Per le osterie erano il cibo ideale. Appetitose e stuzzicanti, invitavano alla chiacchiera e, soprattutto, al bere. Non a caso, le acciuge, insaporite con il bagnèt verde a base di prezzemolo, o rosso, con il pomodoro, aglio e olio, costituivano, insieme alla trippa in umido e alla zuppa di ceci, il menù immancabile di tutti i locali della socialità popolare. Un pesce povero che fino agli anni Cinquanta del secolo scorso costituì una delle basi dell’alimentazione di contadini e operai, insieme a merluzzo, saracche, tonno: gli unici prodotti del mare presenti in una dieta al limite dell’indigenza.
Al loro commercio è legata una storia quasi epica, quella degli acciugai della Valle Maira, venditori itineranti che, armati di caruss e stadera, da settembre a Pasqua scendevano sulle colline e, più lontano, nella piana padana, frequentando ogni mercato e toccando ogni cascina: in Piemonte, Lombardia, Emilia. Quello degli anciué era uno dei tanti mestieri dell’emigrazione stagionale alpina, come quello degli arrotini, dei bottai, degli spazzacamini, dei calderai, dei cavié. Un’emigrazione prima temporanea, appunto, ma che col tempo sarebbe diventata definitiva, spopolando le montagne e consentendo in alcuni casi, ai più intraprendenti e fortunati, di mettere in piedi piccoli imperi commerciali, che a volte durano ancora oggi, con base nelle grandi città del nord, Torino e Milano, dove i discendenti dei primi acciugai gestiscono importanti aziende di commercio all’ingrosso.
Ma perché la Valle Maira?
Diverse sono le ipotesi, spesso leggendarie. Come quella che narra che alcuni Saraceni, nel Medioevo frequenti protagonisti di scorrerie nell’entroterra, si fossero rifugiati in una conca della Valle Maira, più precisamente nel paese di Moschieres, per poi insediarvisi definitivamente e iniziare la vendita di pesci salati (una pratica, quella della salagione del pesce, attestata fin dal Medioevo, ma certo praticata già dai Romani, come dimostrano le ricette di Apicio con la presenza costante del garum, una salsa liquida a base proprio di pesce salato). O quella che parla di eretici arrivati in Valle Maira dalla Provenza diventati acciugai. Più probabilmente, il commercio fu iniziato da pellegrini al ritorno da San Giacomo di Compostela (una delle grandi mete del “turismo” religioso medievale), che, percorrendo i sentieri utilizzati dai commercianti (e dai contrabbandieri) di sale che acquistavano il prodotto presso le saline di Salon de Provence, nell’Etang de Berre alle foci del Rodano, in Francia, pensò di rendere proficuo il cammino di ritorno vendendo questi pesci acquistati in Spagna e che, verificato il successo dell’iniziativa, abbia poi deciso di farne una attività continuativa. Resta il fatto che quella degli acciugai della Val Maira divenne una vera e propria corporazione, con leggi non scritte ma rispettate da tutti gli aderenti: le regole d’ingaggio dei giovani venditori (che partivano da casa a 13-14 anni messi alle dipendenze di un venditore che forniva loro materia prima, attrezzi, vestiario), il periodo di lavoro, la spartizione dei territori. Nico Orengo ne Il salto dell’acciuga ripercorre queste storie avvicenti che si snodano tra montagne e mare, tra le valli alpine e le coste del Mediterraneo e del Cantabrico, l’oceano in cui si pescano le acciughe migliori, le grandi, carnose “spagnole”.
Anche Asti ha avuto i suoi acciugai. Mario Del Puy (classe 1927, nativo di Paglieres, frazione di San Damiano Macra) ha girato per mercati fino a pochi mesi fa: da Montegrosso a Nizza, da Calliano a Portacomaro, da Agliano a Montemagno.
I meno giovani ricorderanno la madre, Anna, che fino al 1994 ha tenuto la sua bottega ai piedi della scalinata che da piazza Roma scende in via Ottolenghi. Prima c’erano stati, nella famiglia, il nonno Giovanni Battista, che esercitò il mestiere a Costigliole, e il padre Giovanni, attivo ad Asti in piazza Statuto e in piazza Roma.
Mario è stato tra i fondatori ed è tuttora presidente dell’Avalma, l’associazione degli acciugai della Valle Maira, che si ritrovano ogni anno a Dronero la prima domenica di giugno.
Per mantenere viva la memoria di un mestiere che ha segnato profondamente l’economia di quei luoghi e la vita della loro gente.
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