Una finestra sul ghetto, vita e ricordi degli ebrei ad Asti
La comunità ebraica di Asti si è estinta con l'Olocausto. Oggi solo le due stradine del ghetto restano a testimoniare una storia che ha le sue radici nel XIV secolo. Da allora, le vicende degli israeliti astigiani seguono quelle patrie: la peste del 1599, il breve respiro di libertà con la repubblica astese del 1797, la pressoché definitiva integrazione con l’unità d’Italia. Da quella comunità emersero figure di assoluto rilievo, come il segretario di Cavour, Isacco Artom, o ancora Zaccaria Ottolenghi, alla guida della cordata di finanziatori che costruì il Teatro Alfieri. L’Astigiano fu luogo accogliente per gli ebrei che fuggivano dalla persecuzione nazifascista, e a quegli anni risalgono incredibili vicende umane - e amori - che si dimostrarono più forti di ogni discriminazione.
Nel 1848 nel ghetto si contavano 400 persone
«Certo misero lo era, formato da due stradine che si incrociavano e si aprivano ogni tanto in vicoli ciechi, cortiletti, in uno slargo esiguo e privo di luce… Un venditore di acciughe in barile appestava l’aria con il puzzo della sua merce». Così Guido Artom, nel suo romanzo I giorni del mondo, ci fa entrare, quasi in punta di piedi, nell’antico ghetto ebraico di Asti, con le sue piccole botteghe, la sua scuola, la Sinagoga inaugurata nel 1889. Le antiche famiglie ebraiche astigiane non ci sono più: rimangono nomi e ricordi sempre più sfumati a segnare vie, piazze o palazzi e rimangono i ritratti severi degli esponenti più illustri della comunità nella Pinacoteca di Palazzo Mazzetti a testimoniare una storia remota, che si perde fin nell’Alto Medioevo, anche se una presenza costante comincia a registrarsi solo a partire dal XIV secolo, con l’arrivo degli ebrei espulsi dalla Francia e dalla Germania. La stabilità di cui gli ebrei godettero, in Asti, tra il XV e il secolo successivo permise loro di incrementare il proprio numero, anche se la peste del 1599, che colpì l’intera popolazione astigiana, causò la morte di circa una trentina di ebrei, quasi un quarto della comunità, trasferita momentaneamente in quarantena alla torre campanaria verso la Torretta, fuori dal centro abitato. Fin dall’inizio del 1600 è attestata l’esistenza di un luogo di culto adibito a Sinagoga, probabilmente sullo stesso luogo di quella attuale. Inizialmente un locale di una casa privata, poi una vera e propria Sinagoga. Senz’altro c’era il forno per cuocere le azzime e un locale adibito al bagno rituale. Con le regie costituzioni sabaude del 1723 venne istituito il ghetto, ossia un luogo separato e chiuso in cui dovevano obbligatoriamente risiedere gli ebrei di Asti e dei piccoli centri vicini.
Il censimento del 1761 registra 19 ghetti esistenti in Piemonte (i più popolosi erano quelli di Torino, Casale Monferrato e Alessandria, si segnala in Monferrato anche quello di Moncalvo) e per Asti quasi quaranta nuclei famigliari per un totale di circa duecento individui. Essi respireranno, per un brevissimo tempo, il sapore della libertà durante la breve vita della Repubblica Astese del 1797: si racconta dei portoni, che alla sera chiudevano gli accessi al quartiere ebraico, bruciati nella piazza del Municipio per sancire la fine dell’isolamento e della discriminazione. Nella prima metà del XIX secolo, prima della fine della ghettizzazione avvenuta con l’emanazione dello Statuto Albertino nel 1848, gli ebrei astigiani risultano essere poco meno di quattrocento, in progressiva crescita, tanto da far sentire forte l’esigenza di una ricostruzione e ampliamento della Sinagoga che si concluse nel 1840.
Il ruolo degli ebrei astigiani nel Risorgimento: Isacco Artom fu il segretario di Cavour
L’Unità d’Italia sancì una quasi definitiva integrazione degli ebrei, assimilazione in atto già da molto tempo, che ha trovato nel periodo risorgimentale un impulso notevole: è la condivisione di una coscienza nazionale e di un senso di appartenenza che in Asti può essere impersonificato da Isacco Artom, segretario e stretto collaboratore di Camillo Cavour, oltre che primo senatore ebreo del Regno d’Italia, ma anche, per esempio, dalla famiglia Ottolenghi, dal suo amore per la città, i suoi interventi in campo assistenziale, il suo mecenatismo e interesse per la cultura intesa come occasione di riscatto, ma anche di costruzione di una cittadinanza nuova. La volontà di progettare e realizzare un museo dedicato alle lotte risorgimentali, di dedicare la piazza Roma antistante il vecchio ghetto alle battaglie che hanno portato all’Unità italiana, gli interventi nel settore della cultura e dell’arte, tutto rientra in questo processo di appartenenza a una comunità cittadina e nazionale che travalica i confini dell’identità religiosa. Lo stesso senso di appartenenza a una comunità nazionale farà vivere agli ebrei italiani, e anche astigiani, la prima guerra mondiale come l’ultima fase della costruzione di una vera e propria identità nazionale. È di questo radicato senso di appartenenza più alla comunità nazionale che a quella religiosa, la profonda integrazione e il considerarsi prima di tutto cittadini italiani che ebrei, che si deve tener conto quando si parla di fascismo, leggi razziali e poi di Shoah.
Nel 1938 con le leggi razziali vengono schedati 95 ebrei
Infatti, i provvedimenti del fascismo contro la razza ebraica, il censimento dell’agosto del 1938 e la successiva emanazione delle leggi razziali sono disposizioni imposte dall’alto, non comprese, non capite dagli stessi ebrei italiani (e astigiani). Paradossalmente, saranno proprio tali provvedimenti a “creare” il gruppo “ebrei” e i primi a sentire di non farne parte saranno proprio loro, gli ebrei stessi che diventano tali quasi “per decreto”, portatori di un’identità che non sanno di avere. Si tratta di una situazione assurda e incomprensibile, neppure confortata dall’orgoglio di appartenenza. Cittadini italiani innanzitutto. E sono le parole di Enrica Jona a chiarirci meglio questa situazione contraddittoria, quasi schizofrenica: «Assimilati? Si capisce che eravamo assimilati… Il Sabato andavamo a scuola lo stesso… facevamo il periodo pasquale, quando si mangiava secondo il rito nostro… Ma noi non eravamo osservanti, anche se molto rispettosi dell’ebraismo… Sì, si andava al Tempio nelle feste… essere ebrei significava per noi solo questo…» Il censimento fascista del 1938 registra, per Asti e provincia, 95 ebrei: si tratta di un calo demografico notevole rispetto al secolo precedente che ha visto il trasferimento di molte famiglie nelle grandi città, soprattutto Torino, Genova, Milano, Firenze, Roma, oltre che un calo naturale delle nascite che caratterizza un po’ tutte le comunità italiane.
Dal 1941 arrivano nell’Astigiano cinquecento internati ebrei provenienti dai Balcani occupati
L’ingresso in guerra dell’Italia cambia radicalmente le esistenze delle persone. Intanto agli ebrei residenti da secoli in città si aggiungono altre presenze. Infatti, l’occupazione dei Balcani da parte dell’Italia fascista causa l’arrivo, a cominciare dal settembre del 1941, nella provincia astigiana, di quasi 500 ebrei jugoslavi, provenienti dalla Croazia, da Spalato e da Lubiana, che vengono dislocati in alcuni comuni: Agliano, Antignano, Asti, Canelli, Castell’Alfero, Castelnuovo Don Bosco, Cocconato, Incisa Scapaccino, Mombercelli, Moncalvo, Montechiaro, Montemagno, Montiglio, Nizza Monferrato, Portacomaro, San Damiano, Villanova. Sono considerati dal regime fascista nello stato giuridico assurdo e contradditorio di “internati liberi”, condannati, cioè, a una sorta di arresti domiciliari in attesa di sistemazione in veri e propri campi di concentramento dislocati sul territorio nazionale.
Il loro è un tenore di vita sostanzialmente tranquillo, costantemente sorvegliati dalla Questura e dalla Prefettura impegnate a redigere e aggiornare gli elenchi nominativi e i loro dati anagrafici. L’importante è non dare l’immagine che possano condurre vita agiata o contraria alle disposizioni riguardanti la razza. Per questo, nel febbraio del 1942, la Questura di Asti ammonisce, preoccupata, i podestà dei luoghi di internamento: «È stato riferito che alcuni internati ebrei celibi, giovani e ben forniti di mezzi, alletterebbero le ragazze dei comuni ove risiedono ed avrebbero con esse relazioni amorose. Pregasi diffidare gli ebrei interessati ad astenersi da tali azioni e di disporre attenta vigilanza allo scopo di impedire le relazioni anzidette che sono vietate dalla legge razziale e che possono provocare grave risentimento tra la popolazione». E ancora: «Devono rincasare la sera con l’inizio del coprifuoco, non è ammessa alcuna tolleranza, anche minima, di ritardo. Non devono per nessuna ragione accompagnarsi con ariani, intrattenersi con ariani nei pubblici esercizi, soffermarsi nelle strade con ariani. Anche i rapporti strettamente necessari per gli acquisti devono limitarsi al tempo strettamente indispensabile. Non devono impartire lezioni di lingua tedesca ad ariani, salvo eventuale autorizzazione».
Nonostante le restrizioni e la mancanza di libertà, la vita condotta dagli internati sembra continuare all’insegna di un’apparente normalità, che si concretizza anche con la nascita di tre bimbi a San Damiano d’Asti, a Nizza Monferrato e a Castelnuovo Don Bosco. Anzi, sembra essere proprio questa apparente normalità a infastidire le alte gerarchie del fascismo se Roberto Farinacci si sente in dovere di segnalare a Mussolini che ad Asti, «i confinati ebrei se la passavano benissimo, vivevano in ottimi alberghi, andavano spesso al cinema e davano “una caccia spietata” alle donne ariane». Lo storico israeliano Raoul Spicer alias Menachem Shelah, che a quei tempi aveva dieci anni, ricorda bene quei mesi trascorsi nell’Astigiano: «La mia famiglia ed io siamo stati internati a Castelnuovo Don Bosco, un piccolo paese a metà strada tra Torino ed Asti: in quell’ambiente pastorale, noi – fuggiti dal terrore nazista e da quello delle autorità ustaša – abbiamo trascorso giornate gradevoli. Nell’autunno del 1942, quando ero un ragazzo di dieci anni, da Castelnuovo fummo trasferiti a Ferramonti, ed anche dell’internamento in quel campo conservo un buon ricordo».
Nel 1943 furono 53 i deportati dai campi. Tornarono solo in tre
Molti di loro, infatti, vennero trasferiti al Sud, nel più grande campo di concentramento fascista, a Ferramonti di Tarsi, in provincia di Cosenza, nell’estate del 1943, appena in tempo per essere liberati dagli Alleati. Quelli rimasti nell’Astigiano si sono salvati quasi tutti dalla deportazione: su quasi cinquecento internati i deportati ad Auschwitz risultano essere quattordici. Tra le cascine e i piccoli paesi di questa provincia contadina si è messa, dunque, in moto una rete di protezione umana che ha serrato le maglie intorno a queste famiglie, consentendo loro di sopravvivere attraverso i durissimi venti mesi della Repubblica sociale italiana e dell’occupazione tedesca, nonostante gli allettanti inviti alla delazione. Di questi ebrei stranieri, jugoslavi, si è persa quasi la memoria: pochissimi ricordano gli ebrei “un po’ strani” che arrivavano da lontano… rimane a testimoniare il loro passaggio l’efficiente macchina burocratica fascista che compila in continuazione lunghi elenchi di nomi, schede anagrafiche, correzioni di date, documenti di identità, e così via. Alcune foto ci restituiscono volti segnati dal continuo errare alla ricerca di un rifugio precario. A loro occorre aggiungere moltissimi ebrei che sono sfollati da Torino a causa dei bombardamenti e che sono arrivati, spesso sotto falso nome, in Asti nella speranza che questa piccola città di provincia e il suo territorio venisse risparmiata dalla guerra. Tra loro anche la giovane Rita Levi Montalcini, rifugiatasi con la famiglia in una cascina di Valle San Pietro, dove continuò gli esperimenti sugli embrioni dei polli che aveva avviato all’Università di Torino (vedi Astigiani n. 3 pag 94).
Tracce e segni ancora presenti attorno alla Sinagoga
In cinquantadue sono stati arrestati il primo dicembre 1943: di essi solo Enrica Jona e i coniugi Rozaj, austriaci, sono tornati da Auschwitz. Tutti gli altri sono stati ingoiati dal vortice dello sterminio. Di questa storia antica rimangono le due stradine del ghetto, segnate dallo struscio dei fine settimana, la Sinagoga, maestosamente inaugurata così come la vediamo oggi nel 1889, nuovamente restaurata grazie al contributo della famiglia Ottolenghi: uno spazio decisamente sovradimensionato rispetto alle esigenze di una comunità ormai in declino demografico, ma orgogliosa di una cittadinanza conquistata dopo secoli di segregazione. È un segno forte di esistenza e di identità, reso ancora più significativo da quel rito in giudaico piemontese unico, simbolo dell’incontro tra culture ebraiche diverse provenienti da terre diverse: il rito Appam, a cui tanta fama deve la piccola preziosa comunità astigiana.
Di questa storia rimangono aneddoti, avvolti da un velo di “si dice”, “si racconta”, ormai diventati quasi storia. Come, per esempio, la leggenda dell’affresco posto sulla facciata della “prima” casa del ghetto, Casa Artom. Una Sacra Famiglia con San Bartolomeo dipinta, forse, dal famoso Aliberti: un pegno pagato dalla famiglia Artom per disobbedire a una delle regole dei ghetti che impediva di aprire finestre che guardassero fuori dai confini dello spazio riservato agli ebrei. In realtà, è quello che sembra al visitatore più attento: semplicemente un ex voto, fatto dipingere dal mastro di posta Bartolomeo Passaglia, tornato sano e salvo dalla guerra di successione spagnola e non a conoscenza del fatto che la propria casa sarebbe stata espropriata per ospitare famiglie ebree. Oppure come il racconto suggestivo riguardante la costruzione del Teatro Alfieri da parte, oggi si direbbe, di “una cordata” di finanziatori guidati da Zaccaria Ottolenghi, diventato padrone dell’omonimo palazzo. È ancora Artom a ricordarlo: «Avrebbe dotato Asti di un teatro nuovo, più grande, con un palcoscenico moderno, capace di spettacoli migliori di quelli ripetuti da più di cent’anni a ogni stagione al San Bernardino, un teatro aperto a chiunque… Se il signor Zaccaria riesce a costruire il suo teatro, sono pronto, la sera dell’inaugurazione a mangiarmi il primo scalino dell’ingresso – promise il sindaco».
Nel 1860 la stagione nel nuovo Teatro della città cominciò con il Mosè di Rossini e il sagace Zaccaria fece arrivare al sindaco della città una lastra di pietra che fece decorare con nastri tricolori «e incaricò due garzoni di consegnarla personalmente al sindaco, con un cartello che diceva “Da parte del signor Zaccaria, con auguri di buon appetito!”». Rimangono le pietre nel cimitero della comunità, un tempo “fuori dalle mura” lungo la riva destra del rio che scende da Valmanera. Negli anni dello sviluppo industriale quel lembo di terra, cinto da un alto muro in mattoni, si ritrovò circondato da fabbriche come la Way Assauto e le Ferriere Ercole con le sue ciminiere. Oggi è tornato ai silenzi della deindustrializzazione e la natura poco per volta cancella nomi scolpiti su lapidi antiche, coprendo ritratti e volti che secondo i precetti non ci dovrebbero essere. Così come rimane il piccolissimo cimitero di Moncalvo a dominare le dolcissime colline coperte di vigneti sulla cima di una delle più belle strade del Monferrato, oppure la facciata restaurata della piccola, irriconoscibile Sinagoga, inglobata ormai dalle abitazioni vicine sulla piazza centrale moncalvese o un minuscolo angolo di ebraicità nel cimitero comunale di Nizza Monferrato. Segni di una storia lontana.
Ma se ci capita di fare due passi tra le stradine del centro, tra via Aliberti e via Ottolenghi, e proviamo a stare in silenzio, forse riusciamo a sentire ancora quegli antichi odori, quelle voci, quell’andirivieni di vita. Percorrendo le due piccole vie del ghetto riusciremo a recuperare quella quotidianità fatta di famiglie al lavoro, di pettegolezzi, di amori clandestini, di riti religiosi, di litigi, di solidarietà, come se stessimo spiando da persiane semichiuse una storia di tanto tempo fa. Aneddoti, racconti, si dice… ci accompagneranno sicuramente per la Contrada degli Israeliti. La severità della Sinagoga ci riporterà alle responsabilità della deportazione e della scomparsa di migliaia di persone nella Shoah ma ci inviterà anche a essere custodi di una storia e di una memoria che non sono andate perdute: basta stare in silenzio e le case, i vicoli, le botteghe, le pietre ricominceranno a sussurrare…
Dal 25 gennaio al 29 maggio Palazzo Mazzetti ospita la mostra “Ricordi Futuri”. Questo mio progetto espositivo nasce dall’idea che il “ricordare” è un concetto universale e che il 27 gennaio non è solo la giornata in cui si ricorda l’olocausto, ma un momento in cui si focalizzano le situazioni positive/negative del presente/passato e della contemporaneità, che è già un ricordo futuro così come lo sono gli atroci attentati che quasi quotidianamente vengono compiuti in diverse parti del mondo.
L’11 settembre 2001, che sembrava essere solo un triste ricordo, è ritornato in tutta la sua attualità. Il mondo sta cambiando di nuovo, stiamo vivendo una nuova guerra diversa da quella tradizionale, non con i carri armati ma con uomini, donne e ragazzini pronti a uccidere e farsi uccidere in nome di un ideale che di religioso e spirituale non ha nulla. “La memoria rende liberi” (dal titolo del libro di Liliana Segre) e questa libertà è possibile costruirla attraverso un percorso individuale che, partendo dal passato arrivi al presente che è già futuro.
Come ha scritto lo scrittore israeliano Amos Oz «questo cammino avanti guardando indietro è una metafora della vita umana in generale, non solo ebraica. Peschiamo un’immagine moderna che abbiamo sentito: la vita è come guidare una macchina con il vetro davanti opaco. Non resta che guardare nello specchietto retrovisore: è così che siamo tutti destinati a procedere». Ha detto Maria De Benedetti, nella Sua video intervista rilasciata appositamente per la mostra: «Sono convinta che la memoria rende liberi e soprattutto aiuta a vivere con consapevolezza il presente e a pensare con consapevolezza al futuro e questa è la libertà. Cioè il non essere, il non soggiacere a una memoria non consapevole, perché la memoria c’è sempre, ma spesso è negata, spesso è confusa, spesso è oggetto di difese psicologiche perché è intollerabile e allora può essere una memoria schiava di tutte queste resistenze, di tutti questi problemi e non aiuta. La memoria rende liberi se uno sa che deve coltivarla e deve poi fare riferimento».
Ritengo che una mostra che parte da questi presupposti sia molto compatibile con la storia di Asti che possiamo definire “Città della Memoria”. Per questo motivo sono felice che questo progetto, che spero possa essere portato in altre città italiane ed estere, sia stato realizzato in primis ad Asti che è stata anche sede di un’importante comunità ebraica. La memoria dell’ebraismo astigiano è racchiusa nella sua storica Sinagoga e nell’annesso archivio, oltre a essere testimoniata dalle grandi opere realizzate e donate dalla famiglia Ottolenghi. Una mostra così ricca di contenuti, che toccano i settori più diversi dall’arte alla musica, dal gioco alla scrittura, ha bisogno di essere vissuta, spiegata e commentata.
Per questa ragione è stato programmato un ciclo di conferenze iniziatosi il 4 marzo con la memoria nella scienza e nella medicina, con la partecipazione di Giorgio Calabrese scienziato della nutrizione e del neurologo torinese Giuseppe Scarzella, per poi proseguire il 21 aprile con una serata dedicata alla memoria nell’arte e nella musica con Francesco Lo Toro, autore della musica concentrazionaria, del cantautore Paolo Conte e di Gabriele Perretta docente di semiotica dell’arte a Parigi e all’Accademia di Brera.
Concludo con l’auspicio che in particolare i giovani possano visitare la mostra che è un meraviglioso dono che la Fondazione Mazzetti ha fatto alla Città di Asti e non solo.
A metà del 1700 nel palazzo si giocava al trincotto, antenato del tennis
«Questo Palazzo, per eleganza di forma e ricchezza di addobbi, può stare al paro dei più sontuosi delle grandi capitali. Il benemerito sig. Zaccaria Ottolenghi vi faceva eseguire sette magnifici saloni, onde l’appartamento del primo piano verso la via Maestra ha del principesco né saprebbesi desiderar di meglio, per leggiadria delle sale e buon gusto degli arredi».
È così che Niccola Gabiani, storico astigiano, descrive nel 1906 nel suo libro Le torri, le caseforti ed i palazzi nobili medioevali in Asti, la maestosità del palazzo, che prende il nome dell’ultima illustre famiglia che lo abitò. Localizzato lungo l’attuale corso Vittorio Alfieri, in pieno centro storico, il palazzo ha vissuto le vicende edilizie e urbanistiche della città e attraverso i suoi molteplici proprietari è stato oggetto di importanti interventi architettonici dettati non solo da esigenze estetiche e funzionali, ma anche, e semplicemente, dal gusto e dal piacere di chi, di volta in volta, lo andava ad abitare.
Originato dall’unione di due fabbricati di epoca medioevale su preesistenze di epoca romana, tuttora riscontrabili al piano interrato, il palazzo fu abitato fino alla metà del Settecento dalla famiglia del conte Giovanni Gaspare Ramelli di Celle che in un documento del 1736 risulta proprietario di un palazzo sito «nella contrada mastra sotto la parrocchia di S. Martino, consorti il Signor Conte Gabuti di Bestagno, la confraternita di S. Michele, altra casa del medesimo signor Conte Ramelli verso levante et detta contrada mastra da quel Palazzo dipende una fabbrica di Trinchotto».
Una curiosità: il trincotto era un gioco ospitato in un locale a pianta rettangolare con i lati lunghi provvisti di gradinate lignee nei quali si svolgeva un gioco simile al tennis. Nello stesso locale si svolgevano spettacoli teatrali; venne conservato nel successivo Palazzo dei Gabuti di Bestagno e restò attivo fino al 1775. Il 10 ottobre 1753, con una vendita all’asta, il palazzo passò in proprietà al conte Giuseppe Antonio Gabuti di Bestagno che, anche se non possiamo dare per certa l’attribuzione dell’intervento all’architetto Benedetto Alfieri, lo trasformò radicalmente facendone come scrive il Gabiani «un bell’edificio settecentesco, senza più tracce della costruzione antica di parecchi secoli».
Sempre dal Gabiani apprendiamo che «il Conte Carlo Gabuti di Bestagno con ist. 22 maggio 1830 vendette il palazzo al signor D. Paolo Gravier il quale con suo testamento 28 dicembre 1832 lo legò a D. Pietro Gravier fu Vittorio, da cui, alla sua volta, era legato con testamento 15 maggio 1833 ai fratelli Gravier Paolo e Pietro Giovanni fu Pietro. Questi lo alienarono al sig. Ottavio Barucco fu Paolo con istr. 20 gennaio 1851. Tre mesi dopo, e cioè il 22 aprile di quello stesso anno, il palazzo passò al signor Zaccaria Ottolenghi».
Il Palazzo fu così acquistato da un’influente famiglia ebraica: Zaccaria David Ottolenghi (1797-1868) e suo figlio Cav. Jacob Sanson (1827-1886), fratello del mecenate astigiano conte Leonetto. Dal medesimo fu successivamente in parte ridecorato e riarredato in particolare nelle sale prospicienti il corso Vittorio Alfieri, che, come tali, si sono conservate fino ai giorni nostri.
Nel 1851 passa alla famiglia ebraica degli Ottolenghi, nel 1815 vi dormì anche il papa PioVII
Tra gli ospiti del palazzo vi è notizia di un passaggio il 19 maggio 1815, di papa Pio VII che, dopo la caduta di Napoleone, partito da Torino per raggiungere Roma, si fermò ad Asti e fu ospitato a Palazzo Ottolenghi nella sala che ancora oggi viene identificata con il nome del Pontefice. A ricordo dell’evento, vi è nella sala una console sormontata da una piccola specchiera e da un quadro ad olio raffigurante il ritratto di Pio VII. Alla morte di Leonetto Ottolenghi, avvenuta il 20 febbraio 1904, le sale da lui abitate rimasero com’erano, tanto che negli inventari predisposti per la vendita del Palazzo al Comune di Asti, le medesime vengono identificate con il nome del conte e risultano conservare gli arredi da lui utilizzati.
Il palazzo fu acquistato dal Comune di Asti dopo una lunga serie di trattative formalizzate con un compromesso in data 3 aprile 1930, stipulato tra il conte Mario Ottolenghi (proprietario di metà del Palazzo), la madre Elvira Vitali (usufruttuaria in parte), Emma Ottolenghi, la madre Levi Nina e l’ing. Natale Ballario in rappresentanza della Città di Asti.
Nel 1930 lo acquista il Comune e la Cassa di Risparmio rileva mobili e arredi a “cancello chiuso”
Sempre in data 3 aprile 1930, fu stipulato un altro compromesso tra la Cassa di Risparmio di Asti, rappresentata dal presidente, Natale Ballario, e i già citati proprietari e usufruttuari, per l’acquisto di «tutto quanto si trova presentemente nel Palazzo Ottolenghi». L’acquisto a cancello chiuso, viene fatto «per conto e nell’interesse della Città di Asti, da servire quale collezione artistica di oggetti d’arte e di antichità da conservarsi e destinarsi a pubblico uso». L’importo è concordato in lire cinquecentomila e la Cassa ne farà dono al Comune. Il 9 aprile e il 20 settembre 1930 vengono stipulati tra il Comune, la Cassa di Risparmio e la famiglia Ottolenghi nuovi compromessi che rispecchiano nelle linee essenziali i precedenti. Con deliberazione podestarile in data 22 novembre 1931 la Città di Asti delibera l’acquisto del Palazzo per un importo di lire un milione e contrae un mutuo di pari importo con la Cassa, estinguibile in venti anni, al tasso del 6,50%.
Divenuto monumento nazionale ospita la Prefettura dal 1935 al 1960
Prima della stipulazione dei compromessi di acquisto, sia del Palazzo che degli arredi, fu eseguita una serie di inventari e di stime che sono risultati oggi estremamente utili per conoscere le caratteristiche dei vari locali, ricostruire l’arredamento originario e ricollocare gli apparati decorativi quali quadri, vasi, orologi, lampade, e oggetti vari nelle sale di appartenenza. Il 23 giugno 1930 con la notifica del Vincolo Ministeriale avviene il riconoscimento dell’interesse monumentale del Palazzo.
Dal 1933 il Palazzo diviene sede di innumerevoli enti e associazioni. Dal 1935, con la nascita della Provincia, ospita la Prefettura che, oltre a realizzare interventi di ridistribuzione interna dei locali per adeguarli alle proprie esigenze, nel luglio del 1943 deliberò «la costruzione di un rifugio antiaereo, ad uso della Regia Prefettura, localizzato al piano interrato, con demolizione e trasformazione di alcuni locali preesistenti». Quel rifugio, oggi aperto al pubblico, è inserito nel percorso di visita del Museo del Risorgimento.
I numerosi atti e disegni conservati presso l’Archivio storico del Comune testimoniano come per l’utilizzo del Palazzo Ottolenghi non sia mai stato predisposto un piano organico di fruizione. Nel giugno del 1932 viene realizzato l’impianto di riscaldamento a termosifoni nei locali destinati all’Esattoria e alle Commissioni di Leva ed Imposta. Da un fascicolo dell’agosto 1933 apprendiamo che nel fabbricato avevano sede oltre al Palazzo del Governo, l’Abitazione del Prefetto, una Galleria d’Arte per ricevimenti d’onore, l’Ufficio tecnico catastale e la Tesoreria provinciale. Nel corso degli anni vi trovarono successivamente sede gli “Uffici della locale sezione del Fascio”, poi trasferiti nella “Casa Littoria”, l’Ufficio Regi Vivai di Viti Americane (per la lotta alla fillossera), l’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi di Guerra, l’Ufficio Artigianato, il Dopolavoro Dipendenti Cassa di Risparmio di Asti, e numerosi altri, oltre a nove alloggi dati in affitto a chi ne faceva richiesta, con priorità agli ex inquilini del demolito Palazzo Catena.
Nel 1960 con lo spostamento della Prefettura nella sede di piazza Alfieri, il Palazzo fu adibito a uffici comunali, a esclusione del Nucleo di Alto Pregio (ex alloggio di Leonetto Ottolenghi), utilizzato come spazio di rappresentanza. Il salone principale ha ospitato per decenni incontri, dibattiti, mostre, premiazioni. Dal 2008, l’Assessorato ai Lavori Pubblici del Comune di Asti ha attivato un programma di restauro conservativo e valorizzazione, mirato alla salvaguardia e rinascita di un Palazzo considerato a livello nazionale una preziosa e rara testimonianza di residenza privata alto-borghese.
Nel marzo 2012 il Comune ha inaugurato il Museo del Risorgimento nelle sale al piano terreno dell’ala ovest del cortile d’onore, con opere di restauro conservativo e riqualificazione funzionale che hanno interessato anche il rifugio antiaereo e alcuni locali al piano interrato. Nel giugno 2015 è stata inaugurata la Sezione museale della Divisione Italiana Partigiana Garibaldi, direttamente collegata con il citato Museo. Al primo piano, nella stessa ala, c’è l’Israt, l’Istituto per la storia della Resistenza. Tra gli interventi, finalizzati alla riqualificazione funzionale dell’intero complesso architettonico, vi è stato il restauro conservativo di parte delle coperture e delle facciate prospicienti il corso Vittorio Alfieri e la via San Martino.
L’ultimo lotto di opere, recentemente completato e finanziato con i fondi PISU, ha riguardato il restauro dell’atrio, dello scalone monumentale, del salone d’onore al primo piano e della sala adiacente, il tutto realizzato sotto controllo e guida delle competenti Soprintendenze. Le opere realizzate hanno rispecchiato un tradizionale intervento ove la parte più significativa e determinante è stata costituita dal restauro conservativo delle superfici decorate degli apparati architettonici e degli arredi fissi e mobili.
Pavimenti: un rarissimo caso di “bitume dipinto”
I documenti antichi sono stati la base e il supporto per trovare riscontri nelle varie situazioni attraverso i saggi e le indagini stratigrafiche realizzati. Sulla base delle conoscenze, del materiale acquisito, delle varie soluzioni tecniche, architettoniche ed estetiche adottate, si ritiene di aver operato al massimo della scientificità e con la certezza di aver progettato interventi che hanno portato questo primo nucleo del palazzo al suo antico splendore.
Considerato l’alto valore monumentale dell’intero complesso architettonico, e in particolare dei locali costituenti il Nucleo di Alto Pregio, al fine di conciliare la valenza storico-artistica delle sale con le esigenze specifiche derivanti dalla loro funzione, per la localizzazione degli impianti tecnologici, è emersa la necessità di progettare, per lo scalone, per la sala e per il salone, la realizzazione di strutture in grado di concentrare le diverse tecnologie impiantistiche in un unico corpo esterno (Totem Museum), evitando così il problema delle tracce nei muri e il proliferare di apparecchiature di vario genere e natura sulle pareti che andrebbero a interferire con gli arredi, con i quadri e con le tappezzerie, e creerebbero comunque corpi estranei poco idonei all’armonia estetica delle sale e in totale contrasto con i criteri espositivi di un restauro equilibrato tra conservazione e tecnologia, e rigoroso nel rispetto delle preesistenze.
In ultimo, si ritiene significativo ricordare la preziosità dei pavimenti delle varie sale e del salone del Nucleo di Alto Pregio: si tratta di pavimenti in bitume dipinto, unico esempio conosciuto a livello internazionale. Con un minuzioso e puntuale intervento di restauro sono stati riportati al loro sorprendente splendore. La storia di Palazzo Ottolenghi si può raccontare, si può descrivere la bellezza e il fascino delle sale e degli arredi, si possono spiegare gli interventi di restauro realizzati, la filosofia delle scelte progettuali e le tecnologie impiegate, ma la magia di quegli ambienti, l’emozione di un passato di bellezza ed eleganza che traspare oggi come allora, la percezione di una cultura e di una sensibilità che hanno saputo essere guida ed esempio non è un qualcosa che si può comunicare. L’invito è dunque a tornare a visitare il palazzo.
«Un uomo singolare che è in Asti la personificazione più alta del patrio amore, dell’indefessa cura per le civiche memorie, per il lustro della città che gli diede i natali», così esordisce l’amico editore Eduardo Ximenes nell’Illustrazione Italiana del 11 ottobre 1903 con un articolo destinato a far entrare Leonetto Ottolenghi nella storia. Gli Ottolenghi: di padre in figlio, stabilirono come famigliare tradizione la consuetudine di prodigare per il decoro della Città di Asti «le idee generose e la corrispondente fortuna».
Famiglia ebrea, di notevole ricchezza con attività prevalente in ambito finanziario e bancario, già sostenitori economici della Real Casa Savoia, si distinse in Asti per la realizzazione di molte opere che rinnovarono l’aspetto urbano, riplasmandone il volto architettonico e urbanistico a somiglianza delle grandi città che gli Ottolenghi erano soliti frequentare. L’opera di rinnovamento iniziata dal padre Zaccaria con la realizzazione del Teatro Alfieri (1860), viene portata avanti da Leonetto (Asti, 3 novembre 1845-Pisa, 20 febbraio 1904) con la costruzione di piazza Roma con il monumento ai Martiri dell’Indipendenza (1898), di piazza Umberto I con il monumento equestre al Re (1903), con l’acquisto del Palazzo Alfieri, restaurato e allestito con le collezioni civiche astigiane e con la realizzazione nell’attuale Salone del Podio del primo Museo del Risorgimento.
Il mecenatismo di Leonetto Ottolenghi trova un valido sostegno nella moglie Celestina, sposata nel 1873. Infatti, Eduardo Ximenes nel già citato articolo dell’Illustrazione Italiana, scrive: «come a compire un’opera perfetta il destino concedeva in isposa al conte Leonetto un essere privilegiato dalla natura per bontà d’animo e per peregrine doti dell’intelletto: la contessa Celestina, ispiratrice illuminata, consigliera benefica, e necessaria collaboratrice, sempre altamente compenetrata delle idealità del marito.
Anche dopo la morte, Leonetto sarà ricordato per la munificenza testamentaria, in quanto con un cospicuo lascito finanziario sarà possibile realizzare il Palazzo del Collegio, ora sede, tra gli altri, del Liceo Classico Vittorio Alfieri, così come lui l’aveva pensato.
Nata ad Asti, laureata in Lettere all’Università di Torino, diplomata in Archivistica e Paleografia, lavora da oltre vent’anni come ricercatrice all’Istituto della Resistenza di Asti, dove si occupa in particolare di tematiche inerenti la prima guerra mondiale, il razzismo, la cultura ebraica, la Shoah e la didattica della storia
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