Era una di quelle notti afose e appiccicaticce che non ti lasciano dormire, specie se sai che da lì a poco la tua vita cambierà radicalmente. A meno di un mese dalla pensione, il primario astigiano di Anestesia e Rianimazione Carlo Ferrari venne svegliato di soprassalto da una telefonata: erano le 2,25 di martedì 3 agosto 1993. Non una parola con la moglie Clelia e i tre figli profondamente addormentati. C’era un’emergenza e lo stavano chiamando. Si vestì rapidamente e arrivò in pochi minuti con l’inseparabile Alfetta grigia in quella che per più di trent’anni era stata la sua seconda casa: il vecchio ospedale con ingresso da via Botallo. Spesso si lamentava di quella struttura ormai cadente, ma vi era affezionato: ci aveva trascorso metà di un’esistenza fatta di notti insonni e caffè bollenti, di ore in sale operatorie e lunghe corsie affollate, a cercare di tirar per i capelli uomini finiti sul baratro della vita.
Anche stavolta era così, con una differenza: quello finito a brandelli sul ciglio della A21 tra Asti e Torino era un idolo degli stadi, Gigi Lentini, passato l’anno prima, a 23 anni, dal Torino al Milan per una vagonata di miliardi, causando quasi una sollevazione di piazza da parte del tifo granata più caldo. L’attaccante quella sera aveva giocato in un triangolare precampionato a Genova con i rossoneri e subito dopo la partita con la sua Porsche gialla 3.6 turbo stava correndo verso Torino: ad aspettarlo la bella Rita Bonaccorso, che era diventata la sua nuova compagna dopo il matrimonio finito con Totò Schillaci, l’eroe delle “notti magiche” dei Mondiali del 1990.
Lentini era solo in auto. Premeva sull’acceleratore e rombavano i tanti cavalli di quel potente motore, ma la sorte e l’imprudenza gli chiesero il conto: bucò la gomma posteriore sinistra e in un autogrill si fece montare il ruotino, ripartendo a tutto gas, senza badare al fatto che con quel ruotino non si può andare a più di 80 all’ora, come era segnalato sul cerchione.
Il bolide aveva da poco superato i caselli di Asti della A21 e prese paurosamente a sbandare, schiantandosi contro il guard rail, all’altezza di frazione Case Bruciate. L’impatto fu devastante. Lentini, sbalzato sull’asfalto, venne soccorso da un camionista vicentino che trasportava un carico di quaglie. L’auto prese fuoco. Fu dato l’allarme, si pensò fossero coinvolte più auto e da Asti partirono tre ambulanze della Croce Verde a sirene spiegate. Lentini, che nessuno aveva ancora riconosciuto, fu portato all’ospedale di Asti. I primi soccorritori della Croce Verde astigiana furono: Giovanni Palumbo, Franco Prestigiacomo, Beppe Di Salvio, Giuseppe Garlisi, Paolo Cotto, Stefano Biasuzzo e Gabriele Picello. Giunti in ospedale affidarono la vita del campione nelle mani dell’esperto primario, come avevano fatto tanti altri, meno famosi, in tutti quei 33 anni di servizio. Va detto che di “football”, come in maniera un po’ snob lo chiamava lui, il dottor Carlo non si interessava, a differenza della moglie e del figlio primogenito Maurizio, guarda caso sfegatati tifosi milanisti. Per la verità, tanti anni prima, quando viveva a Torino con i genitori e il fratello, la sua squadra del cuore aveva i colori granata: quel Grande Torino che pareva invincibile. Ma quando l’aereo di capitan Valentino Mazzola e degli altri eroi della sua infanzia si schiantò sulla collina di Superga, non ne volle più sapere.
Quella notte di 25 anni fa, si ritrovò catapultato nel mondo del calcio e forse lo sfiorò il pensiero che, in caso di esiti nefasti per quel paziente così “ingombrante” finito nel “suo” reparto, la carriera di primario avrebbe potuto appannarsi, proprio sul filo di lana. Ma fu un attimo: c’era da pensare a salvare una vita umana, il campione sarebbe venuto dopo. Appena arrivato in ospedale trovò una situazione disperata. Lentini era ridotto male: intubato, in coma e con fratture multiple, un’esistenza appesa a un filo, come tante altre che per anni avevano galleggiato tra quelle pareti.
L’atleta si risvegliò dopo due giorni, 3 ore e 27 minuti: ma prima, in quella sorta di limbo, risultarono decisive le cure dell’equipe della Rianimazione di Asti. Ad avvertire il suo primario era stato il dottor Massimo Franco, fresco di nomina ad Aiuto e di turno quella notte: «I primi momenti in pronto soccorso furono decisivi – spiegò Franco – quel ragazzo era ridotto male, ma nella nostra équipe ognuno sapeva bene cosa doveva fare, così come i colleghi del Pronto soccorso. Alla fine, andò bene».
Giusto allora ricordare, oltre allo stesso Franco, medici come Ciappina, Ferraris, Angileri, Gavioso, Aldo e Silvana Federico, Sciuto, Bosco, Cannoni, Ragusa, Vaccaro, Vada, Arione e Migneco che tra gli altri fecero parte di quella meravigliosa équipe del reparto di Rianimazione, dagli anni Ottanta in poi.
L’assalto dei giornalisti che volevano avere notizie su Lentini
«Avevamo stima e rispetto gli uni per gli altri – ricorda Marina Gavioso – e Carlo Ferrari sapeva sempre come incoraggiarci e darci fiducia in momenti anche molto drammatici che purtroppo in un reparto come il nostro erano il pane quotidiano». «A distanza di cinque anni dalla scomparsa – aggiunge oggi Aldo Federico – lo portiamo ancora tutti nel cuore: era un gran signore nella professione e nella vita». Ma torniamo all’incidente. Fuori dall’ospedale astigiano, anche se non si era ancora nell’era di Internet, il tam-tam notturno sul caso Lentini era diventato in poche ore, come si direbbe oggi, “virale”: decine di giornalisti di testate nazionali e locali, telecamere e fotografi cominciarono a stazionare in febbrile attesa dei bollettini medici. Carlo Ferrari, con camice e mascherina d’ordinanza, si presentò al microfono del giornalista Rai Gianfranco Bianco per pronunciare quella frase, subito trasmessa dalla Rai sul Tg1 nazionale, che non lasciò tranquillo nessuno, ma che la cautela del momento imponeva: «Il paziente è in prognosi riservatissima». Quel superlativo, che non rientrava nel glossario dei puristi di Ippocrate, faceva però capire la drammaticità del momento. Al capezzale del campione tanti volti noti e meno noti: tra i primi, oltre al fratello del calciatore, proprio Rita Schillaci, poi la telefonata dell’ad rossonero Adriano Galliani, braccio destro del presidente Berlusconi che non era ancora “sceso in campo” in politica. Dopo quelle prime ore critiche il campione si riprese, venne trasferito al Cto di Torino prima e al San Raffaele di Milano poi, dove completò il recuperò che lo porterà a ricalcare dopo quasi un anno i campi della serie A, al Milan, e dopo all’Atalanta e ancora al Torino. Il primario nel frattempo dopo quella tumultuosa notte poté raggiungere l’agognata pensione e dedicarsi alle sue montagne e agli adorati nipoti. Il football continuò a vederlo saltuariamente in televisione.