Che sia un appuntamento in famiglia, un ritrovo tra amici o tra colleghi di lavoro, quella del pranzo di Natale è una consuetudine cui non si rinuncia. Ci piace ricordare, ad esempio, che nel 1997 la Delegazione di Asti dell’Accademia italiana della cucina si ritrovò il 19 dicembre per la “Cena degli auguri natalizi” al ristorante del castello di Mango. Il menù era impreziosito da una xilografia su legno di Remo Wolf, artista e incisore trentino di fama internazionale, prevedeva ghiottonerie varie – dal patè di selvaggina al tortlot ed cisi, antico piatto delle alte Langhe a base di ceci e verdure, dall’anguilla arrosto ai classici agnolotti – per culminare nell’imprescindibile gran cappone lesso con le sue salse (tartara, bagnetto, bagna di acciuga cruda), piatto natalizio per eccellenza. Ecco dunque il cappone.
Per presentarlo siamo ricorsi ad Alexandre Dumas (1824-1895), figlio naturale del famoso e omonimo padre, ed egli stesso scrittore. Appassionato di cibo e gourmet impenitente, gli dobbiamo un ricchissimo Grande dizionario di cucina, in cui, a proposito del cappone, scrive: «Abbiamo già accennato altrove che gli abitanti dell’isola di Cos avevano insegnato ai Romani l’arte di ingrassare i volatili. La grande diffusione di questo allevamento a Roma, che si faceva in luoghi chiusi e ombrosi, obbligò il console Caio Fanio ad emanare una legge che proibiva di allevare le galline per strada. Cosa fecero allora i Romani per eludere la legge? Cominciarono a castrare i galli e ad allevarli come galline. Dobbiamo quindi l’introduzione dei capponi sulle tavole moderne al divieto emanato dai Romani di mangiare le pollastre».
Che, nel tempo, il gallo castrato sia diventato cibo di lusso, è testimoniato dai cuochi rinascimentali, da certe pagine letterarie (come non ricordare il Renzo manzoniano che reca una coppia di capponi all’Azzeccagarbugli per ingraziarselo?) e, per quanto attiene al Piemonte, dai ricettari “nobili” di Settecento e Ottocento: da questi, il cappone è passato sulle tavole delle grandi ricorrenze. Secondo le vigenti disposizioni europee, i capponi, per essere definiti tali, devono essere abbattuti ad almeno 140 giorni di età e almeno 77 giorni dopo la castrazione. In questo modo, l’animale aumenta la sua componente di grasso, sia superficiale che intramuscolare, mentre la carne diventa abbondante, gustosa e delicata. Caratteristiche analoghe troviamo nel brodo che se ne ricava dopo la bollitura, in cui si cuociono anolini, cappelletti, tortellini. E il cappone è ottimo pure arrosto, accompagnato dalla mostarda di Cremona. In Italia, Emilia-Romagna, Veneto, Brianza e alcune zone del Meridione producono eccellenti esemplari, ma il Piemonte sa fare la sua parte. Se quello di Morozzo, in provincia di Cuneo, è stato uno dei primi Presìdi Slow Food e ha raggiunto fama nazionale, l’Astigiano non è da meno e coltiva tradizioni antiche che si perpetuano ogni anno nel periodo invernale, in particolare a Vesime e a San Damiano, luoghi di produzione e di commercio del cappone natalizio cui dedicano – nella prima metà del mese di dicembre – mercati e fiere, come quella di Santa Lucia a Vesime.