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1613

Nizza e Canelli da 400 anni assediate e divise

La Valle Belbo scenario di guerra
Questa è la vicenda storicamente documentata di un doppio assedio subito nel 1613 da due città. Quattrocento anni fa, nella tarda primavera, la Valle Belbo fu teatro di battaglie che videro contrapposti eserciti stranieri e milizie al comando di capitani di ventura e nobili cavalieri. Non mancarono, come in tutte le guerre, atti di eroismo e di viltà, saccheggi e violenze, astuzie strategiche e depistaggi. Ci furono i due assedi, di segno opposto, ai danni di città distanti solo una decina di chilometri: Nizza e Canelli che hanno tratto anche da questi fatti storici spunti per rinfocolare il loro mai sopito campanilismo. Ecco che cosa accadde tra Mantova, Torino, Asti e la Spagna.

Scoppia la guerra di successione per il dominio del Monferrato

Quattrocento anni fa, nella tarda primavera del 1613, la valle Belbo fu teatro di battaglie che videro contrapposti eserciti stranieri e milizie al comando di capitani di ventura e nobili cavalieri. Non mancarono, come in tutte le guerre, atti di eroismo e di viltà, saccheggi e violenze, astuzie strategiche e depistaggi. Ci furono anche due assedi, di segno diverso, ai danni di città distanti solo una decina di chilometri: Nizza e Canelli che hanno tratto anche da questi fatti storici spunti per rinfocolare il loro mai sopito campanilismo.

Ecco che cosa accadde.

Nel 1612 muore Vincenzo I Gonzaga, duca di Mantova e di Monferrato. Anche il figlio primogenito Francesco, legittimo erede, muore nello stesso anno. Teoricamente la successione spetterebbe alla figlia di questi, Maria, nipote di Carlo Emanuele I duca di Savoia, principe di Piemonte e conte di Asti, che pretende di essere il tutore della giovane orfana per estendere, di fatto, il suo potere sui domìni gonzagheschi. Ma il fratello minore del defunto Francesco, cardinale Ferdinando, getta la porpora alle ortiche e si autoproclama duca, con gran scorno del Savoia. Il quale non resta con le mani in mano, ma decide di far valere i propri diritti e quelli della nipote con le armi.]

I Savoia assediano Nizza difesa dai Gonzaga

21 aprile 1613. Le truppe dei Savoia invadono il Monferrato e in nemmeno venti giorni di feroci combattimenti espugnano le principali città, le piazzeforti e i castelli strategicamente più importanti. Una vera guerra lampo, mirata soprattutto a costringere Ferdinando alla resa, alla trattativa e alla rinuncia ai territori monferrini. Alla completa realizzazione del piano si oppone ormai un solo ostacolo: Nizza della Paglia. La località monferrina, pur vivace e popolosa, non è militarmente rilevante, priva di fortificazioni moderne in grado di opporsi a cannoneggiamenti e assalti. Il Savoia pregusta già la vittoria.

Una stampa che raffigura l’assedio di Nizza del maggio 1613
Una stampa che raffigura l’assedio di Nizza del maggio 1613

Anche Ferdinando Gonzaga sa benissimo che a Nizza si giocherà il tutto per tutto, e cala il suo asso. Spedisce sul posto Manfrino Castiglioni conte di Garlasco, uno dei migliori e più coraggiosi comandanti del suo esercito, consegnandogli un migliaio di buoni moschettieri, poteri dittatoriali e un ordine solo: Nizza non deve cadere nelle mani dei Savoia. Così, mentre l’esercito sabaudo si prepara allo scontro, Manfrino appronta le difese, facendo costruire terrapieni, trincee e fossati attorno alle mura che da sole potrebbero offrire ben poca resistenza. Tocca al conte Guido Aldobrandino di San Giorgio, che pochi giorni prima ha fatto capitolare la munitissima Moncalvo, comandare l’attacco savoiardo. Fa ammassare il suo esercito a Canelli e Agliano e il 12 maggio si muove verso Nizza, forte di un buon numero di cannoni. Nel tardo pomeriggio le vedette di guardia sugli spalti nicesi vedono gli stendardi sabaudi in lontananza e danno l’allarme. Il Castiglioni spedisce una compagnia di moschettieri a cavallo e una di fanti per disturbare gli attaccanti e impedire loro di piantare il campo troppo a ridosso delle mura; ma al primo contatto con le avanguardie nemiche le due compagnie indietreggiano, preferendo le bestemmie di Manfrino alle pallottole dei piemontesi. Questi ultimi riescono così a piazzare i cannoni in modo tale da poter battere non solo le mura, ma l’intera cittadina. Dal campo sabaudo esce a cavallo il capitano astigiano Oddone Roero, che chiede di parlare con il comandante della piazza nicese.

Il Castiglioni si affaccia dall’alto degli spalti e il Roero tenta di convincerlo alla resa, un po’ minacciando, un po’ blandendolo: «Se non vi arrenderete entro trenta ore conoscerete i nostri cannoni, e militari e civili saranno fatti a pezzi». «Sì sì, certo – risponde  Manfrino – ho visto che avete un sacco di cannoni; ora andatevene altrimenti vi faccio conoscere le nostre pallottole». L’assedio di Nizza comincia così tra spacconate e improperi. E si scatenano due diluvi, uno di pioggia e uno di moschettate. Incuranti, gli artiglieri astigiani del reggimento Roero riescono a piazzare i cannoni lavorando tutta la notte tra il fango. All’alba del 13 maggio il conte San Giorgio dice ai suoi ufficiali: «Al mio segnale, scatenate l’inferno» (forse non avrà detto proprio così, ma il succo è questo). E l’inferno si scatena davvero sui tetti di Nizza: centodieci colpi andati a segno in dieci ore, malgrado l’incessante fuoco di disturbo dei moschettieri sulle mura. La tradizione assegna a quel giorno terribile le tre palle di cannone rimaste incastrate sulla facciata di una casa del centro storico.  I difensori, e soprattutto i civili, sono terrorizzati; al punto che il Castiglioni fa issare la forca sulla piazza del Comune e fa sapere ai suoi soldati che ci avrebbe appeso personalmente non solo i disertori, ma anche i fannulloni, i vigliacchi e i disfattisti.

Un particolare dell’assedio di Canelli secondo la ricostruzione di Giancarlo Ferraris
Un particolare dell’assedio di Canelli secondo la ricostruzione di Giancarlo Ferraris

Centodieci cannonate sui tetti dei nicesi

Il 14 maggio, mentre Manfrino è impegnato nelle operazioni sulle mura con i suoi moschettieri, arriva una delegazione di quattordici civili capeggiata dal sindaco Cantavena che, alla presenza del comandante, si butta in ginocchio e in un crescendo di pianti e disperazione chiede di avere pietà di Nizza, di trattare una resa onorevole per evitare che la città venga distrutta. Manfrino va su tutte le furie; se la prende soprattutto con Nicolò Bigliani, capitano della milizia nicese, dicendogli che se non farà il suo dovere di soldato lo farà impiccare insieme a tutti quegli altri vigliacchi. Resistere, resistere, resistere: e i nicesi devono fare buon viso a cattivo gioco. I giorni seguenti si succedono tra le cannonate sabaude, le sortite mantovane, le scaramucce sanguinose, il morale sempre più basso dei difensori e della popolazione. Lo stesso Castiglioni è provato, ma cerca disperatamente di non darne l’impressione: sempre in prima linea, sempre coraggioso, sempre gradasso.

Notabili e religiosi cercano di salvare la città

Il 17 maggio torna alla carica una nuova delegazione di nicesi: questa volta a supplicare la resa si mobilitano i religiosi, i parroci e i frati; e di nuovo l’indiavolato Manfrino tiene duro, e rincara la dose. Sospettando lo zampino del San Giorgio, esclama: «Dite al conte Guido che comprerò le pelli dei suoi cavalli morti, se me le vorrà vendere; e se vorrà riscattare le palle di cannone fin qui sparate, volentieri gliele restituisco, in modo che possa rinnovar la batteria!». Spacconate: in realtà Nizza è allo stremo delle forze e solo il temporaneo allentamento delle cannonate sabaude, dovuto a un’imprevista carenza di munizioni, permette ai difensori di tirare avanti un altro po’.

Ma qualcosa, inaspettatamente, rimescola le carte: il re di Spagna Filippo III, preoccupato dai successi di Carlo Emanuele e dalla prospettiva di un suo eccessivo potere in tutto il Piemonte, ordina al governatore di Milano di fermarlo. E proprio il giorno 17 don Juan Mendoza marchese de la Ynojosa, mobilita l’esercito in Lombardia e lo mette al comando di don Antonio de Leyva principe d’Ascoli.

Le manovre milanesi giungono all’orecchio del duca di Savoia, che ordina di prendere Nizza a qualsiasi costo, e nel minor tempo possibile. Il 21 maggio arrivano nuove abbondanti munizioni da Asti e ripartono i cannoneggiamenti; ma riprende anche a piovere ininterrottamente e le operazioni belliche devono essere rallentate.

I nicesi si difendono sulle mura secondo la ricostruzione dell’illustratore Ricci
I nicesi si difendono sulle mura secondo la ricostruzione dell’illustratore Ricci

Arrivano gli spagnoli da Milano, Nizza è salva

La sera del 23 maggio, sotto una pioggia incessante, l’esercito spagnolo del principe d’Ascoli arriva a Incisa, subito scorto dagli esploratori piemontesi. Il conte Guido spedisce il marchese di Caluso a indagare le intenzioni del de Leyva che, burbanzoso, gli dice: «Sono qui venuto per soccorrere Nizza, in aiuto dell’Altezza di Mantova, e rompere il campo del Serenissimo di Savoja qualora non si ritirasse et non uscisse fuora dal Monferrato». Nella notte il San Giorgio conduce un ultimo attacco con 700 corazzieri attraverso una piccola breccia nelle mura, ma viene respinto. I cannoni tuonano in continuazione; nessun nicese dorme, sono tutti nelle chiese a cercare protezione e a supplicare l’aiuto di Dio che arriva puntualmente all’indomani. Le prime luci dell’alba rivelano uno spettacolo impressionante: sulle colline oltre il Belbo si dispiega l’esercito spagnolo in tutta la sua potenza. Qualche ora di attesa ansiosa, poi a tutta velocità arriva da Asti una staffetta con l’ordine del Duca: ripiegare! Tra le file sabaude scoppia il putiferio: gli ufficiali rifiutano di abbandonare il campo proprio a un passo dalla vittoria; i soldati, che già pregustavano il saccheggio, sono furibondi. Ma gli ordini sono ordini e, malgrado le proteste, il campo viene levato in tutta fretta, sotto la pioggia che ormai lo ha trasformato in un pantano.

È il 24 maggio: Nizza è salva, ma la guerra continua.

Da Calamandrana a Canelli

Frattanto arriva ad Acqui un altro esercito mantovano, guidato da Carlo Gonzaga, il duca di Nevers in persona. Cugino di Ferdinando, anch’egli giovane, colto e raffinato e assai più esperto di faccende guerresche e politiche, prende senza indugio e con gran dispiegamento di mezzi il comando delle operazioni. E per le armate sabaude si mette davvero male. Il conte di San Giorgio, levato l’assedio a Nizza, preferisce ritornare al quartier generale di Asti piuttosto che rischiare uno scontro con le forze fresche del Nevers: commettendo però l’errore di lasciare sguarnite e indifese le terre dell’Astesana meridionale. E i monferrini, smaniosi di riscossa e spalleggiati dagli spagnoli, ne approfittano.

Il 27 maggio sette compagnie gonzaghesche del tercio de Rivara, composte da circa 2000 uomini in totale, si acquartierano a Calamandrana per presidiare il confine tra Monferrato e Astesana. Sono molti uomini, Calamandrana è un piccolo paese e il loro comandante Spadino Novarese non sa come sostentarli visto che, oltretutto, a Nizza non è rimasta nemmeno una crosta di formaggio. Saputo che nella vicina Canelli, «luoco assai grande e popolato», non c’è alcuna guarnigione militare, ma solo il presidio della milizia popolana, che come tutte le milizie popolane si immagina pavida e raccogliticcia, che fa lo Spadino?

Manda dei messaggeri ai consoli di Canelli, intimando loro di consegnare, ovviamente gratis, adeguate provviste di pane, vino e munizioni da guerra per i suoi uomini. Le cronache non ci hanno tramandato la risposta dei consoli, ma i fatti incalzano.

L’appassionato di storia nicese Nino Aresca mostra i segni delle palle di cannone conficcate nel muro di un edificio del centro storico in via Cordara
L’appassionato di storia nicese Nino Aresca mostra i segni delle palle di cannone conficcate nel muro di un edificio del centro storico in via Cordara

Ecco Spadino e capitan Focaccia

Spadino Novarese, visto l’insuccesso delle buone maniere, decide di passare a quelle cattive. Quatto quatto la sera del 27 maggio guida le sue compagnie fino quasi alle mura di Canelli. Tre compagnie, per circa 900 uomini, le mette al comando del capitano Focaccia e ordina che diano risolutamente l’attacco alla porta principale, con gran strepito di moschetti e di tamburi. È un diversivo, perché lui con altre quattro compagnie (1200 uomini) sferrerà l’attacco decisivo da tutt’altra parte delle fortificazioni. Il piano è ben congegnato, ma non ha tenuto conto di un piccolo particolare: che la milizia popolana non è né pavida né raccogliticcia, ma si rivela da subito numerosa e bene armata. E si difende benissimo. Tant’è: mentre il capitano Focaccia assalta la porta, lo Spadino con i suoi picchieri e moschettieri sale in silenzio da Nord verso il borgo fortificato di Villanuova: sono guidati da una spia che ha promesso di farli intrufolare all’interno attraverso un cunicolo segreto. Ma appena giungono nel fossato delle mura uno dei moschettieri scivola e parte incidentalmente un colpo, che colpisce la spia canellese alla nuca e lo fa secco. Gli assalitori non si perdono d’animo e tentano la scalata delle mura: ma le scale si rivelano troppo corte. Danno allora mano ai picconi e tentano di aprire una breccia: ma il muro si rivela spesso e forte, e il lavoro più lungo del previsto.

Il rumore delle picconate viene però sentito da alcuni abitanti del quartiere che danno l’allarme. Quando finalmente gli assalitori riescono a far crollare un sufficiente tratto di mura, hanno la sorpresa di trovare dall’altra parte una selva di picche e di archibugi pronti a far fuoco. Si scatena la battaglia, e per quattro ore nessuno arretra di un palmo. Lo Spadino viene gravemente ferito a una gamba e solo l’eroico intervento del suo luogotenente cavalier Pietra, che lo recupera e lo porta al sicuro in una chiesetta, ancora oggi esistente, gli salva la vita. Privi di comando, gli assalitori sbandano: lo stesso Pietra ordina la ritirata e trafelati vanno a raggiungere i loro commilitoni impegnati alla porta. Qui gli altri ufficiali decidono che non è cosa e, invece di insistere nell’attacco, si scatenano contro i cascinali indifesi sparsi nella vallata, razziandovi grano e bestiame.

Arriva il Duca di Nevers e Canelli risponde con il colonnello Taffini

Alla fine della giornata non ridono né Sparta né Atene: i canellesi hanno respinto l’attacco da soli, ma con gravi danni; i monferrini hanno fatto un buon bottino, ma con molte perdite umane. Nei giorni seguenti la notizia dell’impresa si sparge rapidamente: Carlo Emanuele I, resosi conto del rischio, invia a Canelli cinque compagnie di archibugieri a cavallo e il reggimento di fanti provenzali del barone Des Adres, forte di 700 uomini. Il duca di Nevers, dal canto suo, venuto a conoscenza della robusta difesa canellese e dell’arrivo di un folto presidio, preferisce dedicarsi a una serie di scorribande in alta valle Bormida. Per una settimana Canelli è al sicuro, ma in seguito sia il reggimento dei provenzali, sia le compagnie degli archibugieri devono spostarsi ad altre piazze: e ricomincia la paura.

L’8 giugno si diffonde la voce che il duca di Nevers sta preparando un nuovo attacco in valle Belbo, per tentare di aprirsi la strada verso Asti. I canellesi sono molto spaventati e supplicano Carlo Emanuele I di inviare un adeguato contingente per proteggere la loro città da un prevedibile assalto che potrebbe essere fatale all’intera Patria Astese. Di lì a pochi giorni, arrivano i rinforzi sabaudi, ma sono solo 112 fanti e sette ufficiali, al comando del colonnello Camillo Taffini da Savigliano. Pochi ma buoni: il piccolo reggimento non sarebbe certo in grado di fronteggiare un esercito, ma basta e avanza per coordinare al meglio la milizia popolana. Taffini è un valoroso uomo d’arme, e se a Nizza Manfrino Castiglioni aveva dovuto issare la forca per farsi obbedire dai civili, lui ottiene la fiducia dei canellesi con il solo suo prestigio e carisma, o almeno così si racconta.

Due immagini dell’Archivio Storico che mostrano le mappe e momenti dell’assedio di Nizza, 5bis) a lato gli stemmi comunali di Nizza e Canelli
Due immagini dell’Archivio Storico che mostrano le mappe e momenti dell’assedio di Nizza

Il 14 giugno l’esercito del Nevers, composto da almeno 2000 fanti, 500 cavalieri e numerosi pezzi di artiglieria leggera, arrivando da Santo Stefano Belbo si ammassa nelle regioni Castagnole e Marmo. È inviata una spia con il compito di accertarsi delle difese canellesi. Costui indugia un po’ troppo a osservare le fortificazioni e le sentinelle di guardia alla porta lo arrestano. È portato in città e sotto tortura confessa. I canellesi hanno appena il tempo di dare l’allarme generale che già si vedono oltre il Belbo gli stendardi dei Gonzaga. Il Nevers, forte dell’esperienza di quanto successo il 27 maggio, evita l’attacco diretto. La parte bassa di Canelli è cinta da vecchie mura medievali, a loro volta soffocate sul lato esterno da una quasi ininterrotta cortina di case, cascinali e orti, i cui abitanti si sono rifugiati all’interno del recinto. Il Duca ordina ai suoi soldati di occupare le case e da quelle praticare brecce nelle mura per poi entrare in massa da più parti, sopraffacendo i difensori. Nel frattempo tiene sotto pressione la guarnigione che presidia la porta del Borgo, davanti alla quale si apre un ampio piazzale a semicerchio. Il piano è ben congegnato e in due o tre giorni al massimo può raggiungere l’obiettivo; ma il Taffini, intuite le mosse del nemico, manda immediatamente una staffetta al quartier generale di Asti.

Carlo Emanuele I non esita e ordina al conte di San Giorgio di portarsi a Canelli con 1500 fanti, 300 cavalieri e molta artiglieria e di occupare, passando per le colline, il castello e il quartiere fortificato di Villanuova che domina l’abitato. Se l’esercito gonzaghesco entrerà nel Borgo, l’ordine è di bombardarlo dall’alto, sacrificando le case e i civili. Il Nevers, grazie alle sue spie, viene presto a conoscenza delle contromosse sabaude e capisce di doversi giocare il tutto per tutto. Ordina quindi l’attacco frontale alla porta del Borgo e la scalata alle mura che prospettano sul piazzale. L’assalto furibondo ha uno scopo preciso: distogliere l’attenzione dei difensori e permettere agli artificieri monferrini di intrufolarsi sotto la porta passando per la cloaca e di piazzarvi una grossa carica di esplosivo.

Assalitori respinti: Canelli esulta

L’operazione ha successo e la mina viene fatta brillare: le strutture murarie resistono, ma i battenti della porta volano in pezzi. Nel varco aperto gli assalitori si riversano come un fiume in piena, in una ressa incredibile: si ritrovano correndo sulla piazza del Borgo (oggi piazza Amedeo d’Aosta) ma qui trovano i miliziani canellesi che dall’alto delle case bersagliano gli assalitori con una tempesta di archibugiate, sassi, coppi e travi. Scoppia il panico, gli ufficiali dei Gonzaga non riescono più a mantenere i ranghi ed è la disfatta. I soldati abbandonano armi e salmerie e si disperdono sulle colline. Nevers si dirige con la sua scorta alla volta di Nizza, seguito dalle artiglierie. Ma i cariaggi sono più lenti e sono intercettati dai soldati del Taffini che, sbaragliando facilmente gli artiglieri, portano bambarde e cannoni in Canelli come trofeo di guerra. Quando, il giorno seguente, Guido di San Giorgio arriva con l’esercito sabaudo, trova la città in festa e la notizia che il piccolo Davide ha sbaragliato il gigante Golia. Il duca Carlo Emanuele in persona, incredulo e ammirato dal valore che i canellesi hanno saputo dimostrare, li premia esentandoli per trent’anni da qualsiasi tassa e imposta. Per la storia, i Savoia ci misero ancora quasi un secolo ad estendere il loro controllo a tutto il Monferrato, nel 1707. E fino ad allora Nizza e Canelli non smisero di considerarsi nemiche.

gli stemmi comunali di Nizza e Canelli
Gli stemmi comunali di Nizza e Canelli
Le schede

Pagani: Della guerra di Monferrato fatta dal Serenissimo Sig. Carlo Emanuele duca di Savoia, Asti 1614

L. C. Bollea: “Gli assedi di Alba, Trino, Moncalvo, Nizza della Paglia e Canelli” in Rivista di Storia, Arte e Archeologia, Alessandria 1908

V. Molinari, L’Assedio di Canelli Asti 1894

L’AUTORE DELL’ARTICOLO

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