martedì 28 Gennaio, 2025
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Se ci penso

Il fascino dimenticato delle latterie

Rivestite di piastrelle chiare erano anche luoghi di ritrovo

Oggi il latte lo si trova un po’ dappertutto: nei supermercati, nelle macellerie, perfino dal verduriere o nei distributori automatici a monete. Te lo vendono in bottiglie di plastica dai tappi colorati o in scatole di cartoncino siliconato sulle quali vengono magnificate in bella scrittura le straordinarie qualità nutritive del prodotto. Il fatto è che  quando il latte ti serve e lo vai a cercare, rischi di ritrovarti a vagare smarrito tra  decine di marche e tipi: fresco, superfresco, più o meno scremato a lunga conservazione, senza lattosio ecc. Rimpiango le  vecchie latterie. Rimpiango quei botteghini per il nitore accattivante che esibivano le loro pareti rivestite di lucide piastrelle quasi sempre di colore celeste chiaro. Ho nostalgia di quel bancone che tagliava la stanza in due in modo da stabilire le aree di competenza e nascondere in parte, nello spazio della titolare, il poco estetico bidone da cinquanta litri ove si teneva il latte sfuso per poterlo distribuire a msuri, ossia a misura a decilitri. Certo, si vendeva anche in bottiglie di vetro con le capsule di stagnola della Centrale del latte che fino al 1987 ha operato ad Asti in via Brovardi, prima dell’accorpamento con quella di Alessandria, che portò come novità la vendita del latte in buste di plastica da mezzo litro e litro intero. Ho pure nostalgia della maestosa e lucente macchina del caffè con l’aquila di metallo sulla sommità. Il bronzeo rapace aveva le ali spiegate, quasi volesse spiccare il volo verso lo scaffale a ripiani che occupava tutta la parete di fondo e sul quale erano poste le bornije dei dolci: contenitori di vetro sempre nitidi e chissà perché solamente riempiti giusto a metà della loro capienza.

Quando si vendeva il latte sfuso

 

Ricordo con tenerezza i due tavolini posti contro i muri, le sedie, due per tavolino, al fine di dare agli avventori che chiedevano un caffè, il piacere di sedersi ed essere serviti come al bar. Queste suppellettili nella stagione estiva si spostavano all’esterno per formare un piccolo dehor ove si servivano gazzose nelle bottiglie con la biglia di vetro e granatine i cui gusti erano sempre da scegliersi tra menta, limone e amarena e ghiaccioli che i ragazzi divoravano in fretta per arrivare a vedere se i bastoncino in legno aveva impresso la parola “omaggio”.  E poi c’erano i gelati annunciati dai cartelloni in metallo delle varie marche che mettevano in mostra tutto il campionario.  Di queste latterie, ne ricordo alcune: la Pessin’a, che si trovava in Corso Torino e la si poteva definire una gelateria vera e propria, un punto di riferimento per i ragazzi non ancora in età da bar. Il botteghino della “ Cicci” in via Balbo angolo via Bonzanigo. Dalla Cicci ci passavano tutte le massaie della zona perché era il posto ove si veniva a conoscenza di tutto su tutti. Poi c’era la latteria Penna in via Giobert, noto ritrovo degli sportivi del tempo per via che il figlio del proprietario era stato portiere dell’Asti.  C’era anche la latteria Fileppi all’inizio di Strada Fortino. Infine la latteria Viarengo, di Angiulin e signora che ricordo in una giornata particolare della fine degli Anni Trenta quando Angiulin  venne dimesso dall’ospedale dopo quaranta giorni di degenza che si era procurato facendo ribaltare il triciclo che usava per consegnare il latte. Appena tornato davanti alla sua latteria andò in cortile, mise quattro cestelli di bottiglie vuote nel cassonetto del suo triciclo e con questo si avviò ad affrontare la salita del corso Regina (l’attuale viale Partigiani).  Talin’a, il donnone che gestiva il chiosco di verdura dall’altra parte della strada osservò l’operazione, poi, memore di quanto era successo quaranta giorni prima, si mise a chiamare a gran voce Teresio, il ciclista che aveva il negozio a fianco della latteria. Teresio venne sulla porta, pulendosi le mani unte di grasso. Vide Talin’a che con gesti concitati gli indicava il la salita e poi vide Angiolin su per la salita. Chiamò a raccolta i garzoni, diede loro delle rapide disposizioni per mettere salvo cinque biciclette nuove che avva in esposizione sul marciapiede. Non si fece in tempo. Preannunciato da un tintinnare di bottiglie vuote, dallo stridio dei freni del triciclo e da una serie di trilli di fischietto, Angiulin piombò sull’incrocio. Gildo, l’altro ciclista dirimpettaio di Teresio, rimase a guardare. Sapeva di essere al sicuro e pregustava il ripetersi della catastrofe, cioè l’infilarsi di Angiulin, con triciclo e tutto, nel negozio di Teresio. Ma il lattaio, mise in pratica la teoria studiata in ospedale e anziché sterzare a sinistra come aveva fatto la prima volta, svoltò a destra verso il corso Torino lasciando che fosse il rettilineo della Léija a smorzare l’abbrivio del triciclo. Una manovra da campione dei lattai che noi ragazzi da allora ribattezzammo la sterzata di Angiulin.

 

Le Schede

 

L'AUTORE DELL'ARTICOLO

Peter Fassio
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