Le sabbie fluviali contengono le preziose pagliuzze
La ricerca dell’oro ha radici storiche lontanissime, almeno quanto la scelta del genere umano di considerare il giallo metallo un materiale prezioso e il ritrovamento un’attività lucrativa talmente importante da sfociare talvolta in autentico fenomeno di massa (basti pensare al Gold Rush californiano del 1848, la famosa corsa all’oro resa mitica da decine di film western). Dunque anche gli astigiani cercavano l’oro nell’alveo del fiume Tanaro e dei suoi affluenti esercitando la cosiddetta “pesca dell’oro”. Da un punto di vista geologico, va detto che la quasi totalità dei giacimenti auriferi italiani è contenuta nelle Alpi Occidentali e nel loro prolungamento naturale, costituito dall’alveo del fiume Po con tutti i suoi affluenti, notoriamente auriferi, tra i quali anche il Tanaro. La presenza dell’oro in questo bacino è nota da tempo immemorabile. Numerosissime sono le tradizioni orali e i toponimi che testimoniano tale conoscenza, sebbene, nella maggior parte dei casi, esse non siano state prese troppo sul serio dagli studiosi che le hanno ritenute, talvolta, frutto della fantasia popolare. D’altra parte, notizie false sulla presenza dell’oro possono durare il lasso di tempo di qualche anno, ma non certo di secoli come invece vedremo dalla rapida carrellata storica che segue. Premettendo alla storia umana quella della Terra, occorre dire che, nel susseguirsi delle ere geologiche, le rocce sono sempre state soggette – e tuttora lo sono – all’azione disgregatrice degli agenti atmosferici: a lungo andare, vento, pioggia, gelo, umidità smantellano le montagne e i detriti vengono trascinati dai torrenti e dai fiumi (più a valle), fino a raggiungere mari e oceani. L’oro è un minerale praticamente inalterabile e con altissimo peso specifico: quindi, mentre altri minerali e rocce vengono disciolti, spezzettati e trascinati velocemente verso il fondo valle e il mare, l’oro viene liberato dalla matrice rocciosa e si concentra in zone fluviali tranquille (anse e secche). Così si sono formati i depositi auriferi della valle Padana. Quest’ultima, occupata in Era Quaternaria da un mare interno – testimoniato dall’abbondanza di reperti fossili marini presenti nelle valli Astigiane e nelle colline di Monferrato e Langa – venne in seguito riempita dal materiale proveniente da tutto l’arco alpino e dall’Appenino Settentrionale. In particolare, tale situazione è stata agevolata e accelerata dalle glaciazioni, responsabili del trascinamento a valle, nell’arco di millenni, di ingenti quantità di detriti. In funzione della loro “pesantezza” i detriti appartenenti all’alveo dei fiumi si distribuiscono lungo il corso dei medesimi formando i depositi alluvionali: il materiale più pesante, tra cui l’oro, resta tendenzialmente nella parte iniziale dei corsi d’acqua, mentre una minore, ma pur sempre significativa quantità, si distribuisce più a valle.
La ricerca scientifica conferma che nei detriti trascinati dall’acqua lo 0,1% è oro
L’analisi di questo materiale “pesante”, raccolto in diverse zone del fiume Tanaro, ha dimostrato che circa i 2/3 in peso (pari al 63,6 %) sono in media costituiti per lo più da minerali di ferro (come magnetite e ilmenite), circa 1/3 (pari al 36,3 %) di granati e lo 0,1 % è oro in forma di scagliette, granuli o polvere. Questi dati rivelano che il Tanaro, a carattere torrentizio nel suo alveo più a monte e fluviale nell’alveo più a valle (da Alba a Valenza, Asti inclusa), è stato luogo, rispettivamente, di un violento fenomeno di trasporto di materiale e di un conseguente massiccio deposito di ghiaie pesanti, arricchite di oro, talvolta persino sotto la gradevole forma di piccole pepite. Quando si parla di ricerca dell’oro, di solito si pensa al già citato evento storico denominato Gold Rush di metà Ottocento, oppure alla epopea aurifera nel gelido territorio del Klondike (Alaska) alla fine dello stesso secolo, oppure ancora alle grandi miniere tuttora attive in Sud Africa. Non va dimenticata l’importanza storica dell’oro italiano. Nella valle Padana, inclusa l’area piemontese nonché astigiana, si cerca e si raccoglie il prezioso metallo da oltre 5000 anni. Per fare un esempio, nel Biellese esistono le tracce di un’antica miniera la cui discarica è cinque volte più grande di quella della più grande miniera d’oro del Transvaal. Numerose testimonianze archeologiche e i pochi cenni tramandati dagli autori classici, affermano che la raccolta dell’oro era una delle principali attività degli antichi abitanti della Valle d’Aosta e della pianura Padana piemontese.
I primi cercatori furono i Dori
Le prime tecniche significative di ricerca dell’oro nel bacino del Tanaro furono introdotte a seguito dell’importante immigrazione dei Dori, staccatisi nel XIV secolo a.C. dal gruppo principale che si dirigeva verso la Grecia, e si insediarono lungo i corsi d’acqua. I Dori, in cerca di boschi, di pascoli per l’allevamento dei cavalli e di giacimenti minerari per ottenere metalli, introdussero tecniche agrarie e minerarie basate sul rame e sull’oro: il primo finalizzato alla fabbricazione di arnesi e il secondo alla creazione di monili di pregiata arte orafa. Aspetto altrettanto importante fu l’introduzione di una lingua comune, che si estese in pochi secoli a tutta l’Italia, con esclusione dell’Etruria e del Lazio, e dalla quale si deduce l’importanza dell’oro già al tempo dei Dori. Per esempio, lungo il torrente Erro, che scende su Acqui, vi è la località di Cartosio (Carto-Sio = Dio potente) cui si abbina, quasi come sfida tra cercatori d’oro, la località Carronsio (Carro-Sio = Dio più potente) ubicata sul torrente Lemme (lemma in dorico significa “profitto”).
La zona del torrente Erro
Lungo il Lemme vi è anche Bisio (Bia-Sio = vitalità di Dio); altro corso d’acqua il cui nome si riferisce all’oro è il Piota che in dorico significa “abbondanza”. Il suffisso “sio” è in lingua dorica associato all’oro estratto dai corsi d’acqua, ovvero “pescato”, da cui l’introduzione dell’espressione, tuttora di uso corrente, “pesca dell’oro”, relativa alla ricerca e conseguente estrazione, oltre che dei pesci, anche dei minerali contenuti nelle sabbie dei corsi d’acqua (oro, in modo particolare). Sempre a proposito della “pesca dell’oro” si può citare ciò che recita la “grida” del Presidente e Maestro delle Regie Entrate Straordinarie dello Stato di Milano nel 1629, all’indirizzo di un certo don Gregorio Ortiz, “patrone della ragione e della facoltà di pescare oro, argento e pesci in tutto il fiume Ticino”. Tornando indietro nel tempo, importanti miniere erano coltivate già all’epoca delle prime conquiste romane. Le coltivazioni originali furono dapprima regolamentate dai nuovi conquistatori e, dopo l’annessione della Gallia Subalpina (20 a.C.), del tutto interdette per favorire le ricche miniere della Gallia Transalpina e della Spagna. Una scelta che si ripeterà secoli dopo: con la scoperta delle miniere americane, nel 1535 un decreto di Carlo V sancì la chiusura delle miniere spagnole per far convergere i minatori nel Nuovo Mondo.
I feudatari medioevali imposero gabelle sulla “pesca dell’oro”
L’attività mineraria locale continuò a essere interdetta nell’Italia peninsulare per tutta la durata dell’impero romano, sebbene la “pesca dell’oro” locale e ai confini dell’illegalità, continuò a essere praticata un po’ ovunque, Tanaro e affluenti inclusi, per quanto riportano i documenti di concessione, fino almeno al periodo dell’Alto Medioevo. L’attività di “pesca dell’oro” spinse i feudatari e i signorotti locali ad assicurarsene i proventi, riservando a se stessi la prelazione sull’acquisto del metallo raccolto nel Po e in tutti i suoi affluenti, parimenti definiti auriferi, come Dora Baltea, Dora Riparia, Sesia, Stura di Lanzo, Tanaro, Belbo, Orba, Erro, Bormida. In quell’epoca la “fame di oro” alimentò anche le alchimie di chi cercò di ottenere il prezioso metallo da magiche formule chimiche. Con l’avvento dell’Italia dei Comuni, i vari signori incominciarono a cedere, con varie concessioni, molte delle prerogative che non erano più in grado di mantenere e controllare, compresi i diritti (regalie) sull’estrazione dell’oro dai fiumi e dai giacimenti primari. Nel Basso Medioevo incomincia la coltivazione locale dei principali giacimenti auriferi, ma non si hanno notizie dettagliate, anche perché le concessioni minerarie erano generalmente rilasciate con formule generiche comprendenti tutti i metalli, oro compreso, e aree territoriali molto vaste. È però interessante rilevare che la “pesca dell’oro” fluviale rimane un’attività costante e che presenta un importante sviluppo tecnologico dimostrato addirittura dall’impiego di impianti fissi.
Nel Cinquecento c’era chi vantava una collana di pagliuzze d’oro del Tanaro
Agli inizi del Cinquecento, Raffaele di Volterra afferma che nel fiume Tanaro «…Antonini Trotti, cavaliere alessandrino, raccoglie pagliuzze d’oro, con le quali è fatta la collana che porta». Sulla base dei ritrovamenti di Trotti, un’ipotesi credibile può essere che la zona di sfruttamento fosse sita non alla confluenza della Bormida bensì a quella del Belbo, torrente che documenti medioevali descrivono come discretamente aurifero. In ogni caso occorre anche considerare che il Tanaro riceve altri torrenti auriferi molto più a monte, come ad esempio la Stura di Demonte, con il suo affluente Gesso.
Le sabbie aurifere documentate nel 1546 dal padre della mineralogia
Le ipotesi di significativa “pesca dell’oro” in tali corsi d’acqua sono suffragate, oltre che dalla presenza di numerose manifestazioni aurifere nel Massiccio dell’Argentera, dalla toponomastica, ovvero dai nomi di varie località dei bacini fluviali citati, quali, ad esempio, Valloriate, Lago dell’Oro, Fontana dell’Oro. La presenza dell’oro nelle sabbie del Tanaro è citata nel 1546, seppure senza enfasi né particolari dettagli, da Georg Bauer, detto Agricola, padre riconosciuto della Mineralogia moderna e fondatore dell’Arte Mineraria, la disciplina tecnica che si occupa della coltivazione delle miniere, pregevolmente descritta e illustrata nella sua opera a incisioni De Re Metallica. Dal Cinquecento in poi, si cominciano ad avere notizie certe sulle coltivazioni dei giacimenti primari, ma è soprattutto durante il Seicento che si registra un’impennata dell’attività estrattiva dai fiumi, lungo i quali si costruiscono officine per il trattamento del minerale, erette intorno all’installazione di mulinelli di amalgamazione. Nel Settecento riprende la coltivazione di alcuni giacimenti valdostani e continua, con alterna fortuna, la “pesca dell’oro” nei fiumi ritenuti più ricchi, secondo quanto riporta un documento del 1786 a proposito anche del Tanaro. Sebbene si dica che nessun naturalista moderno avesse più trovato oro nelle sue sabbie, si sospetta che quello trovato in passato fosse giunto dalla Bormida che, a sua volta, lo avrebbe ricevuto dall’Erro e dall’Orba, corsi d’acqua da sempre notoriamente auriferi. Ma è soprattutto nella seconda metà dell’Ottocento che si registra un’intensa attività mineraria, quasi esclusivamente per opera di Società a capitale straniero. Considerando la coltivazione in miniera e la pesca dell’oro nelle zone fluviali, la produzione piemontese arrivò a una resa massima di circa 33 chili d’oro nel 1892: le ragioni sono riconducibili all’esigua e irregolare estensione dei giacimenti e alle difficoltà tecniche di estrazione e di trattamento del materiale. Nello stesso periodo, e sempre per iniziativa di Società estere, si registrano i primi tentativi di sfruttamento industriale delle alluvioni aurifere dell’Orba e del Tanaro attraverso l’impiego di grosse draghe. Nonostante i primi lusinghieri risultati, i tentativi non hanno molto seguito, soprattutto a causa della difficoltà che tali macchinari incontrano su alvei disseminati da grossi massi, come è il caso dei nostri bacini fluviali. La resa aurifera è molto bassa e le percentuali estratte sul materiale lavorato non giustificano un tale dispendio di sforzi e di mezzi. Con la scoperta dei giacimenti auriferi dell’Alaska – e conseguente ribasso del prezzo dell’oro – la maggior parte delle attività aurifere italiane si esaurisce: soltanto il gruppo di miniere Pestarena-Macugnaga riuscirà a sopravvivere alla meglio per qualche decennio ancora. Le sanzioni economiche dell’Italia del 1936 e la successiva guerra mondiale porteranno a una nuova effimera ripresa delle coltivazioni di numerosi giacimenti primari e alluvionali e il massimo della produzione fu raggiunto nel 1948 con 580 chili di oro, quasi interamente proveniente dalle miniere della Valle Anzasca e della Valle d’Aosta. Ai giorni nostri, la situazione aurifera fluviale ha cessato di rivestire interessi economici, relegando la “pesca dell’oro” a una attività ludico-naturalistica, soprattutto nella zona dello Scrivia e dell’Erro dove si svolgono anche gare di campionati del mondo tra cercatori. La ricerca può continuare anche nel Tanaro e negli altri torrenti, a condizione di evitare l’illusione di porsi al collo una collana fatta di pagliuzze d’oro astigiano.