sabato 27 Luglio, 2024
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Se ci penso

Revignano era il nostro Maracanà

Un torneo di calcio “autogestito” durato più di vent’anni

Il campo di gioco era uno sghembo trapezio. In leggera discesa. Una porta addossata alla collina, più in alto; l’altra, in basso e sul lato più lungo, a un tiro di voce (e di orecchio) dalla canonica, dal teatrino e la chiesa. Il teatrino serviva per cambiarsi, a quei pochi che non arrivavano già pronti a giocare. Qualche metro più in là, la fontanella dell’acqua: al posto di docce e servizi. Ancora più in là c’era don Nebiolo, invisibile, ma vispo d’udito, pronto a captare irripetibili insulti o peggio bestemmie e a minacciare sanzioni. Il treno diretto – che andava a Torino e da Torino veniva – passava nella fonda, sul retro di chiesa e di quel pugno di case. Era il sessantotto, massimo il sessantanove, anni carichi di mille sospiri, di belle tensioni. Magari confuse. A Torino ci andavano tanti di noi, col diretto, sei giorni su sette, chi per l’Università, spesso occupata, chi per la Fiat e per i turni di fabbrica. Ma il venerdì pomeriggio “cascasse tutto!” si chiudeva: l’impegno e il lavoro, le lezioni e i seminari su Svevo, la Fiom e i suoi delegati, i baracchini di frittata e spinaci. Si chiudeva il cervello dedicato a quel mondo. Tornando da Torino in treno a Revignano si abbassavano un po’ i finestrini, si fiutava l’aria, per capire, dall’odore che saliva dal Borbore, se il giorno dopo, sabato, si sarebbe potuto giocare. Nonostante la pioggia o la neve o la nebbia, nonostante l’influenza o un esame andato in malora. La conferma poi arrivava puntuale dal summit dei portici, angolo Cocchi, sul far della sera. Agli inizi soltanto uno sparuto drappello, quattro gatti in calore di calcio, le scarpe e le suole “borghesi” a stropicciar segatura che Beppe del bar aveva sparso davanti agli ingressi, per spinger via le chiazze di pioggia. Il meteo in Tv era, allora, la faccia del colonnello Edmondo Bernacca, poco più che un frate indovino. Mai fidarsi! Poi il sabato, ore 14,15. Finalmente il controllo sul campo: zone brulle come spiagge del mare, senza mare ovviamente. Zone irsute come le teste di quasi tutti noi: mai più visti una spazzola o un pettine, da mesi. Se arrivava l’ok, bisognava sapere un sacco di cose: ad esempio che l’area posta più in alto, in zona collina, sarebbe stata comunque più asciutta e più secca, ma anche più fredda…quella verso le orecchie del prete, invece, più molle e insidiosa. Oppure che giostrando sulla fascia a oriente ti saresti abbronzato di più, mentre su quella esposta a occidente ti sarebbe stato più facile, col passar delle ore, schiarire la vista e centrare, eventualmente, perfino la porta. Tre pali da cantiere tenuti insieme con assi inchiodate all’incrocio. Una prova ulteriore – ancor prima del raduno di motorette, di bici e di auto, prima dell’odore indelebile di cuoio vecchio e sudore, di canfora e lana, prima degli strati di voci – era la presenza quasi immobile dei due ragionieri. Ragionier Ratti e ragionier Miroglio. Il nostro pubblico già sugli spalti. Le loro due Seicento sul piazzale della chiesa. «Ragioniere buongiorno, come va? E suo figlio?» ; «Buongiorno a lei, ragioniere, la facciamo andare, e mio figlio oggi gioca. E lei come sta? E suo figlio?»; «Bene, e anche mio figlio oggi gioca » Ricordo le loro due sagome tonde, simili, appoggiate ai manici dei due ombrelli chiusi. Due totem del cuore.

Coppe e trofei per la squadra pigliatutto. È la Juve Ruffi del 1973. In piedi: il massaggiatore Aldo “Lupo” Nosenzo, Bruno Ruffinengo, Beppe Bricchi, Musso, Moretta, don Nebiolo; accosciati: Carlo Ruffinengo con il piccolo Luca, Fassola, Genta, Ruffa.

Patron Carlo Ruffinengo gioca e dà le regole

 

Il Torneo di Revignano agli inizi degli anni Settanta decollò: i quattro per quattro gatti divisi in due squadre di otto, trovarono un patron: Carlo Ruffinengo, allora chimico alle Officine Morando. Poi il fratello di Carlo, Bruno, il cugino di Carlo, Cesco, e gli amici di Carlo. La loro squadra era la Juve Ruffi, colori sociali – ovvio – bianconero a strisce verticali. Prima di dominare per sempre il torneo, la squadra di Carlo ha anche fatto i miracoli dedicandosi al campo di gioco. A colpi di ruspa fu limato il dislivello tra le due porte, imbiancate le traverse e i pali, messe le reti, tirate le righe col gesso, piantate le bandierine dei corner.  Si riuscì anche a far crescere l’erba sul campo per poi pettinarla con simmetrie struggenti. E a bagnarla quando ce n’era bisogno. Un campo così, col passar del tempo e il tam tam delle voci, diventò un’attrazione, un’irresistibile esca. Era il nostro Maracanà. Con gli anni, è stato un miraggio, un covo, un rifugio. Per gli avventurieri del gol di provincia, per dilettanti all’assalto, per alcuni sedicenti campioni in lento declino, per promesse con un luminoso futuro già alle spalle. Per studenti e operai uniti nella rissa, per futuri avvocati e notai, per dottori e infermieri, per bidelli e insegnanti. Per quella che era, o sarebbe diventata, o avrebbe magari potuto essere davvero, un modello di società democratica, multietnica, trasversale agli umori, al censo, ai costumi di scena e ai dialetti, ma ben salda nei valori e nei sentimenti. Una comunità perfino estrosa, che per regolare la crescita felice di tutto quel traffico, nel ’71 o giù di lì, si diede una costituzione, un regolamento un decalogo. A firmarlo, ovviamente, solo Carlo. Ma con la benedizione del prete. Un mix di buon senso e di timore di Dio. Ci fu attrazione fatale in città. Le squadre, da due divennero quattro e poi sei. All’incirca sessanta (…ma col seguito pur ridotto di parenti, amici e qualche fidanzata, più di cento) persone colorate e puntuali (secondo decalogo), mobilitate – oggi si direbbe  “dal basso” – con l’idea di giocare o di veder giocare. 

Sul campo “da festa” del Censìn Bosia la foto ricordo di una formazione della ”nasiunàl” di Revignano. In piedi: Carlo Ruffinengo con Luca, Fassola, Bianchino, Genta, Piergiorgio Bricchi, Bruno Ruffinengo, Ratti, Scanavino; accosciati: Signorelli, Martinengo, Ruffa, Miroglio, Ravera

 

Le squadre avevano nomi di fantasia e c’era la Juve Ruffi

 

Battezzare le squadre. Fu un bel vezzo. L’idea fissa e l’impegno per dar sugo alla storia era sconfiggere la Juve Ruffi (o dei Ruffi). Più che un’idea una velleità. Almeno sul terreno di gioco. Più facile farlo cimentandosi in creatività e ironie. Così si formarono l’equipe dei Nada Estudiantes (universitari, come dire, un po’ fuori corso), poi il PSG (non Paris Saint Germain, ma “Polisportiva Gerusalemme”… ebrei erranti sul prato?), poi gli Zimpogeni, il nome più surreale e onomatopeico della serie, destinato a restar negli annali, i Nibecurtzen (evidente riferimento a stature non proprio teutoniche), o gli Scientifici (…forse in ossequio o in spregio al liceo d’origine), o il Bangladesh (per puro gusto d’estremismo e d’oriente). Altre opzioni seccamente cromatiche (Bianchi, Neri, Rossi), senza retro-letture politiche, almeno agli inizi. La squadra “Chevron” era nata non da sponsorizzazioni petrolifere, ma solo da ragioni estetiche: piacque a noi che la mettemmo insieme, il logo bianco rosso e blu della marca di benzine. Noi finimmo ultimi o quasi, quella volta, e decisamente senza carburante. Per ripicca fondammo, anni dopo, la squadra del “Sole che ride”, ambientalista e “schierata”, la prima e l’unica a mettere in centrocampo e in regia una donna: “Palmarosa” Negro, oggi nota come musicista e cantante. Ma c’erano anche – rare però – opzioni “professionali”: si vedano gli Ospedalieri, che schierarono via via i medici, i paramedici e i futuri primari di quasi tutti i reparti dell’ASL 69 (Scassa, tra gli altri, Guadagnin, Zola, Gentile…). Una troupe mordace e polemica. Bizzosa nei ranghi e nei leader. L’infermiere Palumbo come il dott. Barreca, caratterini estroversi e spigoli acuti. O Nanni Zola, grande tecnica e due bei baffetti alla Gable, che era solito sbottare sempre e di brutto. Né c’era regolamento o decalogo – siglato da Carlo – che lo sapesse frenare. Finché si decise, in conclave, di censurare le sue intemperanze con il silenzio di tutto il Torneo. Fu così che, alla prima occasione, nessuno replicò alle sue sfuriate. Facce attonite e mute. Scenetta impagabile per un stadio di calcio: una serie di statue intorno a un soggetto che, alla fine e per il bene di tutti, decise di fare autocritica, di darsi dei nomi da solo e insultare, da quel giorno, prevalentemente se stesso. Il problema “ordine pubblico e disciplina”: a Revignano, si cercò di viverlo sempre come priorità. Gli arbitri erano prodotti di casa: ciascuno di noi, a turno, si prestava allo scopo. Una situazione di famiglia, ma chi faceva capricci o gesti inconsulti sapeva che avrebbe pagato. 

Nel rigore di Nanni Zola e nel volo radente di Beppe Bricchi prevale l’estetica sulla sostanza. La palla uscirà, lambendo uno di quei pali in equilibrio precario

Disciplina in campo chi sgarrava doveva pagare da bere

 

Se non bastavano gli editti del prete (…non vi apro i cancelli, mai più!»), o le leggi di Carlo, o le decisioni insondabili della Commissione (sempre Carlo), nei casi più gravi si metteva in funzione il Tribunale Speciale. Cioè il gruppetto degli amici più cari e fedeli di Carlo. A presiederlo un futuro avvocato, il dott. Passeri Pier Navino. In giacca e cravatta era molto più tosto di quando, di sabato, si esponeva, pacioso, in maglietta e mutande. Gli imputati temevano la sua bonomia. Aveva un facciotto tondo e ammiccante… E temevano le sue condanne. Cesco Fassola, ad esempio, subìto il processo per gioco violento, dovette pagare da bere a tutto il Torneo. Allo Stregatto mi pare. Fantasia al potere anche nella scelta dei nomi d’arte o di trincea: Biancalbe era Alberto Bianchino a cui spesso, per via dell’innata dote di immerger se stesso nel fango, veniva appioppato pure un “bisunto”, o anche “il superosso” (…superosso non superasso, come avrebbe preteso lui) per come trattava le tibie degli altri; poi Beppe Ponzone “Mitraglia”, “Il barone” era Silvestro, “Belgiorgio” era Bricchi senior, “Peppinello” Bricchi junior, ma in casa Ruffi era detto anche, affettuosamente, “Canarino”.

 

Tutti giocavano con uno “stranom” meglio se ironico

 

Altro tandem di dioscuri: i Terzuolo: “Paulin”, Paolo, il senior e “Terzuolino”, Beppe, junior. E ancora Gianni Giordano “Long Jon”, Bruno Guadagnin “Nicolai” per il vizio in comune col difensore del Cagliari di siglare spettacolari autogoal, Mauro Ricci “Capello” (origini e classe condivise col Fabio nazionale). Calissano Luigi fu per sempre, anche a torneo archiviato, “Califfo”, vuoi per il pizzetto da arabo e per il caracollar da cammello, vuoi forse per il suo incessante e stridulo salmodiare da minareto; il fratello più piccolo, Beppe, ovviamente fu “Califfino”, ma solo per questioni dinastiche. Ancora: Bomber Artoni (Ambrogio), Lele “roccia” (Gabriele Scanavino), “Baffo” Cesco Fassola, “Milord” Genta, “Il moro” Franco Moretta, “Indios” Giovanni Ruffa, “Nureyev” Sciaccaluga, “Giova” Gianluigi Porro, il “Beto” Alberto Marello; “l’Astro” era Cesare Saturno, …quasi ovvio, “El niño” era Santagati, “Lutring” era Lutri, ma detto anche “Pinochet” per il vezzo di giocare con gli occhiali bruniti. Poi i portieri: Pepi Ravera “l’ingegnere”. Claudio Ratti, detto “L’oriundo” dopo aver cambiato per una volta casacca, “Portierlungo o Pinza” era Claudio Micca. “San Guido (faceva miracoli) era Guido Giraudi, il “papà” era Gheduzzi (…paterno, appunto, nel confortare e dirigere i suoi difensori). “Artigli” era Asara. Tra i più corti, invece, il sottoscritto: Nanu (da Galderisi) o “Topogoal per via di qualche rete rapinata di furia; e poi l’impeccabile “Miguel”, al secolo Pallottino Michele, in campo maglietta sempre pulita e, negli appuntamenti al bar, pantaloni con la riga e giacca tinta su tinta, nell’insieme un metro e cinquantacinque di stoffa.

La prima contaminazione politica in campo a Revignano: la squadra del “Sole che ride”. In piedi: Porro, Ruffa, Borio, Colajanna; accosciati: Beppe Terzuolo, Bianchino, Miroglio, Marchisio

Il calciomercato del torneo era d’estate sotto i portici di piazza Alfieri

 

Un elenco possente, destinato a gonfiarsi e rinnovarsi di trovate e di simboli, specie in occasione del calcio mercato che si celebrava invariabilmente, finite le ferie d’estate,  sotto i voltoni dei portici di piazza Alfieri. «Io ti do, tu mi dai! » – una vasca, due vasche. I capitani discutevano. Trattative da figurine Panini. Intatta restava soltanto la Juve. Carlo partecipava al mercato con distacco e sussiego. Raramente modificava l’assetto («squadra che vince non si tocca!»). Se lo faceva era solo per aggiungere un asso. Come per l’acquisto di Gianni Agosto, ad esempio, che nel 1976 finì il torneo con 41 reti all’attivo. L’ingolfarsi a Revignano di personaggi strambi e di eroi fece presto gola all’informazione cittadina. Dopo l’avvio in sordina, il Torneo di Revignano trovò spazio e attenzione sui giornali locali, Il Cittadino come La Nuova Provincia. Prima solo qualche trafiletto distratto, poi il proceder stesso dei fatti si conquistò titoli in grassetto e colonne. I cronisti mandati ai bordi del prato erano, però, più che altro poeti e scrittori. Artisti. In grado comunque di captare il surrealismo bacato e allargato del gruppo. Un articolo, ad esempio, venne dedicato a Mimmo Battaglia, un po’ abate e un po’ giunco, che, quando pioveva, soleva indossare, dentro le scarpette a bulloni, due sacchetti di nylon per non bagnarsi le dita dei piedi. Foto e cronaca che fecero epoca. La crescita produsse un effetto scontato: troppa gente, poco spazio, quindi necessità di emigrare. Fu così anche per il Torneo. Revignano restò ancora, ovviamente, come “campo centrale”, ma fu necessario trovar altri “stadi” in mezza provincia. I Comboniani, Trincere e Torrazzo, Serravalle e Sessant, Antignano, il Don Bosco: un giocare a Monopoli con la scusa di tirar calci al pallone. Verso quei luoghi, tutti i sabati, partivamo come bande cocciute di nomadi. In auto, in moto, in bici. Quando si giocava in frazione, qualcuno anche a piedi o di corsa, per scaldare le gambe. Diaspore di andate e ritorni che trovavano pace, alla sera, con i piedi sotto una tavola, spesso del Ciabot del Barbera di via Lamarmora. Tra le tessere del nostro Monopoli, di mezzo ci fu perfino il “Comunale”, il Censìn Bosia, che si apriva due volte all’anno per ospitare “la nostra nasiunàl”. Era la selezione, la “seleçao”, la crema del Torneo che in maglia azzurra d’ordinanza era chiamata, per ordine di Carlo, a sfidare i ruvidi e misteriosi avversari del “Politecnico” di Torino. Non si sapeva nulla, assolutamente nulla, di loro: da dove spuntassero, chi li avesse cercati, se davvero studiassero da ingegneri, se fossero torinesi poi, con tutti quei “minchia!” nell’istigarsi e nel commentare le azioni. Restò un enigma irrisolto. Alla nasiunàl e alle premiazioni di fine stagione venivano dedicate, ogni anno, in dicembre, serate di festa in cui si distribuivano coppe e trofei, si mettevano in circolo foto. Soprattutto si assisteva, con un’emozione inusuale, alla rituale proiezione dei filmini “super otto” che una troupe di registi aveva provveduto a girare e montare.  L’anno in cui si giocò anche al Don Bosco fu forse l’ultimo. Straordinario, però: io vinsi il titolo di capocannoniere e la mia squadra vinse la coppa. Ma Revignano incominciò a diventare abbastanza lontano da noi. Così gira la vita. Per fortuna non ci fu una “fine” ufficiale. Con salamelecchi e saluti. Semplicemente, un bel giorno, Carlo smise di far correr la voce. Amen. Se ci si va oggi, Revignano è un alone sfocato, una foto in bianco nero. Cosa resta? Tra i tanti ricordi un episodio emblematico. Biancalbe, il “superosso”, che mi trancia le gambe con un’entrata assassina: superato lo choc, mi alzo, mi frego la botta e lo guardo allibito. Lui, con il piglio e la voce tagliente che l’avrebbero fatto poi Sindaco, mi fa: «Ehhhh, il calcio non è mica uno sport da donnine!». Anticipando di un secolo il femminismo di Tavecchio e compagni. Io resto senza parole. Per pochi secondi, però. Poi mi scappa da ridere. Anche a lui. Revignano era una faccenda così. Botte da orbi, magari, e poi scambiarsi quasi tutto di bello. Suggerimento di un saggio: «Se e quando vi capitano momenti i cui vi sentite felici, per favore, fateci caso!».  

 

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