Una storia intrecciata tra il Monferrato e il Far West
Il 27 aprile 1906 Pietro Perrone, seduto in prima fila sotto il tendone da circo “Buffalo Bill”, forse si ricordò di quel lontano giorno in cui, da ragazzino, suo padre Domenico lo aveva portato al Boglietto a vedere la splendida quadriglia di cavalli bianchi dei Cora, gli industriali dei vermouth. Pietro passò la giovinezza a seguire suo padre alle fiere dei paesi vicini a commerciare equini. Ma cavalli così belli come quelli dei Cora non li aveva più visti. Fino a quel giorno che mise il tendone ad Asti il circo di Buffalo Bill. Arrivò da Torino e si fermò per due soli spettacoli, ma Pietro Perrone non lo dimenticò più. Buffalo Bill era lo pseudonimo di William Frederick Cody, il leggendario pony express, soldato, esploratore, cacciatore di bisonti che appartiene all’immaginario collettivo di più generazioni. La sua vita è stata immortalata in libri, pellicole cinematografiche fino a diventare un’icona del Far West.
Anche il cantautore Francesco De Gregori lo canta così: «…credulone e romantico, con due baffi da uomo… Se avessi potuto scegliere tra la vita e la morte, tra la vita e la morte, avrei scelto l’America… Mi presentarono i miei cinquant’anni e un contratto col circo Pacebene a girare l’Europa e firmai col mio nome e firmai e il mio nome era Buffalo Bill» In realtà gli americani crearono il “Buffalo Bill Wild West Show”, uno spettacolo circense rappresentato non solo negli Usa, ma anche in Europa durante due tourneé nel 1890 e nel 1906. Fu a Londra, a Parigi e nelle principali città. Era uno spettacolo itinerante molto complesso, destinato a suggestionare gli spettatori prima che il cinema si appropriasse dell’epopea western. Era anche uno spettacolo-business dove si misero a punto moderne tecniche di promozione e pubblicità.
Il gigante di Calosso commerciava in equini
Facciamo un passo indietro e torniamo a Pietro Perrone. Ebbe i natali a Calosso il 21 maggio 1869. Suo padre, alto quasi due metri, con occhi chiari e taglienti, amava la buona tavola e più ancora il vino generoso. Era contadino d’estate e negoziante di bestiame d’inverno, per sfamare i suoi cinque rampolli. Il primogenito Pietro fisicamente gli somigliava.
Una stazza possente. Pugni sodi e lingua pungente, non tollerava soprusi. Non mancava di senso dell’umorismo, improvvisava rime e satire in dialetto ed era temuto in paese non si sa se più per la forza fisica o per la lingua. Era cresciuto tra i cavalli, gli asini e i muli ed era un po’ come loro: lavoratore instancabile, testardo, impulsivo e generoso. Seguiva il padre, spesso in compagnia della sorella Mentina, nei mercati di bestiame, anche lontani. Partivano quand’era ancora buio. Arrivati, il padre andava a prendersi una scodella di trippa calda, mentre figlio e figlia giravano tra i banchi per captare le quotazioni e i commenti degli uomini che si fermavano a osservare le bestie in vendita e riferire poi al padre.
Questi, ritornando dall’osteria allungava loro di nascosto pane e salame perché gli altri non notassero che erano assieme, in modo da poterli poi mandare ad ascoltare tra i gruppi dove si discuteva di affari e prezzi. Piccole arguzie da commerciante abile a cogliere gli umori e le tendenze dei mercati. Tornavano a casa con il gruzzolo più o meno grande ricavato dalla vendita del bestiame. Soldi che dovevano servire alla famiglia a pagare le tasse, acquistare viti e sementi, nonché a estinguere vecchi debiti contratti con gli usurai.
Quei soldi un giorno servirono al giovane Pietro anche a pagare il viaggio per l’America in bastimento. Ma bisognava convincere il padre a lasciarlo partire. Ne aveva accennato alla madre che sapeva prendere il marito al momento giusto. Possiamo immaginare il dialogo: «Nostro figlio è diventato in gamba e scalpita, vuole andare per la sua strada. Perché? qui a casa non sta forse bene, gli manca qualcosa? Non è questa la questione: è venuto il momento di lasciargli fare di testa sua, finora ha dimostrato di avere sale in zucca. Lascialo andare in America a cercare fortuna».
Le cronache raccontano della sfida a Roma tra cowboy e butteri nel 1890
Il padre si convinse a malincuore, le “cento lire” per emigrare furono trovate grazie alla vendita di un buon cavallo da tiro. Tutto avvenne attorno all’anno 1890. Non si conoscono la data d’imbarco né la destinazione precisa. Poche scarne notizie parlano di sbarco a New York e, su indicazione di un compaesano «go west, boy!», Pietro andò verso l’Arkansas, dove trovò lavoro negli allevamenti di cavalli. Era del mestiere. In quegli stessi anni William Frederick Cody venne per la prima volta in Europa con il suo spettacolo equestre e circense “Buffalo Bill Wild West Show”. Fece tappa anche in numerose città italiane. Le cronache raccontano della memorabile sfida a Roma dell’8 marzo 1890 tra i cowboys del circo e i butteri dell’Agro Pontino che lavoravano per la nobiltà latifondista romana. I cavalieri locali si dimostrarono più abili dei cowboys nella doma dei puledri. Buffalo Bill non se ne preoccupò, tutto faceva spettacolo.
Finita la tournée, ritornò in America, dove partecipò, col grado di colonnello, alle ultime operazioni militari delle giubbe blu contro i Sioux. E intanto Pietro Perrone, dopo un decennio di America, nella primavera del 1901 rientrò dagli Stati Uniti. Ancora giovane, con una discreta fortuna, si narra che arrivò a Calosso in sella a un cavallo bianco. Mito o leggenda? Di certo si sa che si sposò il 12 dicembre di quell’anno con Lucia Pelazzo, una bella ragazza del paese. Tornò a frequentare le fiere del bestiame, a vendere e comprare cavalli e a raccontare agli amici la sua esperienza americana, certamente aggiungendo e ricamando su incontri e avventure. Finché nel 1906 una domenica al mercato di Costigliole d’Asti, puntò lo sguardo su un colorato manifesto che lo fece sussultare: “Unico spettacolo del circo di Buffalo Bill ad Asti il 27 di aprile”. Era un pezzo della sua America.
Quattro giorni a Torino con fuga d’amore finita in ballata popolare
Lo si può immaginare al ritorno a casa, verso San Bovo e poi per la strada che scendeva alla Creusa deviando per un viottolo laterale. Lo aspettava la moglie con sul tagliere la polenta appena rivoltata. E lui eccitato, ansioso di raccontare. Era una primavera piovosa, non c’era ancora da lavorare nei campi, sarebbe andato ad Asti a vedere il circo di Buffalo Bill. La carovana di Buffalo Bill, che si spostava in treno, era stata a Torino dal 23 al 26 aprile, piazza d’Armi, alla Crocetta, dove ora sorge il Politenico. I torinesi accorsero a vedere il villaggio del selvaggio Ovest americano con “cento pelli-rosse”, che le cronache raccontarono «battezzati e assistiti da missionari di una congregazione di Fiesole».
Il conte Eugenio Veritas ne trasse una popolare ballata in piemontese: la fuga di una giovane moglie con uno dei cowboys di Buffalo Bill: «Vad dal portiè, am dis tranquil: toa Rosin a l’è ndaita via e un moreto ’d Buffalo Bill a j’era an soa compania»… e la sbronza consolatoria del marito: “Son andait al Lingot, beivime ’n litrot son fame na cita merenda Ades son tranquil i mando al diav Buffalo Bill Rosin, bistichin e ciamporgne». Il 27 aprile, un venerdì, alle sei del mattino un convoglio di 1200 metri, con quattro locomotive, cinquantanove vagoni in totale, entrò in stazione ad Asti. Pioveva forte. Una lunga fila di carri, cinquecento cavalli, ottocento uomini si riversò nella vicina Piazza del Mercato. Furono installate tribune coperte, lasciando al centro, scoperto, un largo spiazzo per le esibizioni. Due spettacoli: alle ore 14 e alla sera alle 20 (l’illuminazione era assicurato da un moderno generatore elettrico). Costo del biglietto d’ingresso da 2 fino a 8 lire. C’era stato un gran battage anche sui giornali e si prevedeva la folla delle grandi occasioni.
A Calosso nel frattempo Pietro Perrone si preparava a vivere la sua giornata speciale. L’ennesimo acquazzone si era spostato verso Santo Stefano Belbo e in direzione di Asti apparve una striscia d’azzurro. Fumando un toscano andò dietro casa dove c’erano la stalla e il deposito dei finimenti e dei basti. Abbeverò gli animali e li foraggiò con l’avena. Strigliò il cavallo bianco, forse lo stesso che lo aveva visto entrare in paese cinque anni prima. Gli mise la sella e lo prese per la briglia. Salutò la moglie ferma sull’uscio. Si avvolse in un mantello cerato portato dall’America e sotto un cappellaccio dalle larghe falde salì in groppa. Il cavallo nitrì. Incontrò il cognato Paulin. «Anduma? » «Anduma».
Fu un viaggio senza tappe, in un’ora la cavalcata al piccolo trotto lo portò ad Asti. Oltrepassò il Tanaro e man mano che procedeva la gente s’infoltiva. Chi andava, chi veniva tra commenti a voce alta su quell’evento eccezionale che stava accendendo l’attesa. Immaginiamo che Pietro sia passato tra due ali di folla incuriosita. Forse pensarono che fosse uno dei cavalieri del circo di Buffalo Bill. Sprigionava forza e agilità; un aspetto fiero, il sigaro lasciato spento all’angolo del baffo destro. Dall’area del circo arrivavano grida, rumore di spari, ululati, musiche. Gli ultimi ritardatari si accalcavano alle casse. Nello spettacolo circense vennero ricreate rappresentazioni di vita western, fra cui la battaglia di Little Big Horn, dove perse la vita il Generale Custer. Vi partecipavano veri cowboys e pellerossa. Apparve anche il leggendario capo indiano Sioux Toro Seduto accanto ad Alce Nero e la cavallerizza pistolera Calamity Jane.
Arriva il circo con 59 vagoni e 800 comparse
E ci furono esibizioni anche di cavalieri giapponesi, cosacchi, arabi, messicani. Gli applausi più scroscianti scoppiarono quando in scena apparve Buffalo Bill in groppa a Brigham, il suo magnifico cavallo bianco. Cappello a larghe falde, baffi, pizzetto, sguardo magnetico e spavaldo.
Pietro Perrone, quando Buffalo Bill gli passò davanti lo salutò in inglese: «Hi Italian cowboy!». Uno sguardo, un cenno di saluto, un sorriso. Si trovarono anche dopo dietro le quinte? Confrontarono i loro cavalli bianchi? Lo spettacolo si concluse. Il circo il giorno dopo sarebbe già stato su un’altra piazza. Sui giornali i commenti non furono entusiastici: «I giochi e i trattamenti parvero mediocri nel giorno, piacquero ancor meno nella notte forse in causa del cattivo tempo e della troppa grande aspettazione saputa abilmente destata coi reclami all’Americana. Ad ogni modo si dice che abbiano intascato la bella somma di 20 mila lire» scrisse Il Cittadino del 29 aprile 1906.
Pietro Perrone arrivò a casa che era già sera. Si lasciò andare sulla panca accostata al tavolo davanti al minestrone e alle fette di polenta allineate sulla tovaglia di canapa. Bevve un bicchiere di vino e dal giorno dopo iniziò a raccontare una nuova storia agli amici e sui mercati dove ancora per qualche anno andò a vendere cavalli «belli come quello di Buffalo Bill».
Nota dell’autore
Pietro Perrone morì a Calosso il 19 febbraio 1929, a soli sessant’anni. Si era affezionato a un nipote, Alberto Ferro, mio nonno, che ebbe cura di lui quando incominciò a non star più bene. Promise a quel nipote che era nato nel 1889 il suo cavallo bianco, ma quel desiderio non si avverò. Nel 1955, allora abitavo alla Morra, una nipote di Pietro, Elsa Mozzati di Milano, venne a farci visita. Mi regalò un libro, il primo, quello che determinò la mia vita di lettore. Avevo otto anni. S’intitolava I cacciatori dell’Arkansas.
Negli anni lo persi. Pochi giorni fa ne ho ritrovato una copia a Trieste che mi sono fatto inviare. Lo riconosco immediatamente dalle immagini e dai colori in copertina. Incomincio a sfogliarlo e leggo una storia con protagonisti Cervo Nero, Cuor Leale e i pellerossa Comanche. Nella mia memoria ricordavo un’altra storia ovvero la vita di Buffalo Bill, la sua lotta contro i pellerossa Sioux di Toro Seduto e Mano Gialla. Forse me l’aveva raccontata nonno Alberto che è scomparso nel 1967 e al quale dedico la mia ricerca sul cavallo bianco di Buffalo Bill.
La Scheda