martedì 26 Settembre, 2023
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Il Trovarobe

Pesi e misure. Quando la precisione non era elettronica

Al mercato e in cantina tra cantarèt e garocc

Oltre alle misure cosiddette “a stùm” (a stima) – ricordiamo le principali: na stissa, na frisa, na caretta, n’ideja, ’n butàl – nelle campagne astigiane erano utilizzati fino a pochi decenni fa altri strumenti di misurazione. Il più diffuso era la stadera piemontese, bilancia in metallo costituita da una barra graduata con una boccia di ferro pieno scorrevole e un piatto collegato da tre catene all’estremità. Chiamata in dialetto cantarèt, era immancabile sui mercati della frutta e verdura e in ogni cascina. Vi si pesavano anche altri prodotti e piccoli animali destinati alla vendita, come polli e conigli. Facile da trasportare anche in bicicletta, con la bascula si potevano pesare fino a cinque chili e, girando la barra dal verso opposto, fino a dieci.

La versione più grande era chiamata cantàr, non aveva il piatto (i prodotti da pesare si attaccavano al gancio) e poteva arrivare fino a cinquanta chili. Per pesare con il cantarèt bastava posare l’oggetto sul piatto, con la mano sinistra si reggeva dall’estremo delle catene la barra per mezzo di un gancio, poi si faceva scorrere la boccia in ferro verso l’esterno fino a quando la barra non si ergeva in equilibrio, trovandosi in posizione orizzontale “in piano”. Una misurazione non di precisione che al mercato finiva sempre con la richiesta del “buon peso” a favore del cliente. Se la stadera era considerata uno strumento portatile, la bascula invece era presente in ogni magazzino e nei granai. Utilizzata per pesare soprattutto casse di frutta, sacchi di nocciole, mais, cereali vari e farine, la bascula era chiamata in dialetto bòsacula. Costituita da una struttura in ferro e legno, funzionava per mezzo di una piccola pedana e di un meccanismo collegato a una barra con sopra un peso scorrevole che, spostandolo cercando il peso, muoveva due piccoli cunei di metallo che, una volta raggiunta la medesima altezza, in equilibrio ne decretavano il peso da leggere sulla barra. 

Le unità di misura più utilizzate in cantina per il vino erano invece la brenta e ’l garocc. La prima era un contenitore in legno, solitamente di rovere o ciliegio, alta e lunga come uno strano secchio dalla capacità di cinquanta litri. Fornita di due bretelle in cuoio, la brenta era utilizzata anche in vigna per il trasporto delle uve in vendemmia, dai filari alla bigoncia, sulle spalle del vignaiolo. In cantina, serviva per travasare il vino da un tino all’altro. In alcuni casi la brenta veniva fornita di un coperchio e utilizzata per trasportare il vino da vendere al mercato di Asti. Al culmine della brenta, un chiodo ne determinava il livello massimo di riempimento (50 lt). Quando i negozianti acquistavano il vino dai vignaioli, c’era l’usanza di chiudere la trattativa arrotondando il peso per eccesso con la frase fa broca querta ovvero copri il chiodo con il vino (abbonda).  Il garocc invece era un secchio in legno della capacità di cinque litri utilizzato sia per i rimontaggi che per riempire la brenta. Garocc in valle Belbo divenne anche un modo per descrivere una persona un po’ goffa e si raccontava la storiella di chi in cantina, dovendo riempire un secchio d’acqua e non avendone di vuoti, rovesciò a terra un secchio di vino per procurarselo.    

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