Giornalista di lungo corso e decano della cronaca nera
Cronisti si nasce o si diventa? Nel caso di Luigi Garrone, iscritto all’Ordine dei giornalisti da oltre sessant’anni, la risposta è semplice: si nasce. La prova? Un episodio del settembre ’44. Luigi non ha ancora 19 anni e ha trovato impiego al Consorzio agrario dove lavora, come manovale, anche il padre Carlo. A mezzogiorno padre e figlio vanno a mangiare alla mensa comunale – all’epoca vicino al Battistero di San Pietro – che proponeva, senza alternative, minestra di verdure o zuppa di ceci e fagioli. Il prezzo: una lira “senza sale” e due “con”. Il sale in quell’epoca era introvabile.
I Garrone scelgono sempre quella “senza” (aggiungendone piccole quantità che portano da casa) e la cosa non sfugge al caporione delle Brigate Nere “Sgheira”* il quale sospetta che quel sale arrivi da una zona partigiana. Le domande del brigatista si fanno serrate fin che ordina al giovane Luigi di presentarsi alla vicina Casa di Riposo, comando all’epoca delle Brigate nere, per essere interrogato dal Comandante. Sono momenti difficili ma le risposte di Luigi sono evidentemente convincenti. Viene rilasciato, ma avrà l’obbligo di presentarsi ogni sabato in caserma per le esercitazioni del “sabato fascista”.
C’è il rischio di finire arruolato. L’episodio induce il giovane Luigi ad abbandonare l’impiego al Consorzio agrario e a unirsi alle formazioni partigiane autonome del Comandante Leo (Giuseppe Gerbi) che operano tra Rocca d’Arazzo e Montegrosso. Durante l’ultima “visita” al Comando delle Brigate nere Garrone nota che il postino lascia la corrispondenza incustodita all’ingresso e, rapidissimo, se ne impossessa allontanandosi in fretta. In quelle lettere risultò esserci nulla di importante, ma si era svelato il suo irreprimibile istinto a “carpire” notizie.
*Sgheira – Marco Oddone. Capo di una squadra di Brigate nere. Ritenuto responsabile di saccheggi, furti ed omicidi, dopo il 25 aprile fu condannato a morte e fucilato nel cortile della “Colli di Felizzano”.
Fisico minuto, sorriso bonario, ma in realtà un instancabile segugio da cronaca nera.
La curiosità per le cose che avvengono intorno a me è innata, ma l’istinto a tener duro viene dalle tante difficoltà dell’infanzia e dell’adolescenza. Sono figlio di uno contadino “sciavandari” e di una “donna di servizio”, al confine di tre Comuni: Revigliasco, nella cui chiesetta sono stato battezzato, Mongardino che ho poi scelto come luogo del cuore e San Marzanotto. Avevo una malformazione a un braccio e in campagna non avrei potuto far altro che accompagnare le bestie al pascolo. Invece le cose andarono diversamente.
Cioè?
Mentre andavo alle elementari, la mia famiglia riuscì a mandarmi all’ospedale Regina Margherita di Torino per farmi operare al braccio. Ci restai tre mesi – primo trapianto di tendine fatto in Italia – e dovetti ripetere la quarta, ma la cosa non influì sulla mia “carriera” scolastica perché, grazie ai buoni uffici del parroco di Mongardino, don Alfredo Bianco, fui ammesso alle medie della congregazione dei Fratelli delle Scuole Cristiane di Torino. Tornato ad Asti, andai alle Magistrali dove redigevo, insieme a compagni che avrebbero fatto anche loro il “mestiere” come Gino Nebiolo e Primo Maioglio, un giornalino intitolato Il Castello.
C’era già la vocazione, ma anche la guerra…
Anni balordi, di coraggio e incoscienza, ma anche di tanta paura. Tre mesi dopo essermi diplomato, mi unii ai partigiani autonomi del Comandante “Leo”. Dopo alcune riunioni in aperta campagna, decidemmo di dividerci in gruppi. Fui assegnato a quello di Mongardino con il nome di battaglia “Lo Sfregiato”.
Strano nome
Dopo aver assegnato gli uomini ai vari distaccamenti, il comandante “Vico” ci spiegò che da quel momento non avremmo più dovuto usare i nostri nomi ma quelli di “battaglia”. Con i Promessi sposi in mano dava ad ognuno il nome di un personaggio del capolavoro manzoniano. Quando fu il mio turno era arrivato ai “Bravi”. A quello prima di me toccò il “Griso” ed io fui lo “Sfregiato”. Non mi piaceva, ma non c’era da discutere.
Partigiano e comunicatore
In tutti i sensi. Avevo il compito, insieme a Gigi Monticone, nella stazione di San Marzanotto Rivi, di osservare tutto ciò che avveniva al di là del Tanaro e di dare ogni sera la parola d’ordine a tutti i distaccamenti della zona (Rocca d’Arazzo, Azzano, Montemarzo, Torrazzo, San Marzanotto, Mongardino, Vigliano, Montegrosso). La rete, realizzata dall’ing. Gentile di Mongardino, un genio della telefonia che avrebbe poi fatto grandi impianti in Grecia e Tunisia, salvò molte vite quando, il 2 dicembre del ’44, avvertimmo tutti che stava iniziando un grande rastrellamento nazifascista. Ma nei momenti di tranquillità relativa, mettevamo insieme anche il giornale La Campana che veniva stampato al Michelerio e portato oltre il Tanaro nascosto sotto l’ampia tonaca di un erculeo sacerdote, don Estienne.
Poi finisce la guerra e…
…e io aderisco alla Democrazia Cristiana. Comincio a collaborare con il Popolo astigiano, filiazione del torinese Popolo nuovo e intanto frequento l’Università a Torino. Qui vado a ficcare il naso nella redazione del giornale dove si lamentano perché il corrispondente da Asti (Vittorio Fontana, redattore de Il Cittadino, titolare di tutte le corrispondenze da Asti per i maggiori quotidiani nazionali) è un po’ troppo pigro. Mi propongo. Comincia così la mia vita da cronista.
Quel giornale non durò a lungo
Fu però una buona scuola. Io intanto facevo il supplente alla Piana del Salto di Calosso e collaboravo alla Gazzetta d’Asti (primo compenso un paio di scarpe). L’anno successivo avrei dovuto andare a far scuola a Vesime, troppo lontano. Cercai altre strade. Grazie ad un decreto prefettizio che favoriva l’assunzione, in aziende astigiane, di reduci, internati, partigiani ed ex prigionieri, entrai alla Way-Assauto. Era il 1948, il pane era assicurato. Avevo intanto conosciuto Dina Duretto, una bella biondina di Canelli, e l’anno dopo ci sposammo, ma alla cronaca non rinunciai.
Doppio lavoro?
Praticamente sì e per 34 anni, tanti quanti sono stato alla Way-Assauto. Fare cronaca era appassionante e potevo arrotondare. Era tutto molto diverso da oggi: malgrado le consuetudini di riservatezza maturate durante il “Ventennio”, avere notizie dalle “fonti” ufficiali era paradossalmente più facile di oggi. Eravamo tutti degli “artigiani”: lavoravo in Waya fino alle 18 e la Questura (all’epoca in via Roero) chiudeva appunto alle 18. C’era però “qualcuno” che lasciava sul davanzale di una finestra dell’edificio la chiave dell’ufficio del Capo della Mobile. Si poteva così avere accesso al “mattinale” dove erano elencati tutti gli interventi della Squadra, anche quelli da non pubblicare.
In quegli anni diventi un monopolista di corrispondenze
Nel 1950 i cronisti astigiani erano quattro: Angelo Marchisio e l’allora giovanissimo fratello Vittorio che avevano La Stampa, Agostino Bertone che aveva l’Ansa e Gianni Bogliano che aveva il Corriere della Sera. Quest’ultimo, impiegato alla Pce (l’Enel del tempo n.d.r.) venne trasferito nel Torinese e fui pronto a prenderne il posto. Sono rimasto al Corriere 35 anni ed ho avuto la possibilità di ottenere molte altre corrispondenze. Collaboravo anche con i giornali locali, per esempio con il Cittadino che si trovò, nel 1953, a contrastare la concorrenza della Nuova provincia. Tra le due testate fu una gran bella lotta.
Poi arrivarono gli anni dei mitici “duelli” con Vittorio Marchisio e dei grandi, tragici fatti di cronaca.
La grande cronaca, quella da prima pagina, c’era già stata negli anni subito dopo la guerra: l’alluvione del ’48, la morte di Gerbi il Diavolo Rosso e quella del Maresciallo Badoglio (in quell’occasione riuscii a battere la concorrenza grazie all’amicizia con il turnista di notte della società dei telefoni, certo Ebarnabo, che mi avvertì di un anomalo traffico tra Roma e Grazzano) o il “13” al Totocalcio di 3 astigiani i cui nomi venni a sapere per caso evitando così di prendermi un “buco” da Marchisio. Con lui era tutto un accordarsi per non farsi la guerra già sapendo che alla prima occasione, uno dei due avrebbe tentato di “fregare” l’altro.
Venne il tempo di Astisabato e della “Gazzetta”.
Gli anni ’50 e ’60 furono, nel bene e nel male, indimenticabili. Cominciava il declino del Cittadino, sorgeva la stella della Nuova Provincia, nasceva La Voce dell’Astigiano e due anni dopo Astisabato. Nuovi cronisti entravano in campo, ma i contendenti eravamo sempre Marchisio ed io, soprattutto dopo essere entrato nella redazione locale della Gazzetta del Popolo. Mi venne così affidata la “copertura” notturna. In quegli anni accadde di tutto: dallo scandalo dell’Asti Nord al cosiddetto “Delitto dei porci”, dai quattro operai caduti dal grattacielo di corso Dante ai sette schiacciati dal crollo di un capannone a Moncalvo, dal “Delitto di Serravalle” alla storia tragica e commovente del rapimento di Maria Teresa Novara. Bisognava avere coraggio, sfrontatezza e fortuna per portare a casa le notizie: trucchi vari per carpire una foto, folli viaggi in Lambretta verso Torino per portare in tempo notizie e fotografie, affannose corse alla stazione per spedire le buste “fuorisacco”.
Cambia il mondo, ma Garrone è sempre al passo con i tempi.
Che cronista sarei se non fossi in grado di adeguarmi alle novità. Comunque alla fine i modi per avere notizie restano più o meno sempre gli stessi, pur con gli inevitabili aggiornamenti. Quando, nei primi anni ’90, scoppiò “Tangentopoli” e ad Asti infuriò una sorta di delirio da arresto, riuscivo a sapere se il tal personaggio inquisito era stato scagionato o denunciato dal movimento delle tapparelle delle finestre dell’ufficio del Procuratore della Repubblica. Più o meno stesse procedure per lo scandalo del vino al metanolo del 1986.
C’è un segreto per questa tua longevità di mestiere?
Alla base di tutto c’è l’istinto che anima il cronista e che solo chi ha fatto questo mestiere conosce davvero. In età non più giovanissima, mi sono lasciato coinvolgere nella gestione del Giornale del Piemonte, prima redazione proprio nella cantinetta di casa mia.
Sposato da oltre 60 anni, figli, nipotine, eppure continui a fare ogni giorno il tuo “giro” di nera.
È vero, ogni mattina dai Carabinieri e in Questura a cercare furti e altri reati. Ma, una volta spedito tutto prima via fax oggi via mail alle varie redazioni, posso dedicarmi alle mie piccole passioni: le carte, le bocce. Almeno due sere a settimana a casa di Gabriele Vercelli a giocare a carte ed altre due a Mongardino per le bocce. D’altra parte a Mongardino ci dovrò tornare. Ho comprato un piccolo bilocale, “vista Tanaro”, nel cimitero del paese e il parroco ha promesso i suoi buoni uffici per avere regolari permessi di “libera uscita” serale. è proprio in quelle ore che può capitare di tutto e il cronista deve stare sulla notizia.
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