Maria Luisa, chiamata da tutti “Lina”, è stata una bimba di guerra. È ancora una bellissima signora, con i capelli canuti perfettamente acconciati, abbronzata e con un velo di rossetto. Il cognome preferisce non dirlo, per naturale riserbo e «perché sono i fatti che contano, non i nomi».
Nata nel 1935, ad Asti abitava in zona Cattedrale, e il suo terreno di giochi fanciulleschi (allora si giocava in strada con i coetanei e non da soli avanti a un video) sono le vie tra la Fulgor e le carceri di via Testa, fin sotto le antiche mura.
Custodisce il “santino” della sua prima comunione in Duomo celebrata nel giugno 1943. È andata a scuola, alla prima elementare, con l’emozione e l’attesa che hanno tutti i bambini al loro primo giorno in classe.
Fuori il mondo è in fiamme e l’incendio della guerra è destinato a espandersi. Dai vari fronti arrivano notizie positive e, ancora, molti pensano che il conflitto durerà poco e la potenza della Germania, grande alleata dell’Italia, avrà la meglio sull’Inghilterra che veniva definita “la perfida Albione”
L’asse Roma-Berlino viene rinforzato il 27 settembre 1940 dall’accordo con il Giappone e ai bambini si insegna che la guerra la vincerà Ro.Ber.To, giocando con le sillabe iniziali dei nomi delle tre capitali.
I ricordi che Lina racconta ad “Astigiani” non sono un resoconto cronologicamente esatto. La bambina non aveva un diario che la rimanda oggi a ciò che ha vissuto allora giorno per giorno.
Le sue sono memorie che riemergono nella mente di una scolaretta che è cresciuta negli anni della guerra. Memorie vive, impresse come fotografie che sanno essere ancora perfettamente a fuoco.
Lina è stata una testimone attenta che pur non capendo le “cose dei grandi”, vive intensamente quel periodo nella città di provincia dove è nata ed è cresciuta con la sua famiglia. Gli echi del conflitto paiono arrivare da lontano e poi man mano si avvicinano si fanno più vivi e drammatici.
«L’edificio della mia bellissima scuola era proprio al centro di quello che allora era il “Bosco del Littorio”» (che fu poi ribattezzato dopo la guerra in Bosco dei Partigiani, ndr).
Mi sembra di rivivere l’agitazione del primo giorno, di rivedere la bandierina italiana con lo stemma monarchico infilata nella mia castagna d’india che tenevo sul banco, e le foto del Duce e del Re che sembravano guardare proprio me. Era eccitante vestirsi tutti uguali, battere e agitare le mani a tempo, muoversi in sincrono agli ordini della maestra, che era una convinta militante fascista in un momento in cui lo erano praticamente tutti, per convinzione e convenienza.
Ricordo in quegli anni che mi piaceva soprattutto occuparmi dell’orticello di guerra. Ci avevano dato paletta e zappetta per imparare a coltivare la terra. Mi sentivo grande e utile alla patria. Era in effetti diffuso un grande orgoglio nazionale e, soprattutto noi bambini, opportunamente “istruiti” dall’insegnante, facevamo tutto con entusiasmo, come se fosse un bel gioco».
Nelle mente di Lina affiorano momenti particolari e curiosi.
«Ricordo quando, andando a fare spesa con la nonna, alcuni militari in libera uscita, forse colpiti dalla mia vivacità, iniziarono a incaricarmi di recapitare i loro biglietti galanti alle giovani astigiane a passeggio su e giù da via Giobert e in piazza Catena. La cosa mi agitava, ma mi rendeva piacevolmente complice, e il partecipare a quelle ingenue schermaglie amorose, che percepivo appena, mi fece sentire “grande”»!
La bambina percepisce che non tutti la pensano allo stesso modo.
«Intanto continuavo i miei giochi di strada. Tra i compagni di “settimana” o nascondino c’erano anche i due figli di un capitano della milizia, che abitavano di fronte a casa mia. Tra i nostri genitori i rapporti si limitavano ai convenevoli, poiché i miei non simpatizzavano per il Fascio, ma allora non lo si poteva dare a vedere; fra bimbi la cosa era più semplice, io mi trovavo bene soprattutto con il maschietto, tendendo la femminuccia a imitare la mamma, convinta mussoliniana in sintonia con l’atteggiamento e le ambizioni del marito. A me d’istinto stava antipatica».
La guerra avanza. Le notizie che filtrano dai vari fronti, nonostante le sempre ottimistiche cronache ufficiali, sono disastrose: Libia, Grecia, campagna di Russia. Lo sbarco degli alleati in Sicilia e la promessa di Mussolini di fermarli “sulla linea del bagnasciuga”.
Cade invece il Duce dopo la seduta del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio 1943.
Ad Asti c’è chi trova la forza di festeggiare. Il nuovo capo del governo maresciallo Badoglio è di queste parti.
Venne l’8 settembre, l’armistizio, ma anziché la fine della guerra, iniziò il periodo più duro. La Repubblica sociale, i nazisti che occupano e decidono, i primi nuclei di resistenza armata.
Sono giorni di tensione e nel ricordo di Lina spunta un episodio.
«Si facevano vedere giovani fascisti che esibivano con spavalderia fasci di bombe a mano alla cintura. Il figlio del capitano della Milizia pensò bene di prenderli in giro (“tanto sono finte!”). Lo aggredirono a male parole. Intervenne un residente che tentò di dissuaderli (“non vedete che è un bambino?”), ma fu aggredito egli stesso e sotto i miei occhi: lo presero a calci e pugni facendolo letteralmente rotolare da via Testa a via Natta, allora tutto a ciotoli, la chiamavamo la “sternìa”. L’uomo ha la camicia a brandelli e il volto tumefatto e sanguinante. Lo trascinarono fin verso la sede della G.I.L, la palestra che era della Gioventù italiana del Littorio. Tornò a casa pesto e claudicante».
“Bombardavano e andavamo sotto le mura e a casa papà ascoltava Radio Londra”
Anche Asti ebbe la sua quota di bombe. Centinaia gli allarmi aerei (vedi Astigiani n. 3, marzo 2013).
«Noi ragazzini esorcizzavamo il terrore con un po’ di curiosità, e quando ci rifugiavamo sotto i bastioni alla confluenza dell’attuale viale Partigiani con via Testa riuscivamo a scherzare tra noi inseguiti dai rimbrotti dei grandi. Anche papà ci guardava severamente, ma io lo sapevo in fondo addirittura speranzoso per ciò che stava accadendo, lui che ascoltava Radio Londra ogni sera, nel buio e a un volume bassissimo».
Il ricordo di Lina si concentra sul padre, che era operaio all’azienda del gas, e su quegli avventurosi viaggi in bicicletta che l’uomo fa superando il Tanaro e salendo fino a Costigliole dove riesce a procurarsi pane e quel poco che serviva per nutrire la famiglia e qualche conoscente.
Ancora un flash. Un ricordo che ha il ritmo della sequenza cinematografica, raccontata e rivista tante volte.
«Fu fermato d’inverno a un posto di blocco nella piana di San Marzanotto. Una signora da una finestra gli urlò: “Munsù; ai sparu a chiel !!”, e lui vide la neve sollevarsi vicino ai suoi piedi. Un tedesco, mitra spianato, lo interroga. “Ho moglie e figli, porto loro da mangiare”. Il soldato volle vedere le mani, e notò i calli da lavoro. Allora gli offrì una sigaretta. “È finita — pensò papà — il fumo come ultima soddisfazione”, e si appoggiò al mucchio di neve. Invece un militare gli indicò una pesante mitragliatrice e gliela fece portare sino al comando tedesco. Mio padre lo raccontava con tutto il sollievo del mondo».
Siamo nel 1944, è primavera, ma non c’è e non può esserci allegria.
«Rammento come se fosse ora la vigilia di Pasqua ‘44: si sentiva urlare dal carcere di via Testa. La mamma tentava di tranquillizzarmi, ma seppi poi che erano segnali di torture e maltrattamenti ai partigiani catturati. E i giorni successivi i nostri giochi furono interrotti dall’arrivo di automezzi da cui erano fatti scendere ragazzi che venivano portati legati in carcere. Ricordo che quei poveretti, già traballanti di loro, erano presi a calci dai militi in camicia nera».
La bambina di allora racconta oggi.
«Vi fu la volta che arrestarono per sospetta adesione al movimento dei partigiani un nostro conoscente. Quel pomeriggio la moglie venne da noi e consegnò a mamma un telo con dentro qualcosa. “Sono calzoni” mi dissero. Invece erano due fucili, che mio padre nascose per un po’ in cantina poi li affidò con grande circospezione al sacerdote direttore della Fulgor, che li sotterrò sotto i bastioni».
Venne anche il tempo della fame e della borsa nera, e di quando le salsicce vennero scambiate, da questa bimbetta curiosa, per una collana.
“Notai infatti che a casa del mio dirimpettaio, il solito capitano della milizia, mangiavano delle cose tonde legate tra loro, a me parvero come delle voluminose perle. Lo raccontai in giro e il giorno appresso quell’ufficiale si sentì in dovere di avvertire i miei, mescolando senso di protezione a tono di rimprovero, di stare attenti a quel che dicevano i bimbi che si inventano bugie pericolose”.
Nel febbraio 1945 la zona della stazione fu colpita da un bombardamento alleato. In via Guttuari si contarono 23 morti e centinaia di senza tetto. La paura crebbe.
“Provo ancora tensione e anche angoscia a raccontare certe cose, a distanza di oltre settant’anni. Ho visto mio padre piangere tante volte per amici che erano mancati. Ricordo le liti in casa con mamma perché teneva un fucile nascosto, scontri verbali sottovoce perché noi bimbi non ci spaventassimo”.
Quelle donne con la testa rasata imbrattata di minio rosso
Finalmente vennero i giorni della Liberazione.
“Ho negli occhi la luce dei bengala americani che illuminavano la Cattedrale, dietro casa nostra. Mi dissero che il capo del carcere era scappato attraverso il nostro giardino scalando il muro e usando la nostra scala. In quei giorni mi sorprese vedere don Ceriani girare con la stella rossa sulla tonaca nera, tentando di mediare tra le parti per evitare inutili, ulteriori, spargimenti di sangue e vendette. Ricordo donne con le teste rasate e imbrattate di minio rosso e la gente che le scansava come se avessero la peste. E in casa si parlava sottovoce di un nostro conoscente, fucilato come collaborazionista e spia ai piedi delle scalinate in piazza d’Armi, quella che è oggi Campo del Palio”.
Immagini crude e dure di quei giorni.
“Venne da noi un partigiano, uno di quelli che erano usciti vivi dal carcere: “So che qui abita il capitano del fascio.” “Sì, ma è scappato. Non vorrete prendervela con i bambini” fu la risposta di mio padre. “Però la ragazzina che esultava quando ci hanno portati dentro e che gridava tutta eccitata “i ribelli, i ribelli” era sua figlia”. Poi fece vedere le mani, con tutte le unghie strappate, durante le torture. Mio padre lo convinse e se ne andò a parlare con i comandanti.
La famiglia del fascista scappò il giorno appresso.
Non ci salutarono e non ci furono altri contatti, se non anni dopo quando arrivò la foto del matrimonio di quella fanciulla mia coetanea che non mi stava simpatica”.
Lina ha ancora un ricordo.
“I camion carichi di soldati e carri armati americani. Erano enormi e dalle torrette buttavano a noi bambini caramelle e cioccolato vero, a noi che conoscevamo solo quello autarchico fatto di surrogato.
Erano giorni di esultanza per la fine della guerra e di speranza in un nuovo mondo, senza troppe sofferenze e ingiustizie… ma visti i tempi che corrono…”