Dei 70 “crotin” della zona, molti nascosti dalla vegetazione, quelli di Mombarone sono rimasti a lungo abitazioni
Calpestare il fogliame secco rompe il silenzio che avvolge la vallata di Montiglietto, a poca distanza dall’abitato di Mombarone. Solo a piedi si può salire verso la cima della collina nella quale sono scavate le casegrotta, partendo dalla suggestiva fontana del Boglietto. Oggi sono sito di archeologia contadina, ma fino agli anni Trenta del Novecento furono un luogo abitato da una comunità che ha sfruttato la geologia del tufo per ricavare un riparo.
I “crotin” sono oltre 70, da qui a Cossombrato, e poi verso sud fino a Valmanera. Il numero esatto è impossibile da definire, la vegetazione o il crollo dei sedimenti ha nascosto l’imboccatura della maggior parte di essi. Molti erano adibiti a semplice ricovero degli attrezzi, o sfruttati come rifugio tra le vigne in caso di temporale. Rispetto a strutture simili diffuse altrove nell’Astigiano, la peculiarità delle casegrotta di Mombarone è quella di aver conservato più a lungo la funzione abitativa e, in alcuni casi, anche l’aspetto, con tanto di suppellettili e decorazioni interne che sono sopravvissute fino a noi.
Per lo più costituite da un singolo ambiente, non era raro che fossero organizzate in più stanze separate da muri in mattoni crudi, o addirittura da varchi scavati nel tufo che mettevano in comunicazione due grotte attigue. Se non fosse per la mancanza di finestre, probabilmente non si sarebbe notata la differenza con una normale modesta casa contadina: le tracce rimaste e la documentazione fotografica indicano che chi risiedeva qui poteva contare su armadi, nicchie per conservare stoviglie e alimenti, porte a vetro per isolare gli spazi. A conferma che gli abitanti delle casegrotta non fossero trogloditi, restano le tracce di alcuni motivi a fiori che ingentilivano la calce applicata alle pareti. Una profonda cisterna, perfettamente conservata, dimostra l’applicazione di metodi per il recupero delle acque piovane, utili anche per abbeverare il bestiame che a sua volta era riparato da una stalla ipogea, con tanto di mangiatoia scavata nella terra.
Ed è proprio nelle caratteristiche geologiche della terra la ragione del persistere di una civiltà contadina in queste grotte. A fare da soletta ai soffitti sono grandi lastre di arenaria, la sabbia del mare pliocenico che si è cementificata nel corso di milioni di anni (vedi Astigiani n.20, pagina 12). Un elemento strutturale impermeabile, solido, talvolta impreziosito da conchiglie fossili. La stabilità delle casegrotta si è mantenuta pressoché intatta, eppure questi crotin sono al tempo stesso fragili testimonianze che hanno subito i danni della vegetazione selvaggia, o peggio, di qualche incauto intervento dell’uomo.
L’ipotesi è che la distruzione di un antico villaggio abbia costretto la popolazione a insediarsi nelle grotte della zona
I pendii, oggi ricoperti da fitti boschi, erano parte di un paesaggio che fino all’immediato dopoguerra appariva molto diverso. I vigneti erano coltivati con passione, come quasi ovunque nell’Astigiano, e l’agricoltura costituiva l’occupazione principale delle famiglie locali. I contadini che non potevano permettersi una casa vera e propria, occupavano le casegrotta. Si trattava del resto di una consuetudine antica: come riporta la ricercatrice di storia locale Maria Grazia Cavallino, delle casegrotta si fa menzione per la prima volta nel Settecento. In un documento che raccoglie gli atti criminali del feudo di Settime e Mombarone del 1759, si cita il caso di una ragazza di diciotto anni trovata morta in uno stagno. L’indagine che si apre cerca di chiarire le cause del decesso e un gruppo di persone accorre al sito posto “nella regione detta Mondo Vermeglio”. Qui esaminano il cadavere, che si trova “in distanza un trabuco e mezzo da un tampone in cui soleva abitare detta figlia unitamente allo stesso Giacomo di lei fratello”. Il termine “tampone”, in uso a Settime per indicare le abitazioni scavate nella terra, sopravvive oggi in alcuni toponimi come Bricco Tampone, nei pressi di Serravalle.
La storia di Mombarone suggerisce però per le casegrotta un’origine ancora più tarda. A cavallo tra Duecento e Trecento scompare dalle mappe Montegletum, un insediamento probabilmente cresciuto intorno alla perduta chiesa di San Dalmazzo. L’ipotesi, suggestiva ma non verificabile, è che la distruzione del villaggio abbia costretto gli abitanti a riparare nelle numerose grotte che si aprivano sul fianco della collina. L’attuale Mombarone fu infatti edificato solo in seguito, probabilmente nel tardo Quattrocento.
Nel corso dei secoli, altri cenni confermano la consuetudine ad abitare i “crotin”, come si vede nelle mappe del Catasto Napoleonico conservate all’Archivio Storico di Asti. Tracciate in china e acquerello su tela, si distinguono le particelle che corrispondono al sedime attuale delle casegrotta. Scorrendo l’elenco dei proprietari dei mappali, emerge il nome di un certo Giuseppe Martinengo, omonimo – e forse antenato – dell’ultima persona nota per aver vissuto qui. Si trattava di Gisep ad Carie, dal nome della regione dove si trovano i crotin: di lui si sa che aveva lavorato a lungo come scaricatore al porto di Genova. Lasciò le casegrotta negli anni Trenta, quando finalmente poté permettersi un tetto sopra la testa. Il ricordo di questa figura era ancora diffusa fino a qualche anno fa tra gli anziani di Mombarone, e ne esiste un ritratto fotografico che lo mostra ormai anziano, appoggiato al suo bastone.
I ricordi di Carlo Franco, a otto anni costretto ad abbandonare la casa di famiglia
Ma risale alla seconda metà dell’Ottocento una straordinaria vicenda umana che ci consegna il senso di una vita nelle casegrotta. È quella di Carlo Franco, primogenito di una modestissima famiglia di Mombarone. Ad appena otto anni, un parente raggira i genitori di Carlo e li costringe a cedere la casa di famiglia. Così, ormai adulto, annota nei suoi ricordi: “Non avendo mezzi per pagare l’affitto di una casa […] abbiamo dovuto portarci in quei crotin là in quel bricco […] costretti a fare molta economia per risparmiare qualche cosa colla speranza di venire un giorno in stato di farsi fare una casetta da poter abbandonare quell’abitazione umida, senza comodità di strada”.
Anche in un altro passaggio sottolinea come le casegrotta fossero particolarmente difficili da raggiungere: “La fatica che ho dovuto fare in un posto senza strade… solo sentieri… portare letame e tutte le mercanzie tutto in spalla o con la carretta su un’altra collina […] Trascinare il concime dalla cima al fondo con una carretta e poi trascinarla su poiché non avevamo né strade da cima e tantomeno dal fondo; portare acqua, portare legna e tutto quanto sempre in spalla […] Ogni giorno, alla sera, trainare un involto di erba secca dalla vigna Sor Milo”.
Se mai l’idea di una vita sottoterra può essere apparsa suggestiva, le memorie di Carlo Franco riportano alla realtà di una vita dura e disagevole. Solo dopo anni di sacrifici la famiglia riuscì a tornare in una casa degna di questo nome. Ma Carlin non si fermò qui: dotato di non comune senso estetico e pratico, diventò pioniere della fotografia nell’Astigiano a fianco dell’amico Secondo Pia, anche lui originario di Mombarone, sindaco di Asti ma soprattutto celebre per essere stato il primo ad aver fotografato la Sindone (vedi Astigiani n.12, pagina 74).
Carlo Franco in seguito riacquistò la cascina paterna e la trasformò in un laboratorio fotografico, frequentata da una clientela di ogni ceto, desiderosa di farsi immortalare per la prima volta. Ancora oggi la famiglia Franco abita qui. I fratelli Carlo e Mario, come il padre Giuseppe prima di loro, conservano l’archivio del nonno. Allo stesso tempo sono proprietari, custodi e promotori dell’area delle casegrotta. Un ruolo che meglio di chiunque altro li rende testimoni delle recenti trasformazioni.
Dopo il definitivo abbandono negli anni Trenta, i crotin di Mombarone sono sopravvissuti come luogo nella memoria popolare, fungendo per lo più da ricovero attrezzi fino alla fine del secolo scorso. All’alba del nuovo millennio, l’iniziativa congiunta della famiglia Franco e dell’associazione Quattro Passi a Nord Ovest ha portato al recupero del complesso ipogeo di collina Montiglietto. Una prima camminata collettiva nel maggio 2000 è stato il momento che ha ufficializzato il ritrovato interesse per i crotin; l’anno successivo, un bando provinciale ha messo a disposizione i fondi per realizzare un percorso di visita e la produzione di materiale informativo. Nel 2003 Claudio Aquilini e Don Vittorio Croce lanciarono un’idea che avrebbe avuto fortuna: quale migliore utilizzo delle casegrotta se non la rappresentazione della Natività? Da allora il presepe vivente è un evento che per una notte rianima la collina con falò, canti sacri e antichi mestieri. Attrezzi e macchinari contadini restano da un anno all’altro tra le pareti di tufo, non senza rischi per la loro conservazione.
L’area di Mombarone ora è tutelata dal Comune
Lentamente marciscono i legni di antiche trebbiatrici, mentre il ferro arrugginisce e sbiadiscono gli interventi degli uomini che avevano trasformato semplici crotin in accoglienti abitazioni.
Il ritrovato interesse di cui avevano goduto le casegrotta di Mombarone sembra essersi perso, insieme alle rassicurazioni degli enti pubblici che in più di un’occasione, sottolineano Carlo e Mario Franco, avevano promesso interventi di valorizzazione.
Un primo passo in questo senso è stato compiuto dal Comune di Asti nella primavera di quest’anno, con la “Dichiarazione di notevole interesse pubblico del paesaggio dell’area delle casegrotta di Mombarone”. L’atto offre una tutela in più al sito e soprattutto rappresenta una dichiarazione di intenti spendibile quando l’ente cercherà di attrarre fondi per un nuovo recupero.
Fino ad allora, non resta che lasciarsi trascinare dalla suggestione del luogo, lungo il sentiero che dalla fonte del Boglietto tocca gli oscuri ingressi che un tempo erano abitazioni umili, ma sicuro riparo per chi non poteva permettersi nemmeno il lusso di un tetto sopra la testa.
Immagini archivio famiglia Franco.
Foto degli interni Massimiliano Aimone.