Quante vite ha vissuto Lidia Bianco?
Quella anagrafica inizia a Castagnole Monferrato il 24 giugno 1943, giorno del Corpus Domini. Una zia sistema al balcone di casa il fiocco rosa. Ma c’era poco da festeggiare. Si era in tempo di guerra e nonno Pietro, orgoglioso contadino e podestà del paese, più per riconosciuta autorevolezza che per meriti politici, poche settimane dopo avrebbe iniziato a dare rifugio sulla cascina di casa a sbandati dell’8 settembre e ai primi partigiani. «Di quel tempo ho due ricordi netti. Il freddo dei bottoni della divisa di un ufficiale tedesco che era venuto a cercare mio nonno per interrogarlo e mi aveva preso in braccio. Lui voleva essere affettuoso, ma mi fece paura e mi rifugiai tra le braccia di mia nonna Elidia. E qualche mese dopo un giovane partigiano di Brescia che mi faceva giocare e mi raccontava storie bellissime».
Quella bambina bionda è figlia di Romano ed Enrichetta Lombardo, sposatisi nel 1939 al culmine di una storia d’amore intensa. Lui, sorridente ed estroverso maestro di musica, fece innamorare una ragazzina di otto anni più giovane che rimase affascinata nel vederlo dirigere le prove della banda. La musica. Ecco, la vita di Lidia e di suo padre si intrecciano sulle righe di uno spartito.
Lui precoce compositore di successo di ballabili e melodie, lei vorrebbe imitarlo al pianoforte e impara presto. Il padre, suona e compone e subito dopo la guerra apre uno studio da geometra: estimi, progetti, accatastamenti. è bravo e disponibile e diventa «il geometra» di Castagnole e dei paesi vicini. Lo eleggono nel 1951 consigliere provinciale per il Partito dei Contadini di Scotti.
Nel frattempo la piccola Rina, come tutti la chiamano in casa, va all’asilo dalle suore al castello, quel luogo magico di Castagnole dominato dalla straordinaria doppia scalinata in mattoni rossi che le suore chiamavano il paradiso. «Ero piuttosto vivace, non dormivo mai e loro mi sedevano sul tavolo della cucina a mondare i chicchi di riso».
Risalgono a quegli anni le sue prime apparizioni in pubblico che svelano la vena artistica?
«Alle elementari la maestra Romana Valenzano, ci faceva recitare commediole e operette. Partecipammo anche ad un programma della Rai e io parlai alla radio. In quegli anni già scrivevo poesie e raccontini che mi pubblicarono anche su Topolino».
Una bambina precoce…
«Anche nella guida del trattore che imparai presto a guidare, ovviamente senza patente, aiutando il lavoro nei campi e nelle vigne della nostra cascina alla Bertolina. La mia era una vita felice, ma imparai presto a confrontarmi con il dolore. Nel 1954 morì di leucemia mia cugina Irma, che aveva vent’anni ed era per me come una sorella maggiore. E un mese dopo se ne andò di crepacuore mia nonna Elidia. Per le Medie ero andata in collegio a Torino. Quelle morti mi sconvolsero. La seconda media la feci da privatista aiutata dalla mia maestra Valenzano. La terza la frequentai a Vignale, andando ogni giorno a scuola in corriera, ma a 14 anni, nel 1957, ci travolse la morte di mio padre, per un’embolia durante una trasfusione in ospedale a Torino. Aveva solo 46 anni».
Momenti terribili che non si possono dimenticare
«Ricordo i suoi funerali: arrivarono da tutti i paesi e c’erano cinque bande musicali e sei sacerdoti concelebranti. Suonarono brani d’opera e al Va’ pensiero piangevano tutti».
Come ricominciò la sua vita di ragazzina?
«Io, con la mia sorellina Silvia e mia madre, tornammo a vivere con il nonno. Lui insisteva perché prendessi un pezzo di carta, come si diceva allora, io volevo solo studiare musica come aveva fatto mio padre, a costo di farmi bocciare a scuola. Ricordo quegli anni tormentati dell’adolescenza. Volevano farmi diventare ragioniera con esame finale al Giobert del preside Bruera. Libri e trattore. Ma più che i calcoli sulla partita doppia passavo le giornate nelle vigne a dare il verderame e trasportare carri di fieno. E di notte scrivevo e componevo. Alla fine comunque il diploma arrivò. Era il 1962».
A 19 anni ragioniera. Cerca un lavoro?
«Fu il lavoro a trovare me. Conobbi il preside Giacinto Occhionero, un pugliese tenace e intraprendente che cercava qualcuno che sapesse scrivere e mi prese come segretaria. Lui era stato nominato commissario dell’Asti Nord, un fallimento che aveva coinvolto numerose cantine sociali e migliaia di contadini. Nel frattempo era riuscito ad avere ad Asti la prima sede del futuro istituto agrario, che fu poi intitolato a Penna. Fu così che ci trovammo nel 1963 nella segreteria della nuova scuola. Credevo fosse un impiego temporaneo, invece ci sono stata fino alla pensione. Con me, nei primi tempi, c’era un giovane sveglio e di bell’aspetto: Giorgio Galvagno».
Il futuro sindaco di Asti?
«Proprio lui. Diventammo amici e ricordo che quando potei comperare la prima macchina lui si faceva portare a San Damiano da Mariangela che sarebbe poi diventata sua moglie. Qualche anno dopo ci iscrivemmo anche insieme all’Università di Urbino a sociologia. Ma era il 1968 e per me tutto si perse nel gran turbine di quegli anni».
Torniamo a Castagnole Monferrato
«Nel 1962 la solita maestra Valenzano mi aveva chiesto di darle una mano: servivano soldi per comperare il primo scuola bus. Organizzano una recita con la filodrammatica del paese. Io scrissi il testo della commedia, ovviamente rinunciando ai diritti d’autore. Era una storia d’amore ambientata in Giappone. Fu un successone, il teatro strapieno e ci fu gente che si portò perfino le sedie da casa. Mi piaceva scrivere e amavo la musica. Nel 1967 superai due esami, a Milano e Roma, per potermi iscrivere come paroliere e compositore alla Siae, la società degli autori».
Avrebbe potuto avere un futuro nel mondo delle canzoni?
«Chissà. Qualche mia musica finì alle orecchie di Paolo Conte che volle conoscermi e da allora siamo rimasti amici».
Però poi arrivò il Ruché
«Già, il mio vero grande amore. L’Istituto agrario aveva avuto il controllo delle tenuta La Mercantile e nelle sue vigne convinsi a mettere a dimora le talee di questo vitigno antico che a Castagnole tutti avevano qua e là tra i filari, ma lo consideravano un vino selvatico. Studiammo e provammo. Nel 1975 presi anche il diploma di agrotecnico. All’esame portai una tesi proprio sulle potenzialità enologiche del Ruché».
In quell’anno cominciò anche la sua avventura di pubblico amministratore
«A Castagnole il sindaco era Dino Maiocco, un ex ammiraglio. In Comune c’erano tutti uomini. Mi vennero a cercare, insistettero. Io non sapevo nulla di politica e di partiti. Fallo per il paese, mi dissero e mi convinsero. Venni eletta e nominata vicesindaco fino a metà del 1978, quando l’ammiraglio morì e il Consiglio comunale mi elesse a sindaco».
Un sindaco donna ai quei tempi faceva notizia
«C’erano già state la Luigina Ottaviano a Rocca d’Arazzo e la Bianca Dessimone a Grana, ma la cosa destò comunque sorpresa, anche per la mia giovane età e ne parlarono i giornali».
Che cosa fece da sindaco?
«Avevo l’energia e la fantasia dei trentenni. Mi buttai cercando di destreggiarmi tra la burocrazia e la mancanza di fondi. Finimmo i lavori della scuola elementare e recuperammo anche 10 alloggi di edilizia popolare. Mi inventai la festa degli anziani con invito al ristorante e arrivò anche Gianduja da Torino. Molti anziani iniziavano a patire la solitudine in famiglie sempre più piccole e spesso lontane. Invitarli a pranzo li rendeva felici. Le signore andavano dalla parrucchiera il giorno prima. Furono proprio sette ospiti della casa di riposo nel 1980 a venirmi a parlare e convincermi a ricandidarmi a sindaco. «Adesso che hai cominciato, cosa fai ci lasci soli?». Come si faceva a dire di no».
Dunque ancora sindaco e la cosa si ripeterà per 18 anni di seguito fino al 1995. Una bella fiducia da parte dei suoi elettori
«Ripensandoci è stata davvero una parte importante della mia vita. Nel 1995 non mi ricandidai più, ma dopo la crisi della nuova amministrazione che portò al commissariamento del Comune mi convinsero a rimettermi in gioco e tornai a fare il sindaco dal 1997 al 2002. Nel Duemila Castagnole fu tra i paesi più colpiti dal terremoto. Da sindaco ho fatto 23 anni. Credo di aver dato».
Di questa lunga stagione amministrativa ci sono foto con la fascia che la ritraggono a cavallo, con il cappello alpino o quello da bersagliere e accanto a decine di personaggi celebri. La accusarono di presenzialismo?
«Mi sono data da fare superando anche la mia naturale ritrosia. Nei discorsi pubblici cercavo di non superare i cinque minuti. A cavallo ci sono andata la prima volta nel 1980 all’apertura del palio bocciofilo. Il mio obiettivo era di accogliere e portare gente a Castagnole in vari modi. Ci inventammo anche dei giochi senza frontiere tra i paesi e il presidente della Camera di Commercio Borello volle farli diventare provinciali. Ma la vera svolta fu nel 1982 quando siamo riusciti a lanciare la prima edizione della Castagna d’or, per ricordare gli antichi castagneti che hanno dato il nome al paese».
L’albo d’oro conferma che tra i primi premiati ci furono Paolo Conte e Franco Piccinelli e poi si prosegue per 24 edizioni con oltre 150 insigniti e nomi sorprendenti da Roberto Bolle ad Arturo Brachetti, da Piero Angela a Gad Lerner e tanti altri giornalisti, uomini di spettacolo, scrittori
«Avevo in mente, fin da ragazzina, un qualcosa che rendesse omaggio alla cultura della nostra gente. Pensai da sindaco ad un inedito premio nazionale che facesse convergere su Castagnole personaggi di vari mondi con il comune denominatore di aver fatto qualcosa per il Piemonte e la cultura, anche se non erano tutti e solo piemontesi. Avevamo già in cartellone un premio di poesia in piemontese, ma la Castagna d’or uscì dai confini. Cercai l’aiuto di enti e istituzioni e fin dalle prime edizioni si compì un miracolo. Tutti accettarono il premio − una simbolica castagna d’oro incastonata su una targa − con grande entusiasmo e senza gettoni di partecipazione. Le serate di premiazione alla Mercantile divennero un momento importante e si creò un intreccio di amicizie, alcune delle quali le ho mantenute nel tempo».
Fu così che venne invitata al Maurizio Costanzo Show?
«A Gianni Minà, che avevo premiato nel 1990, piacque molto la storia del Ruché e di Castagnole e mi invitò a Roma. Nel 1989 avevamo già ospitato in paese un’intera puntata di Uno Mattina. Conoscevo i meccanismi per fare notizia. Costanzo in televisione mi volle il 6 novembre del 1992 ma mi presentò soprattutto come il sindaco che scriveva aforismi. Avevo il libro pronto e ne lessi qualcuno. Fu un successo, ma avrei voluto poter parlare di più del Ruché che aveva ottenuto la doc pochi anni prima».
Ecco, arriviamo al libro dal titolo “Un tunnel dall’ombelico all’anima” edito nel 1993 da Daniela Piazza. Una ironica e arguta raccolta di aforismi, giochi di parole e scritti vari dedicata a sua madre, scomparsa da poco, che “respira il cielo”. A quel tempo la definì una forma di auto tangente. Che significava?
«Si era in tempo di tangentopoli e io annunciai che gli utili delle vendite del libro erano destinati al rilancio pubblico della Mercantile. Erano soldi privati che andavano a sostenere un’opera pubblica, mentre normalmente accadeva e purtroppo ancora accade il contrario».
Il tema della Mercantile si intreccia con quello del rilancio del Ruché
«A quel tempo il presidente della Provincia Tovo avrebbe voluto vendere la bellissima tenuta che era il gioiello del nostro paese e dove c’era la bottega del Ruché. Come sindaco mi misi di traverso. Trovai un finanziamento di 500 milioni da fondi europei per i restauri. Avrebbero dovuto aiutarmi anche i produttori di vino. Li conoscevo bene perché ho spinto per far avere la doc che era arrivata tra il 1986 e l’87, non senza contrasti».
In quegli anni a Castagnole il produttore di vino più famoso era il parroco don Giacomo Cauda, un sacerdote contadino che oltre alla anime si occupava di campi e vigne del beneficio parrocchiale e allevava vitelli e galline
«Don Cauda lo conoscevo bene, ho anche suonato per venticinque anni l’organo in chiesa. Diciamo che l’ho costretto alla sua fama. Gli ho mandato tanti giornalisti. Sul Ruché ho dovuto convincerlo. Lui aveva vigne di grignolino e non credeva nel Ruché. Per fortuna trovai alleati come il prof. Luciano Usseglio Tommaset dell’Istituto di Enologia di Asti e il mago delle vigne Lorenzo Corino, che mi aiutarono da quasi astemia ad entrare nel mondo del vino».
Quasi astemia?
«Lo confessai una volta a una serata all’enoteca nazionale di Siena e mi fischiarono, ma spiegai che si poteva amare e aiutare da sindaco il proprio paese anche bevendo acqua e alla fine mi applaudirono».
All’ingresso di Castagnole arrivando da Asti c’è una scritta «Se a Castagnole Monferrato qualcuno vi offre il Ruché è perché ha piacere di voi». È sua immagino
«Sì. C’era bisogno di creare immagine e dare identità al paese e al vino. Lo lanciammo con una festa dell’amicizia programmata ogni anno per il 14 febbraio, il giorno di San Valentino. E si faceva già anche la Vendemmia del nonno. A una delle prime riunioni dei produttori, dopo aver ottenuto la doc li invitai ad alzare i prezzi a bottiglia ad almeno 5000 mila lire l’una. Dalla Germania erano disposti a importare l’intera produzione, ma doveva crescere e non restare una semplice curiosità enologica. Riuscimmo anche a realizzare una bottega del Ruché in un’ala della Mercantile. L’area della doc comprendeva sette comuni e fu necessario anche un lavoro diciamo diplomatico con i miei colleghi sindaci».
È soddisfatta di come oggi il Ruché è cresciuto in Italia e nel mondo?
«Ho visto giovani tornare a coltivare le vigne dei padri e dei nonni. Ci sono stati importanti investimenti da parte di aziende piccole e grandi e anche la cantina sociale si è mossa bene acquisendo le vigne della Mercantile, ma il nodo della grande tenuta resta. È come una bella addormentata».
Che fa, vorrebbe tornare a fare il sindaco?
«Non scherziamo. Vedo che il paese è vivo, sono nati agriturismi e altre attività, la strada che avevo tracciato si è dimostrata giusta. Nella vita bisogna saper guardare avanti e osare. L’ho fatto tante volte, senza troppi calcoli. Per esempio nei primi anni ’90 accettai di vendere la nostra cascina di famiglia La Bertolina a un gruppo di artisti capeggiati da Luciano Nattino che conoscevo già. Quel bel rustico del Seicento semi diroccato divenne la sede della compagnia teatrale degli Alfieri, con alloggi, sale prove e un piccolo teatro all’aperto. Con Luciano c’erano Antonio Catalano, Maurizio Agostinetto, Lorenza Zambon e tanti altri. Alla fine dei restauri avevo un po’ di magone nel ricordare il tanto lavoro di mio nonno e dei miei in quella casa e nelle vigne, ma ero felice di sentire pulsare un angolo della mia Castagnole, vederlo rinascere e tornare vivo».
Nella vita ha vissuto grandi passioni su più fronti. Le è mancato il grande amore?
«Ci sono persone che si innamorano talmente dell’amore da non riuscire a viverlo. Lo cantano, lo suonano, lo rendono universale per tutti. Fin da ragazza mi era più facile diventare l’amica del cuore. Una volta per scherzare sulla porta di casa mi scrissero: «Qui si consola dalle ore alle ore» e c’erano gli orari. Venivano tutti dalla Lidia che sapeva ascoltare. Non mi sono mai sposata, ma in compenso ho celebrato decine di matrimoni da sindaco».
Dal 2011 la Castagna d’or, la sua creatura, non è più andata in scena. Potrebbe tornare e ha il rammarico di non averla assegnata a qualcuno?
«L’idea di base è ancora valida. Bisognerebbe riprenderla con nuove energie. L’associazione culturale è ancora in piedi. Nell’albo d’oro possono entrare altri nomi splendidi. Io purtroppo non sono riuscita a dare il premio a Rita Levi Montalcini. E l’altro giorno leggendo della morte di Ermanno Olmi ho ricordato quando volevamo premiarlo al tempo dell’Albero degli zoccoli. Gli darei la Castagna d’or alla memoria per ciò che ha fatto a favore del mondo contadino».