Il primo manifesto della Liberazione
Il 26 aprile 1945, l’avvocato Felice Platone, appena nominato dal CLN Sindaco di Asti, fece pubblicare il manifesto che riportava queste parole:
«Il C.L.N. di Asti, valendosi dei poteri conferitogli dal governo, mi ha nominato Sindaco della Città. Nell’assumere l’incarico nella situazione che ben conoscete, rivolgo un appello a Voi tutti affinchè con la vostra opera di collaborazione vogliate rendere meno arduo il mio compito. Dal precipizio in cui siamo stati gettati dal fascismo, possiamo finalmente iniziare l’opera di rinascita. Quest’opera, che sarà lunga e difficile, richiede il concorso di tutti indistintamente secondo le possibilità di ciascuno. Vigileremo quindi affinchè ognuno dia secondo le proprie forze in nome del popolo che sarà giudice del nostro operato. Confido pertanto che la Cittadinanza, dopo queste ore di legittimo tripudio, sull’esempio degli eroici Partigiani che hanno offerto la vita per la nostra liberazione e del C.L.N. che ha saputo mantenere vive durante questo periodo tenebroso le nostre aspirazioni alla libertà voglia accogliere questo mio appello con pieno senso di consapevolezza e di responsabilità».
Le immagini delle formazioni partigiane pubblicate nelle pagine seguenti sono tratte dal volume di Primo Maioglio e Aldo Gamba Il movimento partigiano nella Provincia di Asti edito nel 1985 a cura dell’Amministrazione provinciale.
Liberate Nizza e Canelli la sera del 24 aprile le formazioni partigiane entrano in città
I partigiani entrarono in Asti nella notte tra il 24 e il 25, ma fin dal pomeriggio del 24 circolava voce che alcuni gruppi di “ribelli” si erano appostati alla periferia della città. Prima ancora, il 23 aprile, i fascisti avevano abbandonato Canelli, mentre Nizza, che per due mesi a fine del 1944 era stata sede della Repubblica Partigiana dell’Alto Monferrato (vedi Astigiani, n° 10, dicembre 2014), salutò l’ingresso dei partigiani la mattina del 24. L’insurrezione finale avvenne in un clima da fine di un incubo. La popolazione era allo stremo. I mesi tra il 25 luglio ’43 – quando il Re depose Mussolini e il governo fu affidato a Pietro Badoglio, astigiano di Grazzano – e l’aprile ’45 erano stati durissimi, in particolare dopo lo sfacelo dell’8 settembre e l’occupazione tedesca: la maggior parte dei treni non funzionavano, quasi tutti i ponti erano stati distrutti, le comunicazioni telefoniche e telegrafiche risultavano quasi sempre interrotte. E, su tutto, il terrore dei bombardamenti alleati, che avevano già provocato in città almeno una cinquantina di morti e che spesso costringevano a passare la notte nei rifugi; ne furono apprestati numerosi, come quelli sotto la Casa Littoria e nelle cantine di Palazzo Ottolenghi, allora sede della prefettura, quest’ultimo recentemente riaperto come museo (vedi Astigiani n° 3).
Da mesi per mangiare bisognava rivolgersi alla borsa nera
C’erano serie difficoltà di approvvigionamento alimentare. Il sistema delle tessere annonarie si era incagliato. Dall’inizio della guerra la carne era stata razionata e ne spettavano 250 grammi a testa per settimana, ma era poi di fatto diventata introvabile, se non alla borsa nera che regnava su tutto, creando un flusso intenso di scambi clandestini tra campagne e città. Preziosissimo anche l’olio di oliva che era stato sostituito da quello di noci o di nocciole e dal lardo.
L’8 aprile, a Montechiaro, scambio di grano e viveri tra partigiani e funzionari del governo fascista
Il caffè era un lusso introvabile, ci si accontentava dei surrogati a base di cicoria. La legna da ardere costava ufficialmente 61 lire al quintale, ma anche questa era pressoché irreperibile a tale prezzo. Il pane era venduto a 25-30 lire al chilo e quello bianco era da ricchi, lo zucchero era concesso soltanto a chi aveva bambini al di sotto dei tre anni. In più, oltre agli abitanti, bisognava fare i conti col numero degli sfollati, ad Asti calcolati in circa 6000 unità, provenienti soprattutto da Torino e sistemati in varie strutture a cominciare dalla ex caserma dei bersaglieri del rione San Rocco. Le fabbriche cittadine lavoravano, sia pure con orario ridotto, e la loro produzione era in gran parte destinata a fini bellici e requisita dai tedeschi. All’inizio della Repubblica di Salò, erano state istituite le mense aziendali, ma anche una trattenuta sulle buste paga detta «pro mitra», per finanziare il riarmo di quelli che l’astigiano Umberto Calosso dai microfoni di Radio Londra aveva definito per primo col termine di “repubblichini”. Non mancarono tentativi per far giungere un po’ di cibo in città e altri scambi di generi alimentari e non mancarono contatti, spesso favoriti dalla mediazione dei parroci e del vescovo mons. Rossi, tra le autorità del governo fascista e i comandanti partigiani le cui formazioni controllavano aree crescenti del territorio. L’8 aprile a Montechiaro stazione ci fu un incontro tra i comandanti di una brigata partigiana GL, la Brigata Superga, e alcuni funzionari della Sepral (la sigla indica la sezione provinciale dell’alimentazione, costituita nel 1939 come servizio di approvvigionamento nazionale in periodo di guerra alle dipendenze del Ministero dell’Agricoltura) che cercavano di ottenere un invio di grano e farine in città. I partigiani si impegnarono a far pervenire ad Asti dai paesi sotto il loro controllo 3000 quintali di grano, in cambio di altri generi alimentari destinati alla popolazione contadina. Tra i tanti casi, si segnala particolarmente il modo di fare sbrigativo di quel singolare personaggio che fu Tek-Tek, Giovanni Acuto, comandante di una formazione autonoma attiva a Grana e nei paesi vicini: in una testimonianza di uno dei suoi uomini, Firmino Rota, leggiamo: «Tek-Tek fece ai contadini questo discorso: voi non portate il grano all’ammasso perché ci siamo noi, ebbene ora consegnate un quintale ogni dieci al fornaio, il quale darà il pane ai partigiani e agli sfollati […]. C’è stato un proprietario che ha detto che lui il suo grano piuttosto lo dava al maiale, e il Tek Tek, senza pensarci un minuto, ha detto a me e a due altri, in dialetto: “Anlora ‘ndeje a piè ‘l crin”. E siamo andati».
Il CLN decide l’occupazione della città e assegna gli incarichi di governo locale
Che l’attacco finale da parte partigiana non potesse tardare era una sensazione diffusa, confermata dal comparire sui muri di Asti, di Canelli e di Nizza di manifesti, a firma del CLN (Comitato di Liberazione Nazionale) provinciale, che incitavano la popolazione a tenersi pronta all’insurrezione e sollecitavano i fascisti a consegnare le armi e a lasciare la città. Non mancarono episodi violenti e morti ai posti di blocco eretti alle entrate in Asti, soprattutto quello al fondo di corso Savona. Il CLN astigiano era composto da rappresentanti designati da tutte le forze politiche fino ad allora clandestine: per il Partito d’Azione fu nominato Giovanni Cardello, medico oculista, per il Pci Felice Platone, poi sostituito da Luciano Amisano e anche per un breve periodo da Benvenuto Santus, fino al suo ritorno tra le forze combattenti; Pietro Rasero, impresario edile, rappresentava il Psi (venne poi sostituito da Luigi Prigione, operaio), il professor Giovanni Fia la Dc e Gilberto Barbero, medico, subentrato al giudice Ricca Barberis, era l’uomo del Pli, il partito liberale. A Barbero fu assegnata la presidenza del comitato. Tra le sedi dei loro incontri vi era uno dei luoghi simbolo dell’antifascismo astigiano, la trattoria “Macallé” (ne era proprietario Flavio Tosetti, che dopo la liberazione sarà capo di gabinetto del prefetto Giacchero, vedi scheda a pag. 16), ma anche, qualche volta, la sacrestia della Cattedrale. Ricorda in una sua testimonianza Giovanni Cardello che proprio la vigilia della Liberazione la polizia repubblichina individuò nella sacrestia del duomo il luogo dell’imminente incontro del CLN, ma non fece in tempo ad arrestare i partecipanti perché per i fascisti giunse l’ordine di abbandonare la città. Ricorda ancora Cardello: «Pervenivano anche somme di denaro per finanziare la Resistenza: passarono ad esempio per le mie mani 500.000 lire (di allora!) offerte dai fratelli Michele e Marte Ercole, proprietari della omonima Ferriera […]. Indirettamente seppi pure che circa un milione era stato offerto del comm. Griffa, della WayAssauto, e circa la stessa cifra dai fratelli Maina, proprietari della omonima industria». Vista la situazione, la sera del 24 il CLN decise di far entrare le formazioni partigiane in Asti.
Si trattava di due divisioni “Garibaldi”, l’Ottava e la Nona, con a capo rispettivamente Gatto (Battista Reggio) e Primo (Giovanni Rocca), e riunite in un unico raggruppamento al comando di Ulisse (Davide Lajolo); ne faceva parte la 45° brigata «Ateo Garemi», una delle più note formazioni partigiane locali, al comando di Flavio (Mario Aluffo) e Achille (Giuseppe Marletto); poi il battaglione “Cartello” della divisione Matteotti “Renzo Cattaneo”, la brigata “Rocca d’Arazzo”, comandata da Marini (Amelio Novello), facente parte della II divisione autonoma “Langhe”, due brigate (la “San Damiano” e la “Alba”) della VI divisione autonoma “Asti”, reparti della decima divisione GL e del gruppo celere “Aldo Brosio”. Altre formazioni solitamente attive nell’Astigiano furono invece dirottate all’attacco di Torino; tra queste una brigata della divisione Matteotti “Italo Rossi”, con a capo Pietro Beccuti, futuro sindaco di Calliano e poi vicepresidente della Provincia, la VII divisione autonoma “Monferrato”, la IX GL e il Gruppo Mobile Operativo; la squadra del Tek-Tek, che agiva dalle parti di Grana e Vignale, prese parte alla liberazione di Casale Monferrato. Gli uomini della VI divisione autonoma entrarono in Asti la sera del 24, verso le 21, con due colonne, una dalla parte del cimitero, l’altra dalla stazione; i Matteotti verso le 22 superarono con poche difficoltà il posto di blocco di corso Torino e penetrarono in centro lungo corso Alfieri; i Garibaldini giunsero in Asti da corso Savona. A mezzanotte i partigiani erano già nel municipio di piazza San Secondo e avevano occupato la prefettura. Si volevano evitare disordini e garantire l’ordine pubblico.
Il diario del segretario comunale Nosenzo racconta la fuga dei tedeschi
La città era ormai del tutto sgombra. Gli ultimi tedeschi avevano lasciato Asti nel pomeriggio alla volta di Milano. Lo conferma, in un documento quanto mai importante per seguire le vicende di quei giorni, l’allora segretario comunale di Asti, Alberto Nosenzo, in un suo diario conservato nell’Archivio Storico del Comune. Scrive Nosenzo: «In poche ore le caserme si svuotavano; autocarri ed ogni mezzo di trasporto erano requisiti per i militari e le loro famiglie che sloggiavano […] I tedeschi erano i primi a lasciare la città, quindi seguivano i repubblicani. Un’ala dell’Ospizio Umberto I, occupata dalla Guardia Nazionale Repubblicana, veniva minata e la carica esplodeva due ore circa dopo la partenza della G.N.R., danneggiando in parte l’edificio. Anche qualche reparto della Fonderia Maina era minato e riportava danni». Non mancarono neanche i furti: dalla ditta Gerbi furono portate via non poche biciclette, utili anche queste per la fuga, e furono svaligiate l’oreficeria Cena di via Cavour e l’orologeria Valenzano di corso Alfieri. I fascisti, che ancora la sera prima avevano fucilato al ponte di Valmanera quattro partigiani prelevati dalle carceri cittadine, fuggirono nella notte, portandosi dietro alcuni ostaggi. A proposito leggiamo ancora nel diario di Nosenzo: «Le colonne dei fascisti si facevano precedere da parecchi ostaggi prelevati nelle carceri. Tra questi erano l’avv. Pazzi, Pretore del Tribunale, il rag. Martinetti, Direttore del Consorzio Trebbiatori e due donne». La colonna in fuga venne attaccata nella notte dai garibaldini della 45° brigata “Garemi” e dal G.M.O. “Aldo Brosio” nei pressi di Quarto, al luogo detto “passo della morte”, dove il 17 marzo precedente erano stati uccisi sette partigiani. Per non mettere a rischio la vita degli ostaggi l’attacco fu contro la parte centrale del convoglio, e i prigionieri riuscirono a mettersi in salvo. Il giorno dopo varie formazioni, tanto garibaldine quanto autonome e Matteotti, furono dirottate alla volta di Torino o di Alessandria dove la situazione era ancora tesa. Liberata Asti, era indispensabile dar vita il più presto possibile a una prima forma di organizzazione democratica. Quindi, nella stessa mattinata del 25 aprile, mentre i partigiani consolidavano le loro postazioni e la città si riempiva di bandiere tricolori, il CLN procedette all’assegnazione delle cariche politiche, sulla base di quanto già concordato nei giorni precedenti. Prefetto venne nominato l’ingegnere Enzo Giacchero, con due viceprefetti, Guglielmo Borgoglio, Pd’a, e Domenico Berruti, Pci (curiosamente entrambi erano commercianti di stoffa); presidente della Provincia fu incaricato Giovanni Battista Torta, avvocato socialista, vicepresidente Francesco Paniati; primo questore fu l’avvocato Giacomo Pastorino, vicequestore Vittorio Rainero. Alla carica di provveditore agli studi fu designato Francesco Bellero, capo di stato maggiore di una formazione autonoma partigiana col nome di battaglia di Gris. Primo sindaco di Asti fu l’avvocato Felice Platone, Pci, vicesindaco Severo Alocco, Psi, commissario alla Cassa di Risparmio Dario Botta, ragioniere, per il Pli. Il “governo” astigiano del CLN rimase in carica, sempre sotto la presidenza di Gilberto Barbero, anche dopo l’arrivo degli Alleati e sino alla caduta del governo Parri, il 10 dicembre di quello stesso anno. La prima delibera del Consiglio Comunale di Asti fu il reintegro al posto di ufficiale sanitario del dottor Norberto Saracco, allontanato da tale carica dopo l’8 settembre, per le sue manifestazioni antifasciste del 25 luglio. In vari comuni della provincia l’incarico di sindaco fu affidato agli stessi capi partigiani attivi sul territorio: il comandante garibaldino Rocca a Canelli, Pietro Beccuti a Calliano, l’avvocato Bronda, già membro della Giunta della Repubblica Partigiana dell’Alto Monferrato, a Nizza.
Il tribunale militare straordinario decretò 24 condanne a morte
Il 25 aprile fu anche istituito il tribunale militare straordinario di guerra; dal giorno successivo e fino al 3 maggio il tribunale giudicò 55 fascisti catturati in quei giorni e imputati dei reati più gravi, decretando 24 condanne a morte, 17 delle quali eseguite. Cinque dei fucilati erano astigiani. Va segnalata anche la ripresa dei giornali locali. L’unico a uscire senza interruzioni era stato il diocesano Gazzetta d’Asti, a settembre ci fu il ritorno della storica testata de Il Cittadino, dopo che il settimanale era stato in epoca fascista ribattezzato prima La Provincia di Asti e poi, ai tempi di Salò, Asti repubblicana. Tornò a essere stampato anche il foglio socialista Il Galletto e videro la luce Il Popolo Astigiano, organo della Democrazia Cristiana, Il Lavoro, di sinistra, L’Eco del Monferrato, La Voce socialista, La Voce del Contadino. Erano di poche pagine, vista la carenza di carta, e la vendita era affidata agli strilloni. Gli Alleati entrarono in Asti il 30 aprile, e trovarono in città, per quanto possibile, gli uffici pubblici già efficienti. Scrive nel suo diario il segretario comunale Nosenzo alla data del 30 aprile: «Stamane, verso le ore 10, in mezzo al tripudio di popolo e ad una selva di bandiere sventolanti, sono entrati in Asti i primi reparti di truppe americane nonché ufficiali facenti parte della missione inglese destinata alla nostra provincia. La missione inglese è costituita dal maggiore Leach e dal capitano Powell; le truppe americane entrate in città sono al comando del capitano Aull e del capitano Crowder. Ufficiali e truppe, issati sopra potenti carri armati, sono stati salutati al loro ingresso in città da due ali di popolo con grida festose di viva l’Italia, viva i Liberatori, viva i Patrioti Italiani. La Missione Alleata inglese ed i Comandanti delle truppe americane sono stati ricevuti ufficialmente in Prefettura dall’eccellenza il Prefetto, presenti tutte le altre Autorità cittadine già in carica e i membri del Comitato di Liberazione». Per concludere riferiamo di un episodio accaduto pochi giorni dopo la liberazione, il 30 aprile, e testimoniato da una fotografia conservata nel circolo del comune di Scurzolengo: l’immagine mostra i tre carri carichi di cibarie che dal paese vennero mandati ad Asti, con destinazione il Consorzio agricolo di piazza Alfieri, in segno di solidarietà con la popolazione della città che durante la guerra aveva sofferto la fame più ancora degli abitanti delle campagne. Racconta un protagonista di quella giornata: «Siamo venuti ad Asti in tanti; c’era anche la nostra banda musicale di quaranta elementi. Abbiamo sfilato per corso Alfieri tra gli applausi della gente e lo sventolare delle bandiere. Eravamo tanto entusiasti che soffiavamo nei nostri strumenti a tutto volume, al punto che il nostro direttore ci disse “Suoniamo più piano che altrimenti facciamo cadere giù i palazzi”. Fu davvero una giornata indimenticabile».
Per saperne di più
– P. Maioglio, A. Gamba, Il movimento partigiano in provincia di Asti, 1985, edito dall’Amministrazione Provinciale.
– A. Gamba, Partigiani a Scurzolengo, 2003, edito a cura del Comune di Scurzolengo.
– P. Beccuti, Calliano e la Resistenza, s.d., edito a cura del Comune di Calliano.
– A. Argenta, Asti 1940-1945: una città in guerra. I luoghi della memoria, ISRAT, 1996.
– M. Renosio, Colline partigiane; resistenza e comunità contadina nell’astigiano, ISRAT, 1994.
– AA.VV., Contadini e partigiani, ISRAT, 1984.
– L. Lajolo, Felice Platone, il sindaco della Liberazione, ISRAT, 2014.
– L. Lajolo, I ribelli di Santa Libera,ED. Gruppo Abele, 1995.
– W. Pickering, A. Hart, I banditi di Cisterna, ISRAT, 2006.
– L. Carimando, M. Renosio, La guerra tra le case, L’Arciere, Cuneo, 1988.
TESTIMONI “IL MIO 25 APRILE 1945”
LA GUERRA È FINITA!
MARIA CAPELLO, 79 anni, casalinga, all’epoca abitava a Cascina Bricco Capello, fra Capriglio e Mondonio.
Ero una bambina di nemmeno dieci anni. Vivevamo da molti mesi con i partigiani in casa: dormivano nella stalla e usavano la nostra sala per le riunioni e per pianificare le loro incursioni. Quando partivano da casa non ci rivelavano mai dove andavano, ma quando tornavano spesso ci raccontavano cosa avevano fatto. Nei giorni precedenti il 25 aprile avevamo capito che qualcosa si stava smuovendo, perché le staffette arrivavano a dare ordini che mettevano in agitazione tutti i componenti del gruppo. Il giorno prima sono partiti, senza dirci nulla, e il 25 aprile non sono tornati in cascina. Li abbiamo rivisti solo qualche giorno dopo, quando ancora neppure era arrivata la notizia della Liberazione. A darci l’idea del momento storico straordinario fu un corteo di camionette e camion, due o tre giorni dopo il 25 aprile, che passarono nella strada della valle: sopra c’erano anche i partigiani che avevano vissuto da noi, raggianti e felici che sventolavano le bandiere e gridavano a tutti “La guerra è finita, la guerra è finita!”. Solo in quel momento capimmo cosa fosse successo davvero.
ANDAI A DORMIRE IN CASERMA
LUIGI GARRONE, giornalista, 90 anni. Partigiano del Gruppo “Leo” – II Divisione autonoma “Langhe” – Nome di battaglia “Lo sfregiato”.
Insieme a Gigi Monticone, avevo il compito principale di tenere sotto controllo, dalla stazione di San Marzanotto Rivi, tutto ciò che avveniva al di qua e al di là del Tanaro. Informavamo tutti i comandi di zona ed ogni sera comunicavamo la parola d’ordine per tutti coloro che circolavano nell’area che va da Rocca d’Arazzo a Montegrosso. La notte tra il 24 ed il 25 aprile, scesi con la mia bicicletta nella città ormai liberata dai nazifascisti e andai a dormire in Caserma davanti alla quale fece ancora in tempo a scoppiare una bomba forse lanciata da “Pippo”, l’aereo alleato che era diventato una specie di incubo per la popolazione civile. È ancora viva la sensazione di gioia e di gran confusione che regnava in città. Si capiva che stava cominciando, seppur tra mille difficoltà, una stagione in cui saremmo stati liberi di muoverci e di esprimerci.
DA COSTIGLIOLE AD ASTI, MA CI RUBARONO LE BICICLETTE
MARISA OMBRA, classe 1925, staffetta nelle Brigate partigiane garibaldine e organizzatrice dei Gruppi di Difesa della donna, Vicepresidente nazionale dell’ANPI
Le ultime settimane di guerra le trascorsi, insieme a mamma e Pini, in una delle quattro torri del Castello di Costigliole, in un locale disadorno e abitato da topi e scarafaggi, ma comunque in un paese che presentava finalmente una vera parvenza di vita sociale. Una sera, all’improvviso, ci venne detto che l’indomani saremmo scese in città destinazione Asti. Era il 24 aprile. La liberazione era arrivata. Sono tornata molte volte sui sentimenti che si mescolarono confusamente a quella notizia: grande gioia, certo, era finita la guerra. Ma anche un presagio di nostalgia per quel che stava finendo, quasi una tristezza per la normalizzazione che ci attendeva. Per noi ragazze era finita la trasgressione. Ad Asti arrivammo su un camioncino sul quale avevamo caricato le biciclette in dotazione e gli scarponi di cuoio fatti fare dai partigiani ad un calzolaio delle Langhe. Quando scendemmo dal camioncino, le une e gli altri erano spariti. Di quel giorno – il corteo nelle vie di Asti, la folla acclamante, la gioia di tutti, i battimani e le esclamazioni di entusiasmo – ricordo soprattutto la malinconia di quel furto. Un brusco richiamo alla realtà: si tornava, appunto, alla normalità.
A TORINO PER CONQUISTARE LA CASERMA DI VIA ASTI
PIETRO BECCUTI, insegnante, classe 1923, Comandante della IX (poi II) Brigata Matteotti. Nome di battaglia “Pietro”.
La notizia della fuga dei nazifascisti da Asti giunse a Calliano il 25 aprile, ma il compito della mia Brigata non era finito. Il comando unificato aveva infatti deciso che avremmo dovuto partecipare alla liberazione di Torino insieme alle altre Brigate Matteotti della Divisione “Italo Rossi” ed alla Divisione autonoma Monferrato. Partimmo con tutti i mezzi disponibili e ci dirigemmo verso Torino, ma la strada era ancora piena di pericoli. A Cimena costringemmo alla resa, dopo averli circondati, 150 tedeschi e finalmente nella notte arrivammo a Torino. Il nostro compito era quello di conquistare la tristemente nota Caserma di via Asti, dove avvenivano gli interrogatori e le torture. Furono combattimenti durissimi fino al 27 aprile quando riuscimmo, dopo un vero e proprio assedio, ad espugnare la caserma dove si erano asserragliate le Brigate nere abbandonate dai tedeschi. A Calliano si fece festa per parecchi giorni con pranzi, cene, serate danzanti ed i partigiani furono portati in trionfo. Il 1° maggio si formò spontaneamente un gran corteo che sfilò per le vie del paese per festeggiare la Liberazione. Per la prima volta si poteva respirare quell’aria di libertà per la quale tanti avevano sofferto e molti erano morti.
MI RICORDAI DI REMO DOVANO CHE CI AVEVA SALVATI CON IL SILENZIO
PIERLUIGI MIROGLIO, impiegato, classe 1926. Componente delle SAP di Asti.
Quel giorno eravamo rimasti in pochi delle SAP, non più di 5 o 6. C’era una grande aria di festa in città ed anch’io fui coinvolto in quest’atmosfera in cui si respirava aria di libertà e non ci si doveva più nascondere da brigatisti e tedeschi. Ricordo che in quei giorni, quando si celebrò la Liberazione con un grande corteo ed i discorsi dal balcone del Municipio, il mio pensiero andò più volte, con grande commozione ed estrema riconoscenza, a Remo Dovano, il compagno della SAP che sacrificando la sua, aveva salvato, un anno prima, la vita a me e a due miei altri compagni.
NON SI SAPEVA SE RIDERE O PIANGERE
Dal diario di CLEMENTINA MARTINO FUNGO (un centinaio di lettere scritte al figlio Sergio, prigioniero in Germania), classe 1890, casalinga, abitante in strada Quaglie 25. La lettera è datata
4 maggio ’45.
Alla mattina del giorno 25 quando ci siamo alzati si sentiva da tutte le parti delle strade che entravano in città grandi canti in massa ed ecco che erano i Patrioti che entravano cantando bandiera rossa… Della gran gioia non si sapeva più cosa dire, si rideva e si piangeva. Saranno i nostri liberatori? Sarà finita questa infernale guerra? È stata una festa indescrivibile… In serata (quella del 24 n.d.r.) sono scomparsi tutti i Muti ed i fascisti… Appena furono entrati i patrioti, aiutati dalle donne che collaboravano con loro e che sapevano mettere le mani addosso alle persone che si erano guadagnate la fine, li presero ad una ad una sia donne che uomini e li fecero girare con loro in corteo a pugni e calci…
UNA RAFFICA DI MITRA CONTRO MIA MADRE INCINTA
ALDO PIA, farmacista, Presidente della Cassa di Risparmio di Asti. Nato il 16 Ottobre 1945.
Fino a quando non sono stato, come si diceva un tempo, in grado di capire le cose del mondo, mi sono chiesto perché mio papà, Mario, per tutti gli astigiani “Bambi”, arrivasse festosamente a casa ogni 24 aprile con fiori e dolci. Una piccola festa di famiglia che per me restò a lungo un vero e proprio mistero. I miei, papà, mamma Annie e mio fratello Dino che all’epoca aveva poco più di due anni, abitavano all’ultimo piano di un bel palazzo, tuttora esistente, di via Pietro Micca. Nel pomeriggio del 24 aprile di settant’anni fa, la nostra donna di servizio e mia mamma (che mi avrebbe dato alla luce nel successivo mese di ottobre) e che teneva in braccio mio fratello, si affacciarono dal balcone, incuriosite dal gran baccano che i reparti delle Brigate nere facevano passando in via Pietro Micca per uscire dalla città in procinto di essere occupata dai partigiani. Uno di quegli sbandati si accorse di mia madre al balcone e, con il delinquenziale atteggiamento di chi non aveva più nulla da perdere, lasciò partire una raffica di mitra. Fortuna volle che le pallottole finissero quasi tutte contro il travertino del balcone (ancora se ne vedono i segni n.d.r.) e che, allo stesso tempo, i miei si ritirassero in tempo all’interno del balcone. Non ero ancora nato, ma questo fu indubbiamente il primo e decisivo 25 aprile della mia vita.
Io, figlia del comandante Ulisse che usò il mitra è ci armò di poesia
Laurana Lajolo
Mio padre mantenne sempre un legame intenso con i suoi partigiani
Per me la Resistenza è stata pane quotidiano per molti anni. Il mio primo 25 aprile, quello del 1945, è stato il giorno in cui io e mia madre siamo tornate a Vinchio dalla nonna Rosalia dopo sei mesi che avevamo vissuto nascoste. Quel giorno mio padre l’ho visto solo di sfuggita perché, dopo aver liberato con i suoi partigiani Nizza Monferrato il 23, è andato a Asti il 24 e poi a Torino. Erano stati mesi molto duri per mia madre, che aveva dovuto proteggermi da una possibile cattura da parte dei nazisti e dei fascisti, come indicava un telegramma del comando tedesco di Genova. Rosetta aveva lasciato la sua giovinezza tra gli spari, scappando la mattina del 2 dicembre 1944 con me, che avevo due anni, avvolta in una copertina azzurra sul seggiolino della bicicletta, alla ricerca di un rifugio, mentre i nazisti e i fascisti sferravano il più grande rastrellamento della zona per porre fine alla zona libera del Monferrato. Mia madre, avvertito il pericolo, aveva deciso di portarmi in salvo in una cascina di lontani parenti, in cui non era mai stata. Sapeva che doveva arrivare alla frazione Scurrone di Agliano dalla famiglia Caracciolo. In mezzo alla neve (è stato quello un inverno freddissimo) con il fango che inceppava le ruote della bicicletta, ha impiegato due terribili giorni per trovare la cascina. Quella famiglia contadina ci ha accolto in modo affettuoso e generoso e io ricordo ancora con gioia quanto era buona la polenta con l’uovo fritto. Mio padre è riuscito a venirci a trovare una notte dopo circa un mese dal rastrellamento che lo aveva imbucato in una tana vicino a Noche di Vinchio insieme a dei partigiani e alcuni giovani del paese renitenti alla leva. La famiglia contadina, che ha aiutato tutti a nascondersi, li ha salvati non rivelando il nascondiglio neppure quando è stata colpita dalle botte dei fascisti. La guerra “privata” di mia madre è continuata. Un giorno sono arrivati i fascisti nella cascina di Agliano. Per ogni evenienza era stata preparata una tana per noi sotto la stalla delle capre. Ci siamo calate nella fossa e ci siamo rimaste tre ore. Mia madre, rannicchiata su un trapuntino rosso, mi ipnotizzava con gli occhi perché non piangessi e non parlassi. Ogni tanto mi sussurrava: «Fuori ci sono gli uomini cattivi». I fascisti hanno fatto un’attenta perquisizione nelle stanze, soprattutto nella dispensa rubando le provviste, e sono arrivati sopra di noi. Ci siamo immobilizzate per lunghi minuti. Mia madre temeva che persino il respiro ci potesse tradire. Zia Teresa è stata bravissima nel tenere a bada i militi, ma il giorno dopo mia madre mi ha portata via. Siamo andate dagli zii Triberti nel mulino di Castagnole Lanze e lì siamo rimaste fino alla fine della guerra. Poi finalmente la pace. Mio padre è stato subito chiamato a Torino alla redazione del quotidiano del partito comunista l’Unità e ha sostituito il mitra con la penna, firmando i suoi articoli con il nome di battaglia Ulisse, che ha mantenuto nel suo lavoro di giornalista. Partigiani lo si è per sempre. Io stessa mi presentavo con orgoglio come la figlia di Ulisse. Incontravo ogni giorno dei partigiani a casa nostra, nella redazione del giornale, in fabbrica, nelle riunioni e nelle occasioni pubbliche dove seguivo mio padre. Si chiamavano tra loro con il nome di battaglia, si presentavano come appartenenti a una determinata brigata indicando il loro comandante. Non pensavano che tutto fosse finito con il 25 aprile. Erano ancora pronti se necessario. Giovani che avevano combattuto con mio padre venivano a presentargli la fidanzata per avere il suo assenso oltre a quello dei genitori o a chiedere consigli per la loro vita e il loro lavoro. Avevano iniziato la lotta partigiana ragazzi di vent’anni e, sotto la sua guida, erano diventati partigiani. C’era un rapporto filiale: mio padre aveva circa dieci anni più di loro, un’esperienza militare precedente, li aveva guidati e protetti nei combattimenti, si era assunto la responsabilità della loro vita negli assalti.
Ho imparato a distinguere i morti dai caduti
Ho ascoltato tanti racconti di azioni di guerriglia, ma anche di episodi divertenti, ho imparato le canzoni che venivano cantate nelle sfilate. La prima canzone che ho sentito è stata Fischia il vento, la canzone dei partigiani garibaldini, a cui Nestore (Dionigi Massimelli) aveva aggiunto una strofa con riferimento alla Val Tiglione. I comizi erano un’occasione di incontro dei partigiani e di ricordo dei caduti. E mio padre ne faceva tanti. Era un oratore appassionato e appassionante e parlava sempre della Resistenza per dare coraggio a chi l’aveva fatta e al popolo comunista nei tempi duri della guerra fredda, quando si erano rapidamente conclusi i processi ai fascisti e si erano invece aperti i processi ai partigiani per fatti di guerra. Se un partigiano veniva accusato c’era una rete di solidarietà molto grande anche per la sua famiglia e si cercavano in ogni modo le prove per scagionarlo. In agosto venivano spesso nella casa di Vinchio Gatto, Nestore, Aramis, Enea e molti altri. Erano il mio libro vivente della Resistenza. Ciascuno di loro raccontava le fasi cruciali della lotta di liberazione a proprio modo, qualcuno con ricordi più circostanziati, altri attraverso le emozioni o battute.
Parlavano ancora con un dolore vivo delle sconfitte e dei compagni morti. Ma non usavano il termine morti, li chiamavano “caduti” come se un giorno o l’altro quei ragazzi “giovani per sempre” potessero rialzarsi e di nuovo marciare con loro. Non ne dimenticavano uno perché non fosse stata vana la loro morte. Collocarono cippi e lapidi nei luoghi dove erano stati uccisi e i monumenti divennero i segni tangibili del ricordo perenne, che doveva resistere come pietra o marmo quale impegno a continuare la lotta in tempo di pace. Erano sentimenti veri, non retorica, e mantenevano il pathos dell’epopea resistenziale anche in un presente che deludeva le loro speranze. Mio padre ha scritto molto della sua esperienza partigiana, aiutandosi con i ricordi dei suoi compagni, perché per lui la Resistenza era stata la sua seconda vita dopo l’infatuazione fascista. Aveva trentadue anni e una figlia piccola, quando aveva deciso che doveva riscattare il suo passato e formare la banda partigiana di Vinchio con 19 ragazzi contadini, che lo avevano scelto come capo. Per lui la lotta di liberazione non era stata, come per i suoi partigiani, una scelta istintiva contro l’invasore, ma una maturazione politica e umana, un’assunzione di responsabilità, una presa di coscienza dolorosa. Con me parlava anche del suo passato e della sua rinascita. Non era un discorso facile, ma la spiegazione di quella esperienza controversa mi ha insegnato il valore della coscienza critica, della libertà e della coerenza morale.
Quel quaderno dalla copertina rossa
Me ne parlava anche con le poesie, che mi leggeva con la sua voce calda e profonda. Era convinto che la poesia, più che la prosa, rendesse gli stati d’animo, le ansie, i desideri, le aspirazioni di futuro. Lui stesso aveva scritto poesie durante le guerre in Spagna, Grecia, Albania, Jugoslavia per mantenere uno spirito umano nel mezzo del grande massacro. Nei momenti di sosta della guerriglia aveva composto liriche per un partigiano caduto o per esaltare un’azione e qualcuna l’aveva pubblicata sui giornali partigiani. Dopo la sua morte ricevetti da un partigiano emigrato in Argentina un album rosso. Sulle pagine erano incollati dei foglietti con alcune poesie di mio padre e due in particolare mi hanno commossa: una dedicata a mia madre del dicembre 1944 dopo il terribile rastrellamento con il titolo “Intesa di non morire” e l’altra del marzo 1945 dedicata alla “Mia bimba”. Con questi racconti, che parlavano di guerriglia ma soprattutto di speranza di futuro, mi sono appassionata a tante altre Resistenze, a quella contro la Spagna franchista, alla rivoluzione algerina, alle lotte dei neri d’America, al Vietnam, alla Palestina. Io sono una donna di carta e non d’arme e quindi quelle Resistenze le ho seguite sui libri che raccontavano avvenimenti e personaggi. Ho studiato quella del Monferrato dirigendo l’Istituto della resistenza della provincia di Asti con l’intenzione di valutarne sviluppi e regressioni negli anni successivi alla Liberazione. Ho tenuto molto a lungo appeso nel mio studio il bellissimo manifesto della liberazione del Portogallo dalla dittatura nel 1974, con la bambina che mette un garofano rosso in un fucile. Come convinta pacifista quel manifesto è la mia icona più significativa del fare resistenza. Sul suo diario partigiano, scritto a caldo nel 1945, mio padre ha apposto questa dedica “A Laurana che ha imparato a combattere da piccola” e “resistere” è ancora il mio motto per vivere nel presente.
All’osteria di mio nonno l’antifascismo era servito ogni giorno
Flavio Tosetti
Porto il suo nome e il suo cognome. Che cosa abbia fatto mio nonno il 25 aprile del 1945 non posso affermarlo con certezza. Ma credo che abbia trascorso buona parte della giornata a Palazzo Ottolenghi, sede della Prefettura. Lì dalla notte precedente si erano insediati i componenti del CLN provinciale per nominare i responsabili del Comando di piazza, la prima giunta antifascista. Mio nonno ebbe il ruolo di Vice Prefetto politico con funzioni di Capo Gabinetto della Prefettura di Asti. La magnifica foto che lo ritrae mentre sfila davanti a San Secondo insieme agli altri componenti del Comitato di Liberazione Nazionale è stata scattata quasi sicuramente il 1° maggio, quando, in una situazione finalmente pacificata, il presidente del CLN provinciale Gilberto Barbero, il prefetto Remo Giacchero, il sindaco Felice Platone e il comandante partigiano Tino Ombra tennero il primo comizio alla popolazione. Poi ci sono i ricordi di famiglia, secondo i quali il nonno in quei giorni di fine guerra si vide comparire davanti molti fascisti di sua conoscenza che lo imploravano di usare il prestigio di cui godeva all’interno della Resistenza per salvare loro la vita. E si dice che ne salvò parecchi. A volte capita di nascere con il destino segnato. Mio bisnonno Angelo, classe 1861, in età ormai avanzata fu schedato dal regime fascista come “anarchico sovversivo resosi irreperibile” e suo figlio Flavio ben presto ebbe la sua scheda segnaletica redatta dai funzionari della polizia politica “pericoloso, ammonito, arrestare in caso di disordini”. Mio nonno era nato ad Asti il 29 maggio del 1897. Nel 1916 fu chiamato alle armi e combatté nella Grande Guerra: era sergente nei bersaglieri. Già nel 1912 si era iscritto al Circolo Giovanile Socialista. Scelto non casualmente, come molti socialisti a quei tempi, il mestiere di tipografo, nel 1921 fondò la Cooperativa dei litografi di Asti. Ma nel ’22 cominciarono le violenze, gli arresti, le bastonature fasciste: si giunse fino alla parziale distruzione della litografia di corso Alfieri. Il nonno rimise in sesto la bottega artigiana e continuò il lavoro della stampa clandestina. Nell’aprile del 1926, come riporta la scheda della Prefettura di Alessandria datata 15 luglio 1931-IX° dell’era fascista, «spedì al noto Pietro Nenni in Milano 4000 opuscoli sovversivi del titolo “Il delitto Matteotti dopo la commedia di Chieti”». La scheda inizia con queste parole: «È un sovversivo che da vecchia data professa principi socialisti. Militò, in passato, nel partito socialista massimalista, e con l’avvento del Fascismo, anziché disarmare, divenne un accanito avversario del Regime, rafforzando i suoi principi». E si conclude così: «In considerazione della pericolosità dimostrata dal Tosetti che ha continuato ad essere tenace nemico del Regime ed ha puranco tentato di aiutare sovversivi arrestati, egli venne proposto per l’ammonizione. E questa Commissione Provinciale […] lo ha sottoposto ai vincoli del monito, quale elemento pericoloso per l’ordine nazionale». Una vita difficile. Spesso arrestato, in particolare in occasione delle visite del Duce in zona (mio papà raccontava sempre, e non ho mai capito davvero se scherzasse o dicesse sul serio, che una volta avevano “portato dentro” la famiglia al completo, compreso il cane), per Flavio era difficile gestire la litografia, che alla fine dovette cedere alla sorella.
Nel 1940 si inventò un nuovo mestiere, quello dell’oste: rilevò la proprietà del ristorante “Macallè”, in via Fontana, angolo via Leopardi. E qui inizia un’altra, favolosa storia. Secondo il quotidiano Sempre Avanti del 23 maggio 1946, che presenta con una scheda biografica la sua candidatura alla Costituente, «…nel 1943, in collaborazione con i compagni Carmagnola, Ogliaro ed altri preparò lo sciopero generale del marzo […] l’8 settembre formò il Primo Comitato di Liberazione Nazionale con i compagni Martorello, Amodeo, Passoni, Chiaramello, Savoia e Rasero. Nell’ottobre del ’43 fu arrestato e bastonato: liberato dal carcere nel dicembre formò le prime ventidue squadre partigiane e le dislocò in punti strategici della provincia di Asti, onde eseguire i primi atti di sabotaggio contro i nazifascisti». Numerose testimonianze attestano che molte riunioni del Comitato di Liberazione Nazionale si tenevano al Macallè. E questa è la Storia, quella delle fonti scritte. Poi c’è la storia, con la minuscola, quella dei ricordi di famiglia. Di mamma, moglie di Nanni, il figlio più giovane, e soprattutto della zia Tere, moglie del primogenito Angelo. Che racconta delle armi nascoste nella cantina del ristorante. C’erano le riunioni degli antifascisti spesso interrotte dall’arrivo dei tedeschi che, da buongustai, venivano a mangiare. Andavano matti per la polenta. In quei casi entrava in azione il sistema d’allarme: poiché la cantina si trovava esattamente sotto la sala d’ingresso, all’arrivo dei tedeschi un segnale convenuto, un rumore prodotto con la macchina del caffè, avvertiva i partigiani.
Il ritorno di Franz soldato della Wehrmacht che non voleva essere nazista
La storia più affascinante riguarda Franz. Un giovane soldato tedesco antinazista. Papà mi ha raccontato mille volte la sua storia. Franz odiava Hitler, si vergognava di quello che stavano facendo i tedeschi e cercò l’amicizia del nonno, di cui aveva in qualche modo intuito le idee e l’attività clandestina. Quando i tedeschi iniziarono la ritirata, andò da nonna Pina a chiedere dei vestiti: lei gli diede quelli di Angelo. Così Franz disertò, diventando protagonista di un suo particolare 8 settembre alla rovescia. Circa un anno dopo al Macallè a guerra finita arrivò un giovane biondo con i capelli un po’ lunghi e un forte accento tedesco. Disse: «Ma non mi riconoscete?». E poi c’è la vita al Macallè nel dopoguerra. Dove mio nonno Flavio Tosetti trascorre le sue serate insieme ai vecchi amici socialisti, nell’Italia democristiana che dubito potesse piacergli, mentre il suo amico Nenni entra nel primo governo di centrosinistra e dice di non aver trovato la stanza dei bottoni. Dove arriva la televisione e tutti si riuniscono per vedere Lascia o raddoppia, il Festival di Sanremo, i Mondiali. E si fa la vita dell’osteria: Scassa canta da tenore le arie d’opera, accompagnato alla chitarra da Mario “Beligambi”, così soprannominato perché la nonna era una ballerina di varietà. Ci sono Robotti, Prigione, il colonnello Sparvieri e tanti altri, che dal pomeriggio scivolano lentamente nella “merenda sinoira”: due acciughe, una fetta di salame, un pezzo di gorgonzola, mezzo litro di barbera, tanto per cominciare. E c’è Pietro Rasero, l’amico più caro. Quando il Macallè chiude nell’ottobre del 1965, pochi mesi prima della morte del nonno, avvenuta il 28 febbraio 1966, (quando io avevo quattro anni e di lui ricordo i salti che mi faceva fare sul frigo dei gelati) scrive un commosso articolo su La nuova provincia che si conclude con queste parole: «Nel ricordo di questo passato si sente il bisogno di ringraziare il vecchio Macallè quasi fosse un essere dotato di vita, un amico dei tempi più travagliati e delle ore liete dopo la tempesta. Ringrazieremo allora la famiglia di Flavio Tosetti per quanto ha fatto restando tanti anni a gestire il ristorante; per i sacrifici, le persecuzioni che ha sopportato». Grazie, anche da parte mia, nonno.
Le Schede