Avrò avuto dodici anni. Era una sera d’estate: papà era andato al Cocchi a trascorrere una serata con gli amici, io e mamma stavamo per andare a dormire, era quasi mezzanotte.
Sentimmo il rumore dell’ascensore e la voce di papà che parlava con qualcuno sul pianerottolo. Entrando in casa ci disse con un sorriso che superò la nostra meraviglia: «Ci è venuta fame, facciamo due spaghetti?». E introdusse in cucina un uomo elegante, allegro e gentile: il suo amico Gigi.
Io lo conoscevo già. Qualche volta papà mi aveva portato con lui al bar Cocchi di piazza Alfieri, al piano di sopra dove si giocava a biliardo e a carte, e avevo assistito affascinato ai rituali dei giocatori di conchin e di tarocchi, tollerato in quell’esclusivo ambiente di maschi adulti, avvolti nel fumo delle loro sigarette, purché mantenessi un rigoroso silenzio.
Guardavo e ascoltavo rapito quella assorta concentrazione che esplodeva a ogni fine mano in battute esilaranti, risate incontenibili, insulti surreali rivolti agli avversari e alla sorte maligna. Gigi mi era piaciuto subito per l’eleganza nel vestire e nei gesti, la serenità imperturbabile nel vincere e nel perdere, l’ironia sottile e direi aristocratica.

Sapeva di essere un personaggio di cui si è sempre parlato molto e si parla ancora adesso, anche se con il passare del tempo si riduce il numero delle persone che lo hanno conosciuto
da vicino. La ricca aneddotica tramandata assume ormai i tratti leggendari della mitologia e alcune fulminanti invenzioni linguistiche restano nella memoria di molti: su tutte l’“anicagis”, una dose ridotta di una bevanda alcolica che doveva servire da anteprima a ciò che sarebbe seguito nel corso della serata (Anica Agis erano le sigle delle associazioni dei produttori, dei distributori e degli esercenti cinematografici che producevano i trailer dei film in uscita nelle sale cinematografiche).
La leggenda vuole che sia suo l’imperturbabile commento “non è caro” da rivolgere a esosi gestori di ristoranti al momento del conto, coniato per la prima volta al “Pesce d’oro” di Sanremo negli Anni Settanta: il conto l’aveva pagato Giacomo Bologna, celeberrimo produttore di vino di Rocchetta Tanaro, altra figura mitica di un mondo non poi così lontano nel tempo ma che oggi appare di un’altra epoca (vedi Astigiani n. 9 del settembre 2014).
Alcune di queste storie le ho lette negli scritti di Livio Musso e di altri testimoni e cantori della nostra piccola e fascinosa epopea di città di provincia che, dagli Anni Sessanta per un paio di decenni, visse la sua stagione d’oro unica e irripetibile.
Uno dei protagonisti del mondo del bar Cocchi
Era un mondo che aveva il baricentro al bar Cocchi di piazza Alfieri e al suo celeberrimo “angolo dei fessi” sotto i portici, dove si trovavano studenti, tifosi dell’Asti calcio e poi della
Saclà di basket, gente che si incontrava per un aperitivo e una chiacchiera. Qui era stata messa a punto l’arte visiva della “gluteoscopia” che consisteva nella valutazione istantanea
delle qualità del lato B delle signore di passaggio. Gigi era tra i protagonisti di tutto questo.
Ci sono storie, conservate nella memoria di chi con lui ha condiviso un pezzo di vita e sconosciute a chi lo ha soltanto visto seduto ai tavoli del bar, che non sfigurerebbero nei romanzi di Piero Chiara o di Andrea Vitali. Donne, amori, tradimenti, vicende con un fondo di verità, rese più vivide dalla fantasia e dall’arte del racconto, mai gridato, meglio se sussurrato e lasciato al dubbio del non detto.
Ma chi è stato davvero Gigi Corosu (papà e gli altri amici al bar però dicevano “Coroso”), nato ad Asti il 28 aprile del 1924.

Dilapidò il patrimonio del sugherificio di famiglia
Non ho trovato testimonianze del suo percorso scolastico e di progetti relativi a un eventuale inserimento stabile nel mondo del lavoro. Quello che è certo è che crescendo dilapidò allegramente il patrimonio ricevuto in eredità dal padre, originario della Sardegna, proprietario di un sugherificio fondato dopo essersi trasferito ad Asti.
C’è chi lo ricorda ventenne partigiano dell’ultima ora: pare si occupasse di procurare cibo
alle formazioni combattenti girando per le cascine. Per quanto riguarda le esperienze lavorative, negli anni del Dopoguerra fece per qualche tempo il rappresentante di whisky e Champagne per l’importatore fiorentino del marchio De Castellane di Epernay: i migliori
clienti se stesso e Dario Occhiena, l’indimenticabile “el barba”.
La sorella Lula, che viveva a Milano, è stata il suo principale sostegno dal punto di vista economico. Gli comprò un appartamento in zona corso Dante, che per prudenza rimase intestato a lei: decisione lungimirante, perché Gigi in un momento difficile venderà tutti
i mobili di casa.
L’alloggio era sempre aperto e disponibile per gli amici, di cui Gigi amava circondarsi prediligendo, da raffinato esteta qual era, bei ragazzi e belle ragazze in compagnia dei quali si presentava alle feste in Riviera, dov’era di casa. Ebbe storie d’amore innumerevoli e
sempre un po’ clandestine e un intenso rapporto con i cani randagi come lui: uno di questi, Bobo, passava regolarmente a salutarlo al Cocchi. Visse sopra le righe interpretando a modo suo il ruolo del bon vivant, che non badava al denaro.
A proposito di debiti: una sera ai tavolini del dehors c’era proprio tutta la compagnia, “la vasca era piena” come diceva papà quando tornava a casa ridendo da solo, e raccontava che al Cocchi c’era stato “el festival del gavàdi”, cioè delle stupidaggini. Gigi cominciò
da quello seduto al suo fianco, gli disse: ti ricordi che un po’ di tempo fa ti ho chiesto di prestarmi un milione? Sì che mi ricordo Gigi. E te l’ho restituito? Come no Gigi! È perché me lo sono fatto dare da lui, continuò Gigi indicando un altro dei presenti. Ma l’ho restituito anche a te, è vero? Vero, rispose il secondo amico.
Perché l’ho chiesto a lui, rilanciò Gigi rivolgendosi a un terzo amico. E così via, finché si arrivò all’ultimo della compagnia, che alla fatidica domanda rispose a malincuore no, Gigi, non me l’hai restituito.
Al che Gigi con un sorriso disarmante concluse tra gli applausi: eh bén, ti t’ei piatlu ‘n tel cù. Gigi giocatore compulsivo, donnaiolo, gran viveur insomma. Ma anche un uomo che aveva sempre un sorriso per tutti, dotato di uno charme e di una gentilezza di cui oggi, in
questi tempi tristi e incattiviti, ci sarebbe un gran bisogno, che offriva sempre da bere a tutte le belle signore e agli amici più cari che entravano al Cocchi, anche se per farlo doveva spendere gli ultimi soldi che gli erano rimasti in tasca.
Un uomo dall’ironia sottile, capace di battute esilaranti con le quali invitava gli altri a ridere con lui dell’insensatezza della vita. Capace di affrontare con un sorriso anche la malattia.
Tutti gli amici del giro dopo aver visto il film Amici miei di Monicelli del 1975, hanno pensato che il personaggio del Conte Mascetti interpretato dall’immenso Ugo Tognazzi fosse uguale sputato a Gigi.

Un personaggio alla conte Mascetti di “Amici Miei”
Secondo la leggenda messa in giro ad arte, il regista Monicelli, dopo aver conosciuto chissà
dove l’astigiano Corosu, lo avrebbe chiamato con l’intenzione di affidargli la parte. Lo avrebbe sottoposto a un provino superato brillantemente da Gigi, ma sarebbe stato costretto a cedere di fronte all’opposizione del sindacato degli attori cinematografici, in quel periodo (i combattivi Anni Settanta) fortemente determinato a bloccare l’utilizzo di attori non professionisti nei film prodotti in Italia, dopo il boom del neorealismo.
Insomma, c’è mancato poco che all’anicagis e al “non è caro”, tra le creazioni linguistiche corosiane, si affiancasse la “supercazzora brematurata con scappellamento a destra”. Lui e Dario Occhiena elegantissimi e discreti, ogni tanto abbandonavano il palcoscenico del Cocchi e si spingevano fino alla discoteca del Salera. Per noi adolescenti confusi e ambiziosi era una festa: tutti intorno a loro due, a imparare. Memorizzare ogni battuta, ogni postura.
Il modo in cui ordinavano bottiglie di champagne e porgevano flûtes spumeggianti a noi pochi fortunati, figli dei loro amici e aspiranti futuri protagonisti della vita notturna astigiana. Elargivano sorrisi affettuosi e lievemente imbarazzati, loro così più grandi di noi, inevitabilmente rapiti dalla fulgente bellezza di ragazze di trent’anni più giovani, che sbirciavano con occhi ridenti e forse pacificati.
Dalle mie ricerche spunta fuori una vecchia intervista realizzata nel 1996 da Armando
Brignolo per La Stampa e pubblicata con il titolo “Gigi Corosu: Play-boy si nasce e si resta”.
Gigi racconta di aver conosciuto Alberto Sordi, Roger Moore e Sylvester Stallone, di essere
stato intervistato da Pupi Avati per la trasmissione di Raidue Odeon, espone la sua elegante visione dell’amore e della vita e a un certo punto, alla voce “rimpianti”, rivela che gli sarebbe piaciuto avere un figlio. E allora ripenso al modo in cui mi guardava, all’affetto che mi dimostrava, ai complimenti che mi rivolgeva parlando con papà. E al fatto che l’ultimo grande amico che si scelse come compagno d’avventure fu il giovanissimo Devis Chiarolanza, che negli ultimi momenti fu al suo fianco ad assisterlo come avrebbe fatto, appunto, un figlio.
E intanto sono passati quasi vent’anni da quella primavera del 2000 in cui Gigi se ne andò, accompagnato nel giro di poche settimane da altri tre suoi cari amici, Nanni Tosetti (mio papà), Beppe Martinetti e Gep Cavagnero: un tavolo da gioco del piano di sopra del Cocchi
al completo. Uomini profondamente radicati nel Novecento, diffidavano del Duemila e non si sarebbero trovati bene in questo nostro Terzo millennio.
In quella primavera maledetta del 2000 papà cominciò a star male e fu ricoverato alla clinica San Secondo. Pochi giorni dopo lo stesso destino toccò a Gigi, che fu sistemato in una stanza al piano di sopra. Quasi tutti i giorni, dopo essere stato da mio padre, passavo a salutarlo.
Cercava, per quanto gli era possibile, di conservare la sua imperturbabile nonchalance, appena incrinata e resa sbrigativa dal pudore di chi non ama esporre la propria debolezza e condividere la propria sofferenza: un sentimento molto forte negli uomini di quella generazione, cresciuti a film western e segnati dalla scena finale di C’era una volta il West in cui Jason Robards-Cheyenne dice a Charles Bronson-Armonica: «Vattene ora, vattene! Non mi va che mi guardi mentre muoio!».
Soltanto l’ultima volta mi chiese di entrare nella sua stanza e accomodarmi. Ci sedemmo
su due poltroncine che formavano, insieme a un televisore, un minuscolo angolo salotto. Gigi iniziò: «Io ho settantasei anni, mi piacerebbe vivere ancora qualche anno, però bene; e comunque ho avuto una bella vita». Poi volse lo sguardo verso lo schermo della tv e disse: «Ieri guardavo un programma che faceva vedere un posto in un paese povero, in Asia o in Africa, c’erano tanti bambini che giocavano in un fiume, ridevano e si spruzzavano
l’acqua, una felicità…».
Mi guardò di nuovo negli occhi e con un sorriso dolceamaro concluse: «È un mondo fasullo». Sentiva la morte avvicinarsi. Si seppe poi che aveva scritto una lettera alla sorella elencando i suoi debiti ancora inevasi, e Lula li onorò tutti. Ma alcuni non hanno voluto quei soldi: Gigi li aveva già ripagati con la sua straordinaria amicizia.






