I De André sfollano nel 1942 in una cascina di Revignano
Un uomo elegante esce dalla casa contadina. Lo chiamano Professore, incute soggezione, ma è gentile, affabile. Si ferma sull’aia, osserva prati, campi di grano, il bosco in fondo, poi dice: “Va bene. La compro”. Riflette e aggiunge: “Dobbiamo costruirne una accanto per il mezzadro. E in fretta”. Arrivato qui su consiglio d’un parente della moglie che si occupa di mediazioni immobiliari, l’8 gennaio 1942 Giuseppe De André, laureato in Filosofia, torinese trasferitosi a Genova (dove è preside e proprietario di una scuola), firma il contratto. Vuole portare la famiglia al riparo dalla guerra e dai bombardamenti. Ha scelto le campagne di Revignano, alle porte di Asti verso San Damiano.
Alla Cascina dell’Orto, accompagna la moglie, Luisa Amerio, la madre Rita Perucca e la suocera Margherita, i figli Mauro, di sei anni, e Fabrizio, Bicio, di due, nato il 18 febbraio 1940. Nella costruzione nuova, nata veloce lì accanto, vengono ad abitare il mezzadro Emilio Fassio e la moglie Felicina. A dare il benvenuto agli sfollati sono i vicini, Pasquale Manfieri, la moglie Eugenia, il figlio Vigìn (per l’anagrafe Giuseppe Luigi), la nuora Rosetta e la figlia Nina, due anni, come Bicio, che crescerà con lui, saranno inseparabili. La famiglia della buona borghesia genovese, con radici piemontesi, si adatta disinvolta alla vita di campagna, qualcuno osserva con meraviglia la signora Luisa che a metà pomeriggio prepara e serve il tè. Il piccolo Fabrizio è avvolto, affascinato, conquistato dal luogo, dagli odori e dagli spazi. Il Professore va e viene da Genova con sempre maggior difficoltà e prudenza: la polizia fascista lo sospetta d’aver aiutato a nascondersi o a fuggire allievi ebrei della sua scuola e le loro famiglie. I sospetti diverranno certezza e sarà un “ricercato”.
Il professore arriva con la moglie i due figli, la madre e la suocera L’intenso legame con i Manfieri e con i Fassio, mezzadri contadini
Anche la casa di Revignano si farà presto insicura, molto tempo De André padre dovrà trascorrere rintanato, a neanche un chilometro da lì, nei sotterranei della villa di Mario Momigliano, ebreo, proprietario di un deposito di oli in via d’Azeglio ad Asti. Anni che Fabrizio rievocherà in interviste e chiacchierate amichevoli e farà affiorare in canzoni. Se Mauro è riflessivo, silenzioso, Bicio è vento libero nel mezzo della natura, è il piccolo da coccolare e tenere a freno, in una contesa tra nonne che finiscono per litigare spesso: “Non so per quale discussione”, racconterà Nina, “una delle due ci arrivò davanti alla porta con tagliatelle e sugo che scendevano dalle tempie fino al collo: l’altra le aveva rovesciato in testa il grilét, la zuppiera con tutto quel che c’era dentro”.
Le foto d’allora ritraggono Fabrizio in braccio alla madre nell’aia (paffutello da sembrar quasi un minuscolo Paolo Villaggio, il suo futuro amico e coautore), nel prato con una giacca da adulto del padre che come un mantello scende dai capelli alle caviglie, con Nina su un carretto, con Mauro e Nina nel cortile, con papà nella neve accanto a uno slittino, poi più avanti il giorno del compleanno, febbraio 1945, con la madre davanti alla torta con cinque candeline. Mentre Felicina, neomamma, bada alla figlia Annamaria, lo guida tra campi, boschi e animali il fattore Emilio, che gli racconta storie di terra e di uomini, gli fa scoprire semi e fiori, se lo porta appresso quando va a caccia e gli insegna: “Il cacciatore deve rispettare nidi e tane, la selvaggina con i piccoli. Non si spara per un gioco, si spara a quel che serve per mangiare”.
E inanella storie di cacciatori balordi, che partono con una bottiglia piena e tornano sbronzi, con il fucile pericolosamente in spalla al contrario, si addormentano nei fossi fino a che un braccio paziente non va a recuperarli e poi vantano avventure buone per le osterie.
La paura dei bombardamenti le esplorazioni lungo il Borbore e la raccolta dei bossoli a Vaglierano
Ma come passano lepri e tordi, passa di qui anche la guerra, passa la furia tedesca e fascista, avanza fino a quello spicchio di fieno e bestiame, copre la voce di Emilio che incita le vacche Rossa e Bianca a spostarsi: bogia ‘l cul. La sera si oscurano le finestre con i cartoni. Nel silenzio si avvicina un rombo: “È Pippo, è Pippo”, il ricognitore che dicono mitragli dal cielo ogni luce. E i bombardieri appaiono anche di giorno: uno scoppio spaventoso spazza campi e prati e cortili, Fabrizio è sollevato in volo e finisce disteso a terra, immobile, pare morto. Corrono tutti.
Il racconto di Nina: “Vedemmo che non aveva ferite. Aprì gli occhi stranito. Per farlo riprendere gli diedero un goccio di cognac”. Ricorderà lui, prima di un concerto proprio nell’Astigiano: “Seguivamo Emilio a caccia e a pesca sulle rive del Borbore e con la neve seguivamo le orme del tasso fino alla tana. Vivevamo a nostro modo anche la guerra: per noi bambini il divertimento maggiore era andare a raccogliere i bossoli. Quando bombardarono la stazione di Vaglierano ne portammo a casa dei chili”.
Un carretto con l’asinella e l’altalena dove vede “Nina volare”
E ancora: “Quando passavano soldati mio padre, ricercato, stava nascosto. Una mattina si fermò sull’aia una camionetta con un ufficiale e due militari, con scritte e simboli cuciti sulle uniformi. Avevano fame, ma non razziavano, chiedevano quasi con cortesia. Mia nonna Margherita andò loro incontro con la sua faccia furba. Discussero per un po’, poi se ne andarono con la gallina più magra, spelacchiata e malata di tutto il pollaio (aveva la puia, mi spiegò la nonna) e due libri tedeschi che mio padre aveva portato lì da Genova. Quando i tedeschi se ne erano già andati e lui tornò dal nascondiglio era furibondo: potevano dar via tutte le galline del creato, ma i libri no”. Con le galline Bicio ha preso confidenza: “Mia nonna Margherita e Felicina mi portavano con loro a fare il giro: per capire se l’uovo era in arrivo s’infilava un dito nel didietro per sentire se c’era. Se per nove giorni non si sentiva niente, le tiravano il collo e la si mangiava”.
Mauro incomincia le elementari, Fabrizio accarezza già la musica. Una foto lo sorprende con una fisarmonica che rispetto a lui è immensa, lo ricopre e lo domina. Prova con il violino (ma quando di violino, a Genova, dovrà prender lezioni, si disamorerà. La prima chitarra la riceverà in dono dalla madre nel 1954). Con il fratello s’avventura tra campi e prati: “Andavamo per sarìdole, i prataioli, con i figli dei contadini. Per loro i bambini di città erano stranieri dei quali farsi burle. Un giorno a Mauro scappò un bisogno e loro gli consigliarono delle foglie per pulirsi. Erano di gratacu, e pungevano come le ortiche”. Quando torna affamato, si lancia sul pane appena sfornato da Eugenia, nonna di Nina e sua “terza nonna”. Vive nella natura. Tutti sono seduti a tavola e lui non arriva. Racconterà la madre: “Un giorno – aveva poco più di quattro anni – fu sgridato con molta decisione. Reagì dicendo che se ne sarebbe andato per sempre. Prese la valigetta di legno con dentro i soldatini e partì per il prato”.
Avanza, avanza, poi alza gli occhi, vede un tramonto veloce e torna indietro. Quando il padre può stare alla cascina senza nascondersi, asseconda l’indole di Fabrizio, fino a stupire i contadini. Una vacca è prossima al parto, gli adulti tengono lontani i figli. Giuseppe De André lo chiama: “Vieni a vedere la bellezza della vita che incomincia”. In dicembre il Professore confabula con Emilio, organizza un regalo spettacolare: a Natale sull’aia c’è un carretto e tra le stanghe c’è Lidia, l’asinella che paziente porterà i bambini lungo la strada sterrata dalla cascina al pianoro. La sera Fabrizio vorrebbe far entrare a dormire in casa anche Lidia.
“La guerra di Piero” ispirata dai racconti dello zio soldato in Albania
È la primavera del 1945, è la Liberazione. Nel cortile avanza un uomo smagrito, spossato, quasi timido. È lo zio Francesco, il fratello di Luisa Amerio, lo zio che torna dalla prigionia, dal campo di concentramento tedesco. Lo avevano preso in Albania. Si fa festa alla Cascina dell’Orto, è musica fino a sera tarda, sotto la musica la voce piegata e sempre gentile d’un uomo che narra frammenti del suo “viaggio”, a combattere sconosciuti e imprigionato da quelli che furono gli arroganti alleati.
Alla fine del 1945 i De André tornano a Genova ma Bicio ricostruisce la sua campagna sul balcone di casa
La guerra di Piero prende le mosse da lui, da quelle parole sull’aia e poi in cucina nelle sere a seguire, mescolate alla suggestione ispirata da versi del poeta piacentino Vico Paveri: “E una mattina / che cantava l’allodola / un giovane biondo / con gli stivali bassi / dal tallone di ferro / l’ammazzò a tradimento / in un campo di grano / dove sta di casa la talpa / e i papaveri”. La guerra è finita, si va ciascuno incontro al futuro recuperando il passato: “Eravamo tutti felici di rientrare in città”, racconterà mamma Luisa: “Lui no, lui era disperato: io rimango qui. Non voleva lasciare la campagna e tanto meno i suoi amici”. I genitori promettono: faremo le vacanze estive a Revignano.
A Genova il bambino-contadino ricostruisce come può l’ambiente: “Ai libri preferivo gli animali che avevo radunato, in una sorta di “comune” vociante, sul terrazzo di casa: uccelli, porcellini d’India, conigli, colombi e anche un paio di oche, che mi ricordavano i tempi felici, quando eravamo in campagna”. Alla Cascina dell’Orto si torna puntuali: “Le vacanze estive duravano quattro mesi e, a parte quindici giorni di mare, che avevamo sotto casa, le passavamo tutte in campagna”. Sono giochi nei prati, discese con Nina a veder la salamandra nella fontana di pietra sopra una sorgente all’inizio del declivio, poi giù fino al rio Vallandona. Con lei e con gli altri bambini guarda curioso i documentari proiettati dal Professore, poi insieme fanno coro nelle canzoncine.
Nina Manfieri ricorda: “Cosette da scuola elementare, come La vecchia fattoria. E lui, come già pensasse a non sporcare la voce, evitava tutti gli animali che richiedevano di forzarla: il maiale toccava sempre agli altri, lui si accaparrava il gatto, al massimo il cane”.
D’estate si torna per le vacanze alla Cascina dell’Orto tra giochi e scoperte
È in continuo movimento fra campi e prati e boschi, è pigro negli altri giochi. A casa di Nina c’è un’altalena vecchiotta, Giuseppe De André ne fa montare una nuova: “Ho visto Nina volare / tra le corde dell’altalena”. Ma spingere è meno divertente che dondolare, perciò il più delle volte è Nina a veder Fabrizio volare. Con lei litiga, con il ricatto dei bambini: “Bada Nina, se mi fai arrabbiare non ti sposo”. Il Professore arriva da Genova. Come sempre va a salutare tutti, Emilio, Felicina, i Manfieri. “Dov’è Nina?”, domanda. E lei compare con una grossa fasciatura sulla coscia. “Che hai fatto lì?”. Risponde candida: “Bicio mi ha morso”. Giuseppe De André fulmina il figlio: “Con te parlo dopo”, chiede gelido alle due nonne: “È così che badate ai bambini?”. Finisce in un nuovo litigio tra le due.
Anche con il fratello, Fabrizio non scherza: “Mauro aveva le cose che io non ho, era razionale, rigoroso, responsabile”. (Mauro morirà d’improvviso a 53 anni per aneurisma: “Adesso dovrò diventare adulto”). Il suo racconto tra presente e passato: “Oggi che non c’è più, ricordo con doloroso rimpianto le sue prediche, i consigli che non mi sognavo nemmeno di chiedere e attraverso i quali lui combinava l’affetto con i doveri di fratello maggiore. Ma allora vedevo in lui una specie di emissario dei miei maestri, ai quali non perdonavo di impormi quello che dovevo leggere e quello che dovevo pensare. Così gli rispondevo a cazzotti e lui, per paura di farmi male, cercava di schivarli senza contrattaccare. Finché un giorno, dietro consiglio di mio padre, me le suonò di santa ragione”.
I Fassio si trasferiscono in Valceresa e nel 1950 i De André vendono casa ma il loro legame continua
Cinque estati corrono via leste. Emilio e Felicina nel ’48 si sono trasferiti con la famiglia poco distante, in una casa di Valceresa di Casabianca. Al loro posto, per il lavoro di mezzadri, è venuta la famiglia Fasano: Domenica, vedova, con i figli – come per una continuità – Felice e Felicina. È il 1950 quando il Professore vende la casa. Nonna Margherita era tornata ad abitare a Genova e nonna Rita è andata in un condominio di Asti, in via Carducci, “un cortilone con le ringhiere”, ricorderà Fabrizio, “dove tutti sapevano tutto di tutti”.
Ad Asti tornano i De André, e ogni volta fanno quei pochi chilometri per Valceresa. Felicina, che aveva smesso di guardare con stupore la signora Luisa che nel pomeriggio prendeva il tè, adesso lo prepara per lei che viene a far visita: “Non ci hanno mai dimenticati: l’uovo per Annamaria a Pasqua, i doni sotto Natale. Guardavo Fabrizio come fossi la terza nonna”. Sono quattro con Eugenia. A casa dei Fassio e a casa di nonna Rita ad Asti, sul tavolo è spesso aperta la Gazzetta del Popolo. Ed è quasi di certo su quelle pagine che Fabrizio ragazzino s’imbatte nella notizia d’una prostituta uccisa e buttata in un fiume.
Spiegherà poi: “Avrò avuto tredici o quattordici anni. Vidi su un giornale la storia di quella poveretta ammazzata e scaraventata nel Tanaro. Una decina d’anni dopo, pensandoci, volli reinventarle una vita e addolcirle la morte”. Su quella dichiarazione si sono scatenate ricerche. L’unica che è arrivata a una conclusione documentata è quella dello psicologo astigiano Roberto Argenta, appassionato, oltre che di De André, del Tanaro. Con ogni probabilità Fabrizio citò il Tanaro perché dove scorre il Tanaro aveva letto la notizia.
L’ispirazione della “Canzone di Marinella” da una notizia di cronaca nera letta su un giornale ad Asti
Ma l’unico fatto di cronaca nera che può corrispondere a quello che ispirò la Canzone di Marinella fu quello di Maria Boccuzzi, prostituta nei casini pre-Merlin e poi in strada, crivellata di colpi nel 1953 a 32 anni e buttata nel fiume Olona, alle porte di Milano, zona Fiera (oggi quel tratto è interrato). La sua storia – mancata ballerina di seconda fila con Wanda Osiris – oscillava tra Milano e Torino, soprattutto per questo ripresa con risalto dai due giornali non milanesi, La Stampa e La Gazzetta del Popolo.
A Genova Bicio ragazzino scopre le “bande” di coetanei e annusa la politica dei grandi attraverso il padre (vicesindaco, poi presidente dell’Ente Fiera del Mare, poi ancora della Eridania di proprietà del gruppo Monti): “Mio padre era l’unico consigliere comunale del partito repubblicano, infatti lo chiamavano il repubblicùno. Capitò che alcune domeniche, dovendo fare un comizio, portasse con sé tutta la famiglia, all’americana. In quartieri dove evidentemente avevano tutt’altre idee, gridavano minacciosi. Lui, calmo, continuava a parlare senza alcuna paura, mentre io e Mauro, lì dietro di lui, vestiti per benino, da festa, paura ne avevamo da vendere. Niente da fare: si doveva star lì fino alla fine”.
Quel ritorno in treno a 14 anni a rivedere i luoghi dell’infanzia
Fabrizio ha nostalgia. Torna ad Asti anche da solo, in treno. E da qui, a quattordici anni, prende un altro treno, scende alla stazione di Vaglierano e a piedi sale alla Cascina dell’Orto. Si muove incantato e felice. Quando se ne va, vedono che c’è qualcosa a terra dov’era seduto. Lo richiamano, col nome di bambino: “Bicio!”. Si volta, come se quel richiamo dovesse ancorarlo. “Bicio, hai perso il portafoglio”.
Fabrizio genovese vive la città come fosse una grande campagna di case intorno a Revignano: “I miei genitori mi hanno sempre lasciato una libertà enorme. Miei amici erano alcuni bambini che la gente per bene, allora, chiamava ragazzi di strada, scugnizzi svelti di parola e di mano, che conoscevano meglio le parolacce dei congiuntivi, detestavano la scuola quanto me ed erano quelli che sarei voluto essere io, dei perfetti zingari. Eravamo una banda e ci sentivamo tutti una reincarnazione di Robin Hood, avendo capito, fin da bambini, che al mondo c’è chi ha troppo e chi ha niente. E così cercavamo di fare giustizia a modo nostro”.
Da studente torna a casa di nonna Rita in via Carducci e frequenta “La Lucciola”
La madre: “Con il flobert mirò dal terrazzo una finestra aperta dall’altro lato della strada, dove c’era un signore che leggeva il giornale. Sparò e il piumino andò proprio al centro del giornale, per fortuna innocuo per il lettore”. La nonna lo sgrida, lui la chiude in uno sgabuzzino, appena entrata per cercar qualcosa, prima di aprirle la lascia strillare per un pezzo. Ne risente lo studio: “Riuscivo a racimolare la sufficienza perché ai professori ero simpatico. Mio padre, che era un duro e credeva nella meritocrazia, pensò bene di riunire i professori per alcune raccomandazioni: se mio figlio merita 6 dategli 5, se merita 5 dategli 4, se merita 7 non dateglielo proprio! E dalle pagelle pare seguano i consigli: italiano 5, latino 4, filosofia 5, matematica 5, per il resto tutti 6: ripara italiano, latino, filosofia, matematica. A settembre promosso”.
Se a Genova è un selvaggio e non studia, diventa perfetto studente cittadino quando torna ad Asti da nonna Rita. Da via Carducci va alla Lucciola, il locale con giardino di corso Dante frequentato dagli studenti, dove forse – senza conoscersi, senza saper ciascuno del destino altrui – contende fanciulle ai fratelli Paolo e Giorgio Conte. De André ricorderà: “Quando una ragazza mi piaceva, subito buttavo lì che ero uno studente di Genova, sicuro che facesse un certo effetto”. Se le cose si mettevano bene, partiva l’invito: “Perché non vieni a prendere un po’ di sole a Genova ai bagni San Nazario?”. Anche da nonna Rita e dal “cortilone con le ringhiere” gli resta qualcosa destinato ad affacciarsi nelle canzoni. E’ una discussione tra la nonna e una vicina di casa, alla quale viene a dar manforte la figlia.
Nonna Rita zittisce impietosa la giovane: “Ti sta citu, tota con el boech da madama”. Che torna in Mégu Megun: “na scignurin-a che suttu a cua / a gh’a ou garbu da scignua” (una signorina che sotto la coda ha il buco da signora). Con le prime canzoni, con il successo, nelle etichette che danno i giornalisti diventa il cantautore genovese. Lo intervistano sui suoi versi e lo intervistano sui vicoli del porto.
Quando nel 1976 compra la fattoria in Sardegna, in Gallura, molti ne cantano la scoperta della campagna senza sapere che è la sua origine: “La campagna, se la ami, ha benedizioni e anche insidie, ma incolpevoli. Non per niente ci sarei tornato ogni estate, a dormire nella stalla, a giocare con i vitelli, a correre tra i boschi e i prati delle mie paure bambine. E a trentacinque anni mi sono trasferito in Gallura non per fuggire ma per ritrovarla, la campagna. L’erba, il fieno, la terra, quel certo tipo di luna molto spesso diafana, molto più carnale di quella che ci appare in città, tra lo smog di Milano (dove si era trasferito con Dori Ghezzi). E gli stronzi di vacca che diventano legno, sotto il sole. E il dialetto, che rende più saporite anche le bestemmie, e più limpide”.
Quell’intervista sui ricordi astigiani al Dixie nel 1982
Nel 1982, al Dixie di Isola d’Asti, tra le prove e il concerto, andiamo a trovarlo Sergio Miravalle ed io. Quando Sergio gli dice che gli interessa il “Fabrizio astigiano” per un’intervista sulle pagine de La Stampa lo guarda felice e commosso. Non c’è bisogno di domande, regala ricordi senza bisogno di chiedere, parla con gli occhi lucidi di Emilio, di Nina, del Borbore, dei gratacu, delle nonne, della Lucciola come fosse ieri. E’, anche fisicamente, a due passi dalla sua infanzia.
Due giorni dopo chiede: “Non ho visto l’articolo”. È uscito sulla pagine di Asti. “Ma io sono a Milano. Me lo mandi?”. E alle sue radici torna nel 1997, un sabato vigilia del Palio. Lo accoglie Nina con la sua famiglia. Con loro va a “sentire” l’aia, la fontana che, seppur senza salamandra, è ancora lì. Alza la testa, sposta indietro i capelli, guarda i mattoni su in alto, sulla facciata tra finestre e spiovente del tetto, chiede e ascolta, ancora chiede e ascolta. Ha scritto una notte in un appunto: “Le mie canzoni sono degli addii”. Quando è ora di partire se ne va – come quando da ragazzo era tornato a prendere il portafogli – avendo ritrovato qualcosa mai perduto ma rimasto troppo a lungo lontano. Se ne va con la sua infanzia, i suoi affetti, la sua libertà.
Nda
Parte delle testimonianze sono racconti dello stesso Fabrizio De André e di Nina Manfieri all’autore dell’articolo, così come alcuni ricordi della madre e del padre di Fabrizio (datati 1982).
Fonti
Sergio Miravalle, Fabrizio De André, genovese ma con “radici” astigiane, La Stampa –Cronache di Asti, 11/3/1982.
Luigi Granetto (a cura di), Canzoni di Fabrizio De André, Lato Side, 1978.
Luigi Viva, Non per un Dio ma nemmeno per gioco, Feltrinelli, 2000
Guido Harari, E poi, il futuro, Mondadori, 2001.
Le immagini dell’album di famiglia dei De André sono tratte dal volume Una goccia di splendore a cura di Guido Harari, Rizzoli editore , 2007
L’appunto finale sugli addii è tratto da tourbook, a cura di Elena Valdini (con Pepi Morgia), Chiarelettere, 2009.