Scrisse: «Non ricordo perché ero morto. Forse fu la volta che sulla statale per Alba, incrociando il bestione, avevo visto solo la motrice, e così ero finito sotto quel mostro della ruota del rimorchio. Non sono sicuro, ma la colpa fu del biancospino; m’ero girato per vedere se era fiorito e così avevo perso di vista il nastro cianotico dell’asfalto».
Queste parole sono contenute nel racconto Telefono sottoterra di Gino Turello, grande e semisconosciuto scrittore astigiano. Parole profetiche, perché Turello morì davvero in un incidente stradale, l’8 gennaio 1973; non sulla strada per Alba, ma sull’autostrada Torino-Piacenza, tra i due caselli di Asti.
In un’intervista Davide Lajolo ricordò: «Dalle nostre parti ho conosciuto soltanto due tipi veri di scrittore, due che avevano qualcosa da dire: Gino Turello e Gigi Monticone, due tipi per tanti versi antitetici; Monticone che quasi voleva nascondere il “vizio” dello scrivere, Turello che ne faceva la ragione della sua vita e che voleva arrivare al capolavoro assoluto».
Di Gigi Monticone si è parlato nello scorso numero di Astigiani. Gino Turello è un autore che scrisse moltissimo, ma che in vita non pubblicò mai nulla, ad eccezione di un piccolo libro, dal titolo emblematico, Radiografia di un maledetto, quattro racconti intitolati Telefono sottoterra, Per salvare mio figlio ho ucciso sedici figlie di Maria, Il coraggio, Il telegramma.
Un libro che Turello fece stampare a proprie spese nel 1969 dalla Tipografia Bona di piazza Medici e che vendeva, o cercava di vendere, ai clienti con cui entrava in contatto nel suo mestiere di assicuratore.
Altri racconti apparvero tra il 1966 e il ’70 sui settimanali La Nuova Provincia e Astisabato. Postumi sono poi stati pubblicati Fucilate sante, grazie all’interessamento di Davide Lajolo che ne scrisse la prefazione, dall’editore Landoni di Milano nel 1977, e, nel 1980, a cura della Provincia di Asti, La colpa fu del biancospino, comprendente dieci racconti, a cura dello scrivente e di Ferruccio Zanchettin.
Pubblicò un solo libro e bisticciò con gli editori
Turello era nato nel 1927 alla Ghirlandina, quattro case nei pressi di Montemarzo. La sua adolescenza fu sconvolta dalla perdita del padre, ucciso da un fulmine, un fatto che lo segnò a fondo e di cui parla in numerosi suoi scritti.
Dopo il liceo classico ad Asti si iscrisse, senza laurearsi, alla facoltà di Medicina e più tardi, quando già faceva l’assicuratore, a Giurisprudenza, ancora una volta senza arrivare alla laurea.
Turello non amava questa sua attività tra polizze e perizie, che pure svolgeva con competenza; per lui l’importante era scrivere. E scrisse molto, numerosissimi romanzi e racconti, che conservava, dattiloscritti, nella sua casa di Montemarzo, e tra quei fogli è quasi impossibile districarsi, perché molti capitoli compaiono uguali in più romanzi, mentre in altri casi le varianti sono infinite.
Tutti titoli che dicono molto sulla sua personalità, come Un maledetto o Dio ha perso il mio indirizzo. Perché Turello non riuscì mai a pubblicare i suoi scritti? Era persona incapace di accettare quei compromessi piccoli o grandi che il rapporto con una casa editrice sempre comporta, preso dalla certezza che quei romanzi così come uscivano dalla sua penna fossero perfetti e che dovessero essere accettati così com’erano, senza mediazioni o ritocchi.
Ha raccontato il critico Maria Corti, dell’Università di Pavia, un’autorità assoluta in materia, che una sera sentì suonare il campanello di casa, a Milano; si presentò Gino Turello, a lei sconosciuto: «Mi mise in mano dei fogli, era il manoscritto di Fucilate sante, dicendomi “legga!”. Gli chiesi di lasciarmelo, ma lui pretendeva che lo leggessi subito. Lessi quei fogli e ne fui conquistata. Mandai quelle pagine ad Anna Banti, che dirigeva Paragone, e lei accettò di pubblicarle. Mi scrisse una lettera in cui diceva “il Turello…”. Quando lui lesse quell’“il” andò su tutte le furie; scrisse una lettera feroce alla Banti ed il racconto non fu mai pubblicato».
Una conclusione che si ripeté più volte, sempre uguale anche con editori famosi. Ebbe un scambio di lettere anche con il vicedirettore de La Stampa Carlo Casalegno, che Turello chiama sarcasticamente Ciabot.
Era un uomo capace di gesti di grande orgoglio e un po’ bizzarri. Una volta Primo Maioglio, il direttore de La Nuova Provincia, gli disse che la pubblicazione di un suo racconto sarebbe slittata di una settimana, per mancanza di spazio. Turello si comprò una pagina pubblicitaria e fece pubblicare quel racconto a pagamento.
Affittò l’Alfieri per farvi leggere un suo romanzo
Il 28 gennaio 1968 affittò per una sera addirittura il Teatro Alfieri per far leggere dall’attrice astigiana Gabriella Forno, che era della compagnia di Dario Fo e Franca Rame, davanti a pochissime persone convocate telefonicamente all’ultimo momento, il suo Fucilate sante, probabilmente il libro che amava maggiormente: la serata passò del tutto inosservata (tranne un resoconto su La Nuova Provincia), il libro non trovò un editore e per Turello fu una nuova sconfitta.
Le difficoltà di rapporti furono una costante nell’attività letteraria di Turello: nel racconto Il coraggio, forse il suo testo migliore, ambientato in una Torino desolata e notturna, si legge: «Mentre butto il fiammifero spento nell’acqua violetta del Po, e stringo le pupille per cogliere un segno, un’incrinatura in quel lenzuolo liquido appena appena brezzolato, penso proprio che io nella vita ho sempre avuto la stessa forza, lo stesso potere di penetrazione di quel bastoncino annerito di cera sul pelo dell’acqua».
Verrebbe facile accostare le pagine di Turello a quelle di Pavese o di Fenoglio; in realtà, a parte inevitabili riferimenti alla durezza di linguaggio dello scrittore di Alba e al male di vivere che percorre le pagine di Pavese, Turello non si rifà più di tanto a questi due esempi: certo anche lui descrive il mondo contadino, ma lo fa in realtà come proiezione di un mondo al cui centro c’è sempre e soltanto la sua persona, la sua ribellione che si esprime ora in forma violenta ora sarcastica, dove la morte, da quella lontana ma sempre attuale del padre alla sua, immaginata in tanti racconti, è sempre un interlocutore ben presente.
La morte lo colse, si è detto, l’8 gennaio 1973, in un momento della sua vita in cui sembrava aver trovato finalmente un punto di equilibrio con se stesso. La notizia fu semi ignorata dai giornali, soltanto Elio Archimede, che di Turello era amico, scrisse un commosso ricordo su La Nuova Provincia. Un anno dopo, Davide Lajolo pubblicò su Il Giorno un articolo in cui paragonava Turello a Stavrogin, un personaggio dei Demoni di Dostojevskij: «Parlava con me, ma come parlasse in realtà soltanto con se stesso. Il suo linguaggio si faceva allora spietato, crudele; diceva di sentirsi più padrone di sé quando riusciva a considerarsi morto, a parlare da morto».
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