lunedì 17 Marzo, 2025
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1783 -1784
Passato Remoto

L’epica carovana di Vittorio Alfieri

L’impresa del poeta da Londra a Torino e poi a Siena con quattordici cavalli
Ecco un Vittorio Alfieri sorprendente e poco conosciuto. Un po’ cow boy e un po’ buttero alla guida di una carovana che nel 1784 percorre più di 1500 chilometri per condurre da Londra a Torino e poi a Siena un gruppo di 14 cavalli che il poeta è andato ad acquistare sul mercato inglese. un viaggio epico, in nave, lungo le strade polverose della Francia prerivoluzionaria, sulle mulattiere che superano le Alpi. Una traversata che egli stesso ci racconta nella vita e che dimostra l’amore e la passione sconfinata dell’Alfieri per i cavalli. Una passione coltivata fin da quando frequentava le scuderie della casa paterna ad asti e poi ancora durante il collegio militare a Torino. Un racconto ricco di spunti, personaggi e incontri con i cavalli veri e unici protagonisti, descritti, chiamati per nome; ammirati e amati.

Un viaggio via mare, lungo strade polverose, valichi e montagne per andare a comperare cavalli e portarli in Italia

 

Nel capitolo XII dell’Epoca quarta della Vita, Vittorio Alfieri ci offre il resoconto del suo terzo viaggio a Londra, nel 1784.

La diffusa ammirazione per l’Inghilterra, di moda nel corso del secolo, era stata da lui ampiamente condivisa, per l’ideale di monarchia parlamentare rappresentato dalla corona inglese; nel 1770 proprio a Londra aveva vissuto una delle più travolgenti passioni d’amore della sua giovinezza, la relazione con Penelope Pitt, culminata in un duello, un processo e uno scandalo, rimbalzato su tutte le gazzette londinesi. Il viaggio dell’84 veniva invece intrapreso con un unico scopo: l’acquisto di nuovi cavalli.

Ciò che rende memorabili queste pagine è, in particolare, il racconto del trasbordo della “carovana” dall’isola britannica al continente e, ancor più, dell’“epica impresa” del “passo
dell’Alpi”, come Alfieri definisce l’avventuroso ritorno, attraverso il Moncenisio, fra Lanslebourg e la Novalesa.

La passione per i cavalli: da bambino nella scuderia del palazzo di Asti e poi “il volar del calesse verso Torino” e le galoppate alla cavallerizza

 

Possiamo ricostruire con precisione cinematografica quel viaggio estremo, al limite dell’incredibile, considerando i tempi.

Come Alfieri ricorda, era partito da Siena “verso la metà d’ottobre”, del 1783 verso Genova, Pisa e Lerici, accompagnato dall’amico Francesco Gori Gandellini. Giunto a Genova e trascorsi un paio di giorni, i due amici si erano separati e Alfieri si era imbarcato per Antibes.

Come per un segno del destino, già il viaggio dell’andata aveva messo a dura prova il suo ardimento, dal momento che quella notte di navigazione era trascorsa non senza “qualche timore”: «La filucca era piccola; c’aveva imbarcata la carrozza, la quale faceva squilibrio: il vento ed il mare gagliardissimi: ci stetti assai male».

Sbarcato e ripartito per Aix-en-Provence, viaggiando attraverso le strade di polvere di quell’autunno avanzato, senza mai arrestarsi, raggiunta Avignone, riassaporata “la magica solitudine di Valchiusa; e Sorga” e superata Grenoble, per la terza volta, aveva raggiunto Parigi, dove aveva fatto tappa per “circa un mese”, che, al solito, gli era parso “un secolo”.

Alfieri non amava i francesi e la loro capitale che cinque anni dopo avrebbe visto ribollire della rabbia rivoluzionaria.

Attraverserà poi la Manica e approderà, infine, in Inghilterra. Era giunto il momento tanto atteso, quello dell’acquisto dei cavalli. La sua passione era cresciuta in lui negli anni. Bambino, nel palazzo del padre – Palazzo Alfieri ad Asti – dove aveva vissuto fino all’età di cinque anni (quando era avvenuto il terzo matrimonio della madre, rimasta vedova a dicembre del 1749, anno della sua nascita), aveva avuto modo di vedere i cavalli presenti
nella scuderia della cosiddetta “corte rustica”, secondo la registrazione dell’inventario dei beni paterni, redatto nel gennaio del ’50: «due polledri d’anni sei, di pelo morello da carrozza» e «due cavalli di pelo morello d’anni otto circa».

Il primo ricordo risaliva tuttavia all’età di nove anni, all’ottobre 1758, come testimonia l’autobiografia, nel ricordo della “partenza dalla casa materna, ed ingresso nell’accademia di Torino”, ricordo di un piacere quasi fisico nell’emozione della corsa: «Quel volar del calesse mi dava intanto un piacere, di cui non avea mai provato l’eguale».

Le prime esperienze erano state infatti quelle della carrozza della madre, con il suo “quarto di trotticello da far morire”, senza aver la possibilità di avvertire l’ebbrezza della velocità del galoppo attraverso la campagna. È un motivo che ritorna insistente, a segnare un rapporto
costante dall’adolescenza ai tardi anni della maturità: «la continua palpitazione di cuore pel gran piacere di correre, e per la novità degli oggetti» (II, I).

Erano seguiti al primo viaggio in carrozza gli esercizi alla Cavallerizza e le cavalcate sfrenate lungo la collina fra il Po e la Dora, durante gli anni di Accademia a Torino; la “compra” del primo cavallo, in occasione del matrimonio della sorella Giulia con il conte
Giacinto di Cumiana, nel 1764, «un bellissimo sardo, di mantello bianco, di fattezze distinte, massime la testa, l’incollatura ed il petto», amato «con furore» e ricordato ancora, a distanza di anni, con «una vivissima emozione».

Il suo primo destriero nel 1764: un sardo dal mantello bianco

 

I cavalli erano diventati per lui compagni di vita, status symbol, motivo di orgoglio e vanità, espressione di “giovanile superbia”, o, al contrario, del bisogno di intima condivisione della propria solitudine a contatto con la natura, durante le ripetute separazioni dalla donna amata, Luisa Stolberg, contessa d’Albany, incontrata nel 1777 a Firenze.

A Londra gira tra i mercanti a scegliere gli animali da corsa, da sella, da tiro

 

Torniamo al viaggio in Inghilterra.

Nel capitolo XII dell’Epoca quarta della Vita, Alfieri sottolinea l’emozione e l’entusiasmo di quei giorni londinesi, spesi nel comprare nuovi “amici”: «prima un di corsa, poi due di sella, poi un altro, poi sei da tiro; e successivamente essendomene o andati male o morti varj polledri, ricomprandone due per un che morisse», tanto che, alla fine di marzo di quell’anno 1784, giunse a contarne quattordici, ponendo così termine a un insolito periodo di scarso esercizio dell’equitazione, se è vero che, come scriveva quattro anni prima, in una lettera del 26 aprile 1780 da Firenze all’amico Arduino Tana, «Da ben due anni sono stato senza cavalli, e la passione d’essi mi s’è quasi spenta interamente nel core; ma per la salute mia son obbligato a cavalcare ogni giorno, e quando ho un cavallo a vettura fra le gambe ne desidero un buono, e quando ho il buono, che mi da fastidj, e pensieri, ch’ora è zoppo,
or infreddato, lo darei al diavolo mille volte, e desidero un’altra volta l’umile ronzino», approdando a una considerazione generale, suggerita dalla propria esperienza: «Questo e il cuor dell’uomo, e più che d’ogn’altri di me, benché a paragone della tempesta in cui ho
vissuto sempre, ora sia quasi in calma, ma sempre la calma mia è infida, e burrascosa».

Forma la carovana con 14 animali quante sono le tragedie da lui scritte

 

Ed eccolo, pertanto, nel racconto a posteriori della Vita, consapevole del proprio carattere impulsivo e passionale, come delle esigenze della propria complessione fisica, a sottolineare con autoironia la relazione fra quei cavalli recentemente acquistati e le quattordici tragedie scritte, annotando: «Queste mi spossarono la mente; quelli la borsa», declinando, come in altri passi dell’opera, il nesso equitazione/ benessere, tratto dalla voce “equitation” dell’Enciclopedie, ricco di una variegata casistica relativa alla cura di malattie diverse, dall’asma all’itterizia, dalla malinconia all’ipocondria: «la divagazione dei molti cavalli mi
restituì la salute e l’ardire di fare poi in appresso altre tragedie, ed altr’opere. Furono dunque benissimo spesi quei molti danari, poiché ricomprai anche con essi il mio impeto e brio, che a piedi languivano».

A primavera del 1784 la partenza per l’Italia attraverso la manica e il difficile sbarco a Calais

 

Pertanto, è con non celato affetto che i cavalli vengono detti “quattordici amici” e che, prima ancora di raccontarci le avventure del viaggio, Alfieri ci rassicura circa il suo buon esito, dal momento che, «usciti una volta dalla loro isola, non vollero più morire nessuno, ed io affezionatomi ad essi non ne volli vender nessuno».

Alfieri ammette l’esclusività di quel rapporto, talmente intenso da coinvolgerlo totalmente, se è vero che «Incavallatomi dunque sì pomposamente», trovandosi lontano dalla donna amata, egli trascorse circa quattro mesi a Londra, attratto solo dai propri cavalli, senza altri
interessi.

Con la stessa precisione con la quale aveva indicato i luoghi attraversati nell’andata, Alfieri
ricostruisce l’itinerario del ritorno: «venni a Calais, poi a Parigi di nuovo, poi per Lione e Torino mi restituii in Siena. Ma molto e più facile e breve il dire per iscritto tal gita, che non l’eseguirla con tante bestie».

Nel resoconto, è centrale lo stato d’animo del poeta a fronte delle reazioni dei diversi cavalli: «Io provava ogni giorno, ad ogni passo, e disturbi e amarezze, che troppo mi avvelenavano il piacere che avrei avuto della mia cavalleria. Ora questo tossiva, or quello non volea mangiare: l’uno zoppicava, all’altro si gonfiavan le gambe, all’altro si sgretolavan gli zoccoli; e che so io: egli era un oceano continuo di guai, ed io n’era il primo martire».

La navigazione di «quel passo di mare, per trasportarli di Douvres», cioè il trasbordo della “numerosa carovana” dall’isola al continente, da Dover alle sponde francesi, è occasione per orchestrare il primo atto tragicomico di quel racconto corale, che vede come protagonisti i cavalli imbarcati: «tutti come pecore in branco posti per zavorra della nave, avviliti, sudicissimi da non più si distinguere neppure il bell’oro dei loro vistosi mantelli castagni; e tolte via alcune tavole che li facean da tetto, vederli poi in Calais, prima che si sbarcassero, servire i loro dossi di tavole ai grossolani marinaj che camminavan sopra di
loro come se non fossero stati vivi corpi, ma una vile continuazione di pavimento; e poi vederli tratti per aria da una fune con le quattro gambe spenzolate, e quindi calati nel mare, perché stante la marea non poteva la nave approdare sino alla susseguente mattina; e se non si sbarcavano così quella sera, conveniva lasciarli poi tutta la notte in quella sì scomoda positura imbarcati: in somma vi patii pene continue di morte».

La “marcia” in salita, per i “rompicolli di strade”.

Nel superare le Alpi al Moncenisio, l’Alfieri si paragona ad Annibale

 

Culmine indimenticabile del racconto è il resoconto dell’“ardua ed epica impresa” del “passo
dell’Alpi fra Laneborgo, e la Novalesa”. Alfieri ammette la fatica di “ben ordinare ed eseguire la marcia”, in modo da garantirsi che “non succedesse disgrazia nessuna, in una strettezza e malagevolezza sì grande di quei rompicolli di strade”.

I cavalli erano giovani, “vivaci e briosi tanto da richiedere “cure paterne”, benché si trattasse di “bestie sì grosse, e piuttosto gravi”.

La Vita coinvolge il lettore, testimone divertito della perfetta organizzazione messa in atto per portare a termine l’arduo viaggio. Per orchestrare l’operazione e seguirla nei minimi dettagli, Alfieri assunse a Laneborgo (Lanslebourg) un uomo per ogni cavallo, affinché “lo guidasse a piedi per la briglia cortissimo”: «Ad ogni tre cavalli, che l’uno accodato all’altro salivano il monte bel bello, coi loro uomini, ci avea interposto uno de’ miei palafrenieri che
cavalcando un muletto invigilava su i suoi tre che lo precedevano. E così via via di tre in tre. In mezzo poi della marcia stava il maniscalco di Laneborgo con chiodi e martello, e ferri e scarpe posticce per rimediare ai piedi che si venissero a sferrare, che era il maggior pericolo in quei sassacci.

Io poi, come capo dell’espedizione, veniva ultimo, cavalcando il più piccolo e il più leggiero de’ miei cavalli, Frontino, e mi tenea alle due staffe due ajutanti di strada, pedoni sveltissimi, ch’io mandava dalla coda al mezzo o alla testa, portatori de’ miei comandi».

Mentre, nella letteratura di viaggio, non sono mancati i resoconti di scrittori, naturalisti ed esploratori, capaci di esprimere il senso di annichilimento per la maestosità della natura, mirabilmente resa anche in pittura con precisione topografica e prospettica, il racconto di Alfieri si anima di una vivace ironia, spostando l’attenzione  del lettore dalla vertigine dei
paesaggi e dall’emozione della scoperta alla sfida personale, alla propria avventura.

La traversata è compiuta.

A Novalesa l’Alfieri offre vino ad aiutanti, palafrenieri e maniscalchi.

Tutti i cavalli giungono sani e salvi

 

Il culmine della salita è “il Monsenigi”, ovvero il Moncenisio, porta di accesso al Piemonte con la strada sovrastata dalla mole incombente della montagna, ben noto ai tanti viaggiatori provenienti dal nord Europa, particolarmente arduo, prima degli interventi al
tracciato effettuati per volontà di Napoleone, data l’importanza strategica di valico delle Alpi per l’artiglieria pesante.

A distanza di poco più di vent’ anni dall’impresa alfieriana, come testimoniano altri viaggiatori – uno su tutti, erudito, scienziato e giornalista parigino, studioso di antichità, Aubin-Louis Millin, che con una diligenza carica di libri, carte e barattoli in cui conservare frammenti di pietre e minerali, transitò lungo la stessa strada nell’ottobre 1811 – il monastero del Moncenisio offriva ormai un servizio per viandanti, soldati e pellegrini.

Nessun intervento era stato fatto al tempo di Alfieri: lo stato sabaudo sarebbe stato infatti annesso alla Francia nel 1799, con l’abdicazione e l’esilio in Sardegna del Re, Carlo Emanuele IV.

Anticipando la tendenza che di lì a breve gli avrebbe ispirato il cosiddetto Capitolo dei cavalli, dedicato all’amico senese Francesco Gori, indicando il nome e definendo il ritratto psicologico di ogni cavallo, Alfieri umanizza i suoi eroici compagni di viaggio: «quando
poi fummo allo scendere in Italia, mossa in cui sempre i cavalli si sogliono rallegrare, e affrettare il passo, e sconsideratamente anco saltellare, io mutai di posto, e sceso di cavallo mi posi in testa di tutti, a piedi, scendendo ad oncia ad oncia; e per maggiormente anche
ritardare la scesa, avea posti in testa i cavalli più gravi e più grossi; e gli ajutanti correano intanto su e giù per tenerli tutti insieme senza intervallo nessuno, altro che la dovuta distanza».

Al termine di quella movimentata avventura, affollata di comparse, fra maniscalchi, palafrenieri e aiutanti vari lungo il fianco della montagna, Alfieri rassicura il lettore: tutti i
cavalli «giunsero sani e salvi alla Novalesa, coi piedi in ottimo essere, e nessunissimo zoppo». Ancora autoironico, in conclusione, è il riferimento alla traversata delle Alpi da parte di Annibale, nel 218 a. C., durante la seconda guerra punica, noto ad Alfieri tramite Tito Livio: «Io, quant’a me, avendo sì felicemente diretto codesto passo, me ne teneva poco meno che Annibale per averci un poco più verso il mezzogiorno fatto traghettare i suoi schiavi e elefanti. Ma se a lui costò molt’aceto, a me costò del vino non poco, che tutti coloro, e guide, e maniscalchi, e palafrenieri, e ajutanti, si tracannarono».

A fine maggio l’arrivo a Torino

L’impresa volge al termine

 

Il viaggio si concluse entro la fine di maggio: il poeta si trattenne a Torino per circa tre settimane, «dopo sette e più anni che vi avea smesso il domicilio», mentre i cavalli, dopo circa una settimana di riposo, ripresero il cammino verso la Toscana.

Sappiamo dalla Vita che presto Alfieri li raggiunse a Siena. Nulla è detto di un passaggio, che presumibilmente non avvenne, ma non si può neppure escludere, per Asti, per salutare la madre, come era avvenuto ad esempio al termine degli anni dei viaggi giovanili, ai primi di maggio del 1772, in una breve sosta prima di giungere a Torino.

A breve distanza di tempo, come si è detto, nell’agosto di quell’anno, il poeta rese protagonisti i suoi quattordici cavalli del Capitolo, composto tra Monte Cenere e San Venanzio, durante il viaggio verso l’Alsazia per raggiungere l’Albany, rivolto all’amico Checco, il Gori, per la morte improvvisa del quale avrebbe di lì a poco composto il dialogo La virtù sconosciuta.

Un capitolo dedicato ai 14 “amici” dell’impresa

A ciascun cavallo una terzina

 

Alfieri stese questo scritto burlesco in terzine, segnando giorno per giorno, secondo la consueta tendenza all’autobiografismo delle rime, il luogo raggiunto lungo il tragitto, ma anche, “col cuore alle volte gioioso”, concedendosi un “poetare festevole”, per dare all’amico le istruzioni necessarie per la custodia degli amati cavalli, prima quelli da sella, poi quelli da tiro, dai medicamenti alla dieta.

Sfilano così nella lettura, chiamati con il loro nome, «di destrier giovincelli un bel drappello, / Forti non men che nobili d’aspetto», come recita il sonetto CI dello stesso anno, a iniziare da quel Frontino, che l’aveva condotto lungo i tracciati scoscesi delle montagne: «Frontino è un tal monello, a cui piccine / Convien le parti far di fieno e biada: / Ch’ei mangeria a suo senno sei decine».

Non a caso, Frontino ha spazio anche nelle lettere del periodo, come in quella del 22 luglio
dell’anno successivo all’amico Mario Bianchi, resoconto di un viaggio da Pisa a Lucca e dell’incontro-scontro tra Frontino e un altro cavallo, “Messer Frontino”, come ironicamente
lo chiama Alfieri, «che sempre rigna a ogni viso nuovo di cavallo, cavalla, asino, mulo, o cammello ch’ei trovi per la via».

Fra i sei più cari («Ma questi sei destrier sono i miei occhi») compaiono Corvo, “destrier di somma agilitate”; Bajardo, “umano, agevole, sincero”; Rondello, “giovine, vispo, saltellante”; Sole, dalla “beltà superba e maestosa”, ma è Fido a primeggiare, quel Fido cantato in ben sette sonetti, lungamente pianto per la sua malattia e morte, “il buon corsiero”, “l’ardente mansueto e schietto”, prediletto dalla donna amata, che lo aveva cavalcato durante il soggiorno romano.

Assente dalla “carovana” della traversata delle Alpi, “il decimo quinto cavallo”, come si legge nella Vita, durante il viaggio a Londra era stato affidato alle cure di Francesco Gori
a Siena.

Ricompare fra gli altri, nel Capitolo, con il suo “vago mantello”: «Ch’oro tu sei quando t’irraggia il Sole; / Né un più bel falbo non ho visto mai».

Seguono i nove “castagni”, dei quali il poeta tenta di “disbrigarsi” con “pochi versuccini”: Leone e Toro, “sani entrambi”; Brillante, dall’“alta mole” e Bell’Aria, “bambolone di quattr’anni appena”; Favorito, “il calesse è il carro suo”; Gentile e Ardente, che sono “un
solo in duo” e, infine, Sincero e Docil, “ultima coppia, e la più calda”.

A pochi mesi dall’ “epica impresa”, il 25 novembre dell’84, Alfieri scriveva al Bianchi: «Mi son prefisso di non parlar più qui di libri, né di lettere in nessun modo, e a chi mi dice Muse, io rispondo cavalli».

Così, il 3 dicembre alla madre: «I miei cavalli hanno prosperato assai nel cessar del caldo,
e sono una gran parte delle mie occupazioni».

E il 21 febbraio dell’anno successivo, terminando una lettera ancora al Bianchi: «Non volto il foglio, perché è un bel sole che mi chiama a cavallo, e ci starò tutto il giorno».

 

Per saperne di più

 

Alfieri e le donne, i turbolenti amori del poeta astigiano, Astigiani n°3, marzo 2013.

Per il racconto dell’ “epica impresa”, Vittorio Alfieri, Vita, Epoca IV, cap. 12 (nelle varie edizioni in commercio);

per le lettere citate, Id., Epistolario, tre voll., Asti, Casa d’Alfieri, 1963, 1981, 1989;

per i sonetti citati e il Capitolo sui cavalli, Id., Rime, Asti, Casa d’Alfieri, 1954;

per la passione di Alfieri per i cavalli, C. Forno, Vittorio Alfieri e l’“amore innato dei cavalli”, in Impegno e passione, Mucchi Editore, Modena 2007, pp. 349- 364 (con relativa nota bibliografica);

per i bozzetti di Giuseppe Manzone nel Museo Alfieriano, C. Forno, Da un affresco mai nato al Teatro della Rivoluzione, ne “il platano”, a. XXXIX, Asti 2014, pp. 356-362

 

L'AUTORE DELL'ARTICOLO

Carla Forno

Astigiani è un'associazione culturale aperta, senza scopo di lucro, che ha bisogno del sostegno di altri "Innamorati dell'Astigiano" per diffondere e divulgare la storia e le storie del territorio.
Tra i suoi obiettivi: la pubblicazione della rivista trimestrale Astigiani, "finalizzata alla raccolta e diffusione di informazioni e ricerche di storia e cultura astigiana dal passato remoto a quello prossimo, con uno sguardo al presente e la visione verso il futuro (dallo statuto), la raccolta di materiale per la creazione di un archivio fotografico, video e documentale collegato al progetto "Granai della memoria", la realizzazione di presentazioni pubbliche e altri eventi legati al recupero della memoria del territorio.

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