Alla fine il sogno si è avverato. Da qualche settimana è stato aperto, alla presenza dei figli Elio e Amelia, nella vecchia stazione ferroviaria di Cerro-Rocchetta Tanaro, il suo Museo della Bicicletta, una delle tante mete inseguite in vita da Guido Saracco e che ora ha trovato chi gliel’ha fatta raggiungere sia pure… fuori tempo massimo. Una definizione che Guido, da sempre e per tutti, “Sarachet”, non amava, ma che in questo caso non gli sarebbe forse dispiaciuta, visto l’inossidabile amore per le biciclette che è stato il filo rosso di tutta la sua vita. Nato a Variglie da una famiglia di sarti-contadini, Guido era stato anch’egli instradato sulla via della confezione di abiti, ma a quindici anni, chiarendo a tutti quale fosse il suo estroso e un po’ anarchico carattere, decise che la sua carriera sarebbe stata quella del ciclista, inteso come corridore, ma anche (e come si vide in seguito, soprattutto) come “curatore” di biciclette che avrebbe costruito, innovato, riparato e rianimato nella sua storica officina di corso Alba.
Per cinque anni, dal 1931 al 1936, la bicicletta fu tutto e anche di più: correva (partecipò a una settantina di gare vincendone venti, tra cui una curiosissima gara sul chilometro lanciato in corso Dante, e ottenendo altrettanti piazzamenti tra i primi tre), modificava, cambiava tubi, risistemava selle. In più discuteva, talvolta anche animatamente, con il Diavolo Rosso Giovanni Gerbi che di biciclette era diventato costruttore, ma che all’epoca gli si accompagnava sovente negli allenamenti per il Campionato italiano Veterani. Arrivò però la chiamata al servizio militare che si ripetè nel 1940, proprio nei giorni in cui stava per sposarsi con l’amata Benilde, e l’attività agonistica fu abbandonata. Riprese a correre, con la maglia “Sarachet”, per un paio d’anni alla fine del conflitto, allestendo negli anni successivi anche due formazioni di dilettanti e amatori, ma ormai c’erano l’officina di corso Alba e la nuovissima pompa di benzina da curare. Non era più il tempo dello sport praticato anche se, a dirla tutta, è stata l’intera vita di Sarachet una sorta di gara, non tanto contro il tempo, quanto alla conquista di sempre nuovi e diversi traguardi. Lo spirito nobile di chi fa lo sport per lo sport, volendo misurarsi innanzitutto con se stesso prima che con gli avversari, sembra infatti essere stato alla base della sua esistenza che l’ha visto, oltre che eccellente artigiano meccanico, anche musicista, poeta, inventore, attore, scrittore. Arguto, spiritoso, ironico, curioso di tutto quanto gli stava intorno, fu instancabile raccoglitore di tutto un po’: biciclette, attrezzi meccanici, monete antiche, strumenti musicali, libri e quant’altro, ma fu soprattutto protagonista a tutto tondo della vita sociale della città. Suonatore di clarinetto, inventò, utilizzando il tubo di scarico di un vecchio ciclomotore, il “cornoletto”, animò la compagnia degli “Scolari di Val Masone”, eredi dei suonatori di zucche “I Cosot del pont Verd”, poi degli Amis di San Martino e degli Amis d’la Crota.
Suonava nella Mandolinistica Paniati e intanto diventava presidente della ultracentenaria Società di Mutuo Soccorso Fratellanza Militari in congedo. Costruì, interpretando il disagio degli abitanti delle “Ca’ novi” che, per arrivare in centro città, trovavano costantemente chiuso il passaggio a livello che dava su piazza Alba (oggi Amendola), la mitica “Icara”, una macchina ad ali, realizzata con materiale di scarto, che fece epoca e diventò un pezzo pregiato dei Carnevali astigiani dei primi Anni ’60. Ma fu soprattutto l’autore di centinaia di divertenti sonetti, scritti in dialetto astigiano, per le più diverse occasioni, dalla morte di don Gallo al lancio dello Sputnik, in onore degli Anziani del Fortino o delle Lavandaie delle Trincere, per il centenario della nascita di Giovanni Gerbi o per il bollino della Pesca limonina. Una vita vissuta pienamente e non senza disincanto, come recita uno dei suoi ultimi versi: «Sarachet a l’è mapi an sa punta d’in brichèt».