… da lei saliva afrore di coloniali
Che giungevano a lui come da una di quelle drogherie di una volta
Che tenevano la porta aperta davanti alla primavera
Così canta Paolo Conte in quel capolavoro che si intitola Boogie. Già, le drogherie di una volta. Se nei paesi della provincia resistono negozi che sono un pezzo di storia, la città ne ha perdute di drogherie. Una delle ultime, in ordine di tempo, è stata la drogheria Durando, che ha chiuso definitivamente nell’agosto 2014, dopo due spostamenti dalla sede originaria.
Storica bottega – aperta nel 1919 da Luigi Durando in corso Alfieri, proprio davanti all’imbocco di corso Dante e a un passo dal Cocchi – diventò ben presto rinomata anche come torrefazione. Grandi vasi di vetro e scatole di metallo contenevano spezie di ogni tipo, caramelle e bonbon colorati, cioccolatini di marchi prestigiosi, frutta candita lucida e variopinta.
Non mancavano, tipicissimi, i sukaj, i senateur, le pastiglie Valda o le “gemme di pino” e varietà di the provenienti dalle zone del mondo più vocate per arrivare, negli ultimi tempi, a dei veri e propri “cru”. Quasi tutto si vendeva – e fu così per molto tempo – sciolto, compreso il cioccolato “morbido” che si tagliava da un pane rettangolare, le cui fette mostravano strisce o quadretti chiaro-scuri.
A proposito di “merci sfuse”, si può indicare oggi l’Antica Drogheria di via Aliberti, un po’ minimarket e un po’ boutique del cioccolato e dei “coloniali”. I profumi più inebrianti, a parte quello del caffè tostato, li davano le spezie, dalle più comuni – pepe, chiodi di garofano, cannella, noce moscata – alle meno conosciute, per lo meno dalle nostre
parti, come senape macinata, ginepro, cumino, zafferano, anice stellato, cardamomo, zenzero, macis, coriandolo…
Quali di queste avremmo trovato nella dispensa dei nonni? Non tantissime, ancora troppo costose per la cucina popolare e contadina, nonostante i prezzi fossero diminuiti nel corso
del Seicento in virtù del tramonto di certi monopoli secolari nel commercio con l’Oriente (come quello di Venezia) e dell’inserirsi nel mercato di Portoghesi, Olandesi, Inglesi,
Francesi.

Fino a quel momento il consumo delle spezie era stato appannaggio dei ceti aristocratici: bene di lusso, status symbol, erano sparse a piene mani dai cuochi rinascimentali, insieme allo zucchero, altro ingrediente preziosissimo. Nei cassetti delle nostrane cascine non mancavano, tuttavia, la noce moscata, che profumava il ripieno degli agnolotti ai tre arrosti; un misto di spezie (cannella, chiodi di garofano, pepe in grani, bacche di ginepro) per insaporire uno stracotto di manzo o della selvaggina, con la carne messa per una notte
in “infusione”, ossia in una marinata di vino, spezie e odori dell’orto.
In qualche territorio al confine con le Langhe si prepara tuttora la sausa d’avìe (letteralmente: salsa delle api), i cui ingredienti principali sono il miele, la senape in polvere
e le noci tritate: ottima per accompagnare il bollito misto. In comune con le Langhe cuneesi e alcune zone della provincia di Torino, il Monferrato astigiano conserva le grive (dette anche frisse o flisse), cucinate da sole in padella o inserite nel fritto misto; se oggi pochi macellai ancora le confezionano, un tempo erano opera della massaia di cascina che, nei giorni della macellazione del maiale, tritava e impastava salsiccia e qualche frattaglia deperibile per farne delle polpettine da avvolgere nell’omento, senza trascurare di profumare le carni con bacche di ginepro, pepe e noce moscata.


A sua volta il norcino – il masacrin – disossate le mezzene, separati i lardi e fatte le debite scelte delle carni per gli insaccati crudi e cotti, estraeva i ferri del mestiere e il prezioso involto delle “droghe”. Tra l’altro, quest’ultimo termine (che pare derivi dall’olandese droog, che significa “secco”) è stato comunemente usato nelle famiglie e, in genere, in ambito alimentare, dando il nome agli empori e ai negozi che le vendevano.
Chi non ricorda una “droga” assai comune nelle nostre case come “La Saporita”, tuttora commercializzata da un brand notissimo? Era davvero un passe-partout bell’e pronto, un
miscuglio di spezie (si dichiarano coriandolo, cannella, noce moscata, macis, chiodi di garofano e anice stellato) senza il quale un arrosto o un umido non venivano così buoni.
Ma poiché un “buon mangiare” esige anche un “buon bere”, ecco ancora le spezie venire in soccorso per formidabili invenzioni. Se l’antichissimo vin brulé (con spezie, zucchero e scorze di agrumi) è essenzialmente nordeuropeo, oggi non c’è festa popolare invernale
che non lo proponga, anche da noi.
Tutto piemontese è, invece, il Barolo chinato. Anzi, molto astigiano, dal momento che, dopo l’idea del dottor Cappellano, farmacista di Alba a fine Ottocento, di usare il Barolo addizionato di spezie “segrete” come rimedio per i malanni invernali, fu il naturalizzato astigiano Giulio Cocchi a dare un nome e una ricetta al Barolo Chinato, iniziando nel 1891 una propria produzione e commercializzazione in città.
La ricetta, oggi come allora, prevede di aromatizzare il Barolo con radice di rabarbaro e di genziana, seme di cardamomo e corteccia di china calissaja, poste in infusione alcolica e
stabilizzate per alcuni mesi.



