nuovo. E, non secondario, per stare insieme e ravvivare i legami della comunità. Forse non è un caso – passando a terreni più profani come quello della gastronomia – che le uova trionfino in cucina proprio in questa stagione: frittate profumate di erbette fresche, insalatine di campo con le uova sode e un’idea di cipollotto novello, uova morbide a ricoprire una padellata di asparagi teneri. Poi ci sono le uova di cioccolato per festeggiare la Pasqua, ma questa è un’altra più recente storia.
Piuttosto va sottolineato il ruolo della uova nella frugale economia contadina di un tempo: il pollaio era una risorsa importante e le donne di casa con la vendita delle uova – dei pulcini e dei polli così come del latte della stalla – arrotondavano il magro bilancio familiare, riservando il consumo interno di uova a casi eccezionali, un bambino deboluccio, un parente convalescente, un anziano debilitato ai quali si offriva un uovo fresco da bere crudo o, per scialare, un tuorlo sbattuto con un cucchiaino di zucchero. Mettiamo insieme tutti questi elementi – i retaggi dei culti di fertilità, le simbologie religiose, la primavera che si risveglia, il valore dell’uovo come alimento – e si spiega l’antica e bellissima questua delle uova, una delle espressioni più suggestive della tradizione popolare rurale del Basso Piemonte.
L’allegra questuadel Cantè j’euv
Il rituale è conosciuto, oggi che il Cantè j’euv, abbandonato e pressoché estinto, è stato riproposto negli anni Sessanta da un gruppetto di musicisti del Roero, rivitalizzato e trasformato dalla “banda” di Carlin Petrini che invitò a cantar le uova nelle Langhe gruppi musicali italiani ed esteri, reso sistematico a partire dal 2000 nel Roero come una vera e propria folk kermesse, con tanto di postazioni regolamentate e stand gastronomici. La ricaduta sul territorio astigiano e monferrino si è fatta presto sentire, e diversi gruppi spontanei, Pro loco, frazioni e comuni organizzano il loro Cantè j’euv. È forse in queste piccole realtà che rivive la magia del rituale antico: gruppi di persone che percorrono le vie del paese o i viottoli di campagna nelle notti di Quaresima che precedono la Pasqua, una fisarmonica o una chitarra che dà il “la” alla canzone della questua (Suma partì da nostra cà, ca i-era n’prima seira, per amnive salutè, deve la bun-ha seira), qualche lontano abbaiare di cani, l’attesa e il proseguimento della canzone (O se voeri den-e d’euv de la galin-ha bianca, l’an ben di-ne i vostri ausìn ca l’è trei dì ca canta), una finestra che si apre, un cesto di uova che viene calato o, ancor meglio, il padrone insonnolito che apre l’uscio e invita i musicanti e i cantori a entrare per un bicchiere di vino. I ringraziamenti e il congedo dei questuanti non si fanno attendere mentre i padroni di casa, con il loro dono, sperano in un buon raccolto e in una prospera salute. Se la questua è infruttuosa, possono partire le “maledizioni”, cantate con simpatica cattiveria.
Oggi, nel rinnovato e “moderno” Cantè j’euv, non è raro che l’accoglienza nelle case e nelle cascine – nel periodo deputato non ci si lascia cogliere impreparati – sia ben più generosa. Ai questuanti si offre non solo il vino ma spesso buon pane e un tagliere di salumi, da un crudo che inizia a stagionare al roseo salame cotto da tagliare un po’ spesso, a una fetta di lardo cui è stata grattata via la concia di sale. E qualche padrona largheggia, con frittate, acciughe e bagnèt, due cucchiaiate di insalata russa, qualche bugia del Carnevale appena passato. Intanto il ragazzo travestito da fraticello accumula nel cesto le uova. In passato venivano vendute e il ricavato integrava le finanze per organizzare la festa dei coscritti, oppure andavano a finire in grandi frittate da consumare nel “merendino” di Pasquetta. La questua, in tal modo, assumeva pure una valenza ridistributiva della ricchezza, tant’è che i cantori, per lo più di modesta estrazione sociale, si indirizzavano alle case che disponevano di maggiori mezzi economici. Nell’attuale “Cantar le uova” può succedere, a seconda dei luoghi, che la questua abbia scopi solidaristici oppure che cooperi a finanziare attività a beneficio della comunità. Piace pensare, tuttavia, che qualche uovo, messo in comune, rallegri il picnic del lunedì dell’Angelo, magari utilizzato per confezionare quella torta di castagne che continua a essere di rito in una buona parte dell’Astesana. Da gustare insieme, ovviamente.