Quando si importavano rifiuti da Genova per scaldare le serre
«È arrivato il letame di Genova! Non c’era bisogno di aprire le finestre per capirlo. L’odore acre invadeva tutte le case attorno alla stazione». Così racconta il sociologo Emanuele Bruzzone, ripescando nei ricordi della sua infanzia. Oggi lo smaltimento dei rifiuti è un grande problema e l’idea di avere una discarica vicino a casa è considerata da tutti una sciagura biblica, tanto che se mai si avanza anche solo una remota ipotesi del genere nasce subito un comitato per scongiurare una simile evenienza. Eppure c’è stato un tempo, e neppure troppo lontano, nel quale gli astigiani addirittura i rifiuti li andavano a prendere altrove. Era un esempio concreto di raccolta differenziata e di riutilizzo dei rifiuti in maniera ecologica e a basso impatto ambientale.
Nella seconda metà degli Anni Quaranta, subito dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, a ogni inizio inverno veniva rinnovato un accordo tra i rappresentanti delegati della Società Orticola Astigiana e il Comune di Genova. Era possibile prelevare dalla discarica ligure della “Volpara” spazzatura gratis, bastava pagare le spese di trasporto. Conveniva ad entrambe le parti: per i genovesi ogni tonnellata di spazzatura ceduta era una tonnellata in meno da stipare, per gli orticoltori astigiani che lavoravano nella valle del Tanaro, la rumenta serviva a preparare le lettiere per le semine invernali: era concime a buon mercato, ed era necessario importarla perché quella prodotta ad Asti non era sufficiente e non della stessa qualità. Nei primi anni il materiale era trasportato su carri ferroviari aperti in alto e coperti solo da un telone; all’arrivo venivano parcheggiati su un binario morto nello scalo merci di Asti e i destinatari provvedevano a trasbordare l’immondizia su carri agricoli trainati da cavalli. Per le zone più periferiche c’era la possibilità, su richiesta, che il carro intero venisse trasportato su un apposito porta vagoni della ditta Babilano dal deposito alla destinazione finale. Qualcuno, più avanti, al posto del carro trainato dal cavallo richiedeva l’opera di una trattrice con rimorchio ribaltabile. Le famiglie “compravano” un vagone o, a volte, si mettevano d’accordo per dividerlo a metà. Quando era scaricato, tutti quelli in grado di lavorare iniziavano la “pulitura”, con forconi o a mani nude, aiutati a volte da straccivendoli, gente che viveva raccattando stracci, pelli di coniglio o rottami vari.
Tra i rifiuti spuntavano anche monete e collane
Era la raccolta differenziata di un’epoca senza plastica, che produceva pochi rifiuti e non buttava via quasi nulla. Si mettevano da parte rame, alluminio e ottone, quelli erano i metalli pregiati, da un altro lato si raccoglieva il vetro, che veniva subito rivenduto all’Avir, la vetreria. Non si lasciava niente, a parte l’organico. Anche le ossa erano selezionate e rivendute. Il ricavato contribuiva a pagare i costi di trasporto. «Io ero bambina – ricorda Carla Raviola, generazioni di ortolani con casa in recinto San Rocco, non lontana dal Borbore – in famiglia l’arrivo del liam da Genova era un avvenimento. Bisognava prepararlo per metterlo nelle cucce che servivano per la semina sotto le serre. Ci mandavano a cercare tra i rifiuti e a togliere vetro e ferro. Allora la plastica non c’era ancora. E girava voce che avessero trovato anche collane e monete d’oro. Per noi era un po’ una caccia al tesoro. Andavo a scuola a San Carlo con la maestra Ferraris e ricordo tutta orgogliosa che mi diede un bel voto per il disegno che avevo fatto del carro con i rifiuti che veniva scaricato nei campi per selezionarlo». Anche il cugino Carlo Raviola, pure lui figlio di ortolani, ha vissuto quell’epoca: «Mi vengono alla mente alcuni momenti che oggi ricordo con un sorriso e un velo di malinconia, come capita per tutte le cose vissute anni fa con convinzione, entusiasmo e passione, pur trattandosi tutto sommato di vita grama. L’arrivo della spazzatura era un avvenimento. Se la consegna tardava, in famiglia cominciavamo a preoccuparci. Iniziavamo a sollecitare l’invio con una telefonata. Nei casi peggiori bisognava fare un salto a Genova, in Comune, per raccomandarsi a qualche funzionario, o ancora recarsi alla “Volpara”, il deposito della spazzatura situato oltre Staglieno, e magari osare far correre qualche regalino al responsabile della logistica… per noi quella spazzatura era importante». Tra Genova e Asti c’era un flusso intenso di trasporti: «Se ne parlava molto fra di noi, venivano fuori le disavventure del camion impantanato, le arrabbiature dell’autista. La cernita poi era molto importante, era lì che si capiva se il carico era di roba più o meno buona… e poi capitava anche di trovare qualche oggetto prezioso o monete smarrite… a questo proposito se ne raccontavano tante, addirittura correva voce che qualcuno avesse trovato una pistola o una collana preziosa, ma per conto mio erano solo storie. Non ci accorgevamo neppure che si maneggiavano rifiuti. A quei tempi nessuno si preoccupava, si lavorava a mani nude».
La spazzatura fermentava e dava calore alle serre
In pochi giorni la spazzatura così “ripulita”, eventualmente miscelata a letame bovino, veniva sistemata in un cumulo allungato, schiacciata con i piedi e lasciata fermentare qualche giorno. Attorno si posava la struttura di legno che, completata dai telai in vetro, avrebbe ospitato il vivaio. Le serre erano piccole e basse: cassette di legno con due ante di vetro a formare un tetto spiovente, apribile dall’alto, facili da scaldare. Al momento della semina si allargava e pressava la spazzatura calda, riempiendo il letto preparato con uno spessore di 30-40 cm., ricoperto di 10 cm. circa di terra selezionata sulla quale veniva sparso il seme successivamente ricoperto da uno strato di 1-1,5 cm di terra ulteriormente selezionata e setacciata. Dopodiché venivano posati i telai, coprendo il vivaio il più rapidamente possibile per non disperdere il calore. Infatti non esisteva alcuna forma di riscaldamento e le prime semine si facevano appena dopo l’Epifania. Le famiglie di ortolani, come uso di buon vicinato, si aiutavano per accelerare le operazioni: di norma si cominciava al mattino appena chiaro per finire prima di pranzo. Sopra i telai in vetro venivano stese file di sacchi di iuta nella parte verso terra e stuoie di paviera intrecciata (importata da Villanova di Bagnacavallo) a ulteriore riparo per la notte e per le giornate nuvolose e fredde.
Ogni anno si rinnovava così il miracolo delle primizie
Spiega Angelo Dabbene, anch’egli figlio di ortolani: «Sembra incredibile, ma quell’organico che fermentava, bagnato di tanto in tanto, forniva un tepore costante, che favoriva la crescita perfetta delle piantine. Addirittura i gatti, che all’epoca non venivano certo tenuti in casa, nelle fredde notti d’inverno si riparavano soddisfatti accanto a quelle serre». A gennaio c’erano le prime semine, i peperoni verdi piccoli, detti “parisien”, a febbraio seguivano pomodori, zucchini, peperoni, melanzane ecc., e c’era il trapianto in vivaio dei peperoni verdi. Era una corsa contro il tempo per arrivare ad avere le primizie che spuntavano prezzi maggiori sui mercati di Torino e delle altre città. Finita la stagione delle semine e dei trapianti gli impianti erano smontati e la spazzatura, ormai ridotta a compost, sparsa come concime organico sui terreni che, usati per colture invernali, nella tarda primavera erano ormai vuoti. Verso la fine degli Anni ’50, con lo sviluppo del trasporto su gomma, i carri ferroviari furono sostituiti da autotreni ribaltabili che consegnavano direttamente la merce alle aziende orticole. In quell’epoca il trasporto del carico di un camion costava circa ventimila lire. Ma la comparsa di oggetti e parti di plastica tra i rifiuti inizò a creare seri problemi. La causa principale della fine di questa pratica fu la decisione del Comune di Genova di imporre l’utilizzo di sacchi neri di plastica per la raccolta dei rifiuti. Tra il 1968 e il 1969 iniziarono ad arrivare ad Asti carichi di spazzatura che gli ortolani non erano più in grado di gestire: la presenza degli indistruttibili sacchi e di altre parti in plastica, comprese le prime bottiglie in pvc, rese l’operazione di cernita molto difficile e troppo lunga, lo scarto era enorme e si poneva il problema dello smaltimento della plastica, anche se all’epoca non si andava tanto per il sottile: veniva bruciata in un bel falò all’aperto, con buona pace delle evidenti emissioni di inquinanti. In secondo luogo in quegli anni aumentarono le importazioni di bestiame dalla Francia da parte di allevatori dell’Astigiano, e il lavaggio dei carri bestiame scaricati ad Alessandria fu dirottato ad Asti. Si rese quindi disponibile, senza costi di trasporto, il letame di risulta dei carri che dovevano essere ripuliti dalle Ferrovie. Infine, come ricorda ancora Carlo Raviola: «In parecchie aziende orticole negli Anni ’70 fu adottato un sistema di riscaldamento con serpentine in tubo di pvc con acqua calda ottenuta tramite un normale impianto a caldaia e bruciatore. Il carburante era gasolio che veniva assegnato come “agricolo” a prezzo molto basso. All’epoca riscaldare le serre costava veramente poco». Le ultime importazioni di rifiuti avvennero nell’inverno tra il ’69 e il ’70 dalla zona del Levante ligure (Chiavari, Sestri Levante), dove non si usava ancora il sacco di polietilene nero per la raccolta, poi questo singolare commercio, ormai non più economico, cessò del tutto.
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