Il primo seminario è del 1574 voluto dopo il Concilio di Trento
C’è chi tra gli astigiani ancora ricorda la lunga fila di seminaristi con la veste nera e i bottoni rossi, il cappello a falda larga, che ogni pomeriggio si snodava lungo un percorso rituale che dalla piazzetta del Seminario saliva verso le mura di piazza Lugano per proseguire poi, per via Conte Verde, fino alla chiesetta di Viatosto. Una passeggiata vespertina. Una moltitudine silenziosa, compatta, quasi all’unisono nei gesti e negli sguardi. Un mondo a parte, fuori dal contesto. Un mondo chiuso, protetto dalla solidità e severità dell’austera struttura del Seminario stesso in cui essi passavano, o erano costretti a passare, l’adolescenza prima e la giovinezza poi. Erano tanti i ragazzi che in quegli anni del dopoguerra, ma anche prima, avevano fatto quella scelta. Forse perché il mondo contadino, da cui la maggior parte di loro proveniva, non era in grado di sostenere l’onere dell’istruzione. In tante famiglie patriarcali affidare alla Chiesa un figlio, magari quello più predisposto agli studi e meno alla fatica, era scelta comune, sollecitata dai parroci che esercitavano una forte azione di “proselitismo”. Beppe Fenoglio nella sua Malora tratteggia mirabilmente quel clima nella visita di Agostino al fratello Emilio al Seminario di Alba. Lo scrittore racconta dei Braida, che vivevano a San Benedetto, nelle Langhe, ma è la storia di tante altre famiglie contadine.
È la storia di monsignor Guglielmo Visconti che, undicenne, da San Paolo Solbrito negli anni Trenta varcò quel portone come allora facevano tantissimi giovani e che ancora oggi, a novantaquattro anni, ogni giorno percorre la lunga teoria del portici del cortile quadrato del Seminario, non potendo più, ma solo da qualche anno, dedicarsi alla quotidiana passeggiata fino a Viatosto. Ora non è più così. A partire dagli Anni Settanta la vena dei seminaristi è andata lentamente esaurendosi. La crisi di vocazioni ha coinvolto anche il Seminario di Asti e gli attuali pochi studenti sono confluiti in quello di Alessandria.
Oggi il grande complesso ospita la secolare Biblioteca e una casa per sacerdoti. Negli ultimi mesi, nelle camerate dei seminaristi del terzo piano alloggiano molte decine di profughi, soprattutto africani. La storia di questo edificio è una miniera. Il primo Seminario fu aperto nel 1574 dal vescovo Domenico della Rovere nei pressi del palazzo vescovile. Solo alcuni anni prima, il 15 luglio 1563, i vescovi riuniti in Concilio a Trento avevano approvato all’unanimità il decreto che raccomandava l’erezione di Seminari in ogni Diocesi. Un provvedimento epocale, che dotava la Chiesa di uno strumento per la cura delle vocazioni al sacerdozio. Stando alla relazione della visita apostolica del vescovo Angelo Peruzzi nel 1585, la comunità clericale contava allora 25 studenti e la rendita del Seminario superava i mille scudi. Nei secoli, il numero dei chierici aumentò, rendendo insufficiente l’edificio.
Nel 1762 il nuovo palazzo progettato da Benedetto Alfieri
Il vescovo Paolo Maurizio Caissotti nel 1762 incaricò il conte Benedetto Alfieri, primo architetto del re Carlo Emanuele III, di progettare un nuovo Seminario che fosse più funzionale, ma anche esteticamente austero e rigoroso, vista la funzione spirituale dell’edificio. Demolito il vecchio Seminario e altre adiacenti costruzioni fatiscenti, i lavori del nuovo edificio si protrassero fino al 1776, mentre altre opere di completamento proseguirono fino al 1880. Il progetto fu elaborato dall’Alfieri tenendo conto delle regole scritte nel 1739 dal canonico Bernardino Isnardi riguardanti l’organizzazione e la distribuzione degli ambienti destinati alla formazione dei sacerdoti, come la cappella, la sala di studio, il refettorio e la biblioteca. Per avere a disposizione la superficie necessaria furono abbattute anche le vicine case dei Padri Filippini e l’antica chiesa di San Sisto, che prospettava sull’attuale piazzetta del Seminario. Al capomastro Bernardo Guggia venne affidata la direzione dei lavori, che terminarono nell’autunno del 1776. Tuttavia, lo splendido progetto di Benedetto Alfieri non poté essere eseguito integralmente per la mancanza di finanziamenti.
Attualmente il complesso si presenta a tre piani, più un piano ammezzato, disposto intorno al vasto cortile porticato privo del braccio occidentale che, come dimostrano gli addentellati dei mattoni predisposti sulle murature contigue, era stato previsto ma non fu mai realizzato. All’esterno, l’edificio in mattoni a vista è quasi privo di decorazioni: solo una semplice fascia marcapiano segna su tutto il perimetro il piano nobile e un’altrettanto semplice cornice segna il davanzale delle finestre del mezzanino. La facciata principale, rivolta a sud, pensata anche in rapporto al palazzo vescovile che dall’altra parte si affaccia sulla stessa piazzetta, presenta un intonaco a bugnato. Superato il portone, ci si trova in un atrio colonnato cui segue, dopo alcuni gradini, uno spazio aperto verso il cortile e l’elegante scalone disegnato da Benedetto Alfieri. In quest’area si concentravano gli ambienti più frequentati, tra cui la biblioteca, come attesta un’iscrizione sopra la porta a destra dell’atrio. L’ampio cortile è circondato su tre lati da un porticato, scandito da lesene che racchiudono aperture ad arco e da architravi con oculo soprastante. Sulla manica a nord si trovano il refettorio, la cucina e i magazzini. Soprattutto il refettorio, di pianta ovale con eleganti stalli di legno, è di grande pregio e custodisce due tavole importanti: una Natività coi santi Bartolomeo e Benedetto, opera di Gandolfino da Roreto databile al primo decennio del XVI secolo, e una tavola dell’Epifania, il cui restauro ha messo in luce l’attribuzione ai fratelli Longo Perosino.
Intorno al 1910, in un locale all’ultimo piano del Seminario, don Michele Gallo impiantò un osservatorio meteorologico, con strumenti di rilevazione sul tetto, attivo fino al dopoguerra. Dell’attrezzatura, rimane il barometro di Fortin, ora collocato nell’adiacente laboratorio di fisica. L’edificio ha seguito nel tempo i fatti storici che hanno coinvolto la città, il Piemonte e anche l’Italia e quindi è stato più volte requisito, destinato ad alloggiamento militare nelle vicende belliche, come nel 1798 quando i Francesi entrando in Asti occuparono una parte dell’edificio, quella a levante, adibendola appunto ad alloggiamenti militari, mentre la zona sud venne occupata dagli uomini addetti ai forni. La fondazione della biblioteca è dovuta al volere di Giovanni Todone, vescovo illuminato che la istituì nel 1730 e che volle anche aprirla al pubblico fin da subito, offrendo così alla città la prima biblioteca. Di tutte le istituzioni culturali astigiane, la Biblioteca del Seminario Vescovile è forse tra le meno conosciute, anche se è la più preziosa e la più antica. La biblioteca vanta uno dei patrimoni librari più cospicui e importanti del Piemonte. Si contano infatti 20 codici in pergamena dei secoli XII e XIII, 190 manoscritti, 365 incunaboli, 3000 “cinquecentine”, quarantamila volumi anteriori al 1831.
Rimase aperta al pubblico fino al 1876 e poi chiuse a tutte le consultazioni. Nel tempo subì diversi spostamenti all’interno del Seminario, anche per poter contenere i volumi sempre in aumento per il confluire di archivi e di biblioteche di chiese, monasteri, confraternite e di cospicue donazioni. Dopo un lunghissimo periodo di chiusura, anche se la cura fu affidata a diversi sacerdoti, gli ultimi dei quali furono Pietro Dacquino e Celestino Bugnano, ha riaperto al pubblico nel 2001, diretta da Debora Ferro, una giovane bibliotecaria appassionata e competente. Sono stati completati interventi sostanziali e necessari nelle sale dell’Archivio storico, della Biblioteca antica e del Refettorio, dove è stato restaurato il coro ligneo di Benedetto Alfieri, riaperto il collegamento con la biblioteca e dove sono stati installati nuovi impianti elettrici, di deumidificazione e antincendio, con tecnologie innovative.
Sono riemersi anche due secoli di curiosi “maneggi amministrativi”
Nel periodo dei lavori buona parte delle opere conservate sono state riordinate e inventariate e archiviati in un’unica sala tutti i documenti che attestano la nascita del Seminario e la vita quotidiana al suo interno, anche grazie al volontariato di alcuni astigiani. Nell’opera di riordino, spolvero e catalogazione di circa 20 000 volumi sono emerse rarità e curiosità. Innanzitutto, l’unica copia rimasta al mondo di un antico messale, stampato a Lione il 24 ottobre 1500 da Pierre Mareschal e Barnabé Chaussard. Dagli “ex libris” sul frontespizio si scopre che il raro volume è appartenuto al canonico Stefano Giuseppe Incisa (l’autore delle cronache cittadine raccolte nel suo Giornale d’Asti) e successivamente al vicario generale della Diocesi Benedetto Vejluva. Molto interessante per la storia locale è stato il recupero dei “maneggi amministrativi” dal ’600 all’800, che offrono uno spaccato degli usi locali che finora non avevano trovato riscontro in fonti documentarie.
La storia del cibo e del vino in ambito piemontese è stata studiata e cosa mangiassero la borghesia e le classi lavoratrici astigiane ce l’ha ben spiegato l’avvocato Giovanni Goria, ma dell’alimentazione nel chiuso dei monasteri o delle organizzazioni religiose astigiane finora non era mai stata reperita documentazione di sorta. Dalla tradizione orale si sapeva che all’Opera Pia Milliavacca si preparavano dolci succulenti, come solo le suore sanno fare. Qualcuno dice che si chiamassero paparote o papiote questi dolci distribuiti nel giorno della festa della Presentazione della Vergine.
Purtroppo, niente di più. Le carte del Seminario informano invece dettagliatamente sugli acquisti mensili e anche giornalieri per preparare il cibo che veniva consumato poi nel Refettorio. Bisogna partire da un’idea guida: la privazione, che secondo un modello mentale consolidato era pratica consueta, non significava affatto assenza. Ci si priva solo di ciò che si possiede. La privazione alimentare si innestava su una situazione di effettiva abbondanza. “Potevano, ma si imponevano di non potere”, come scrive lo storico Massimo Montanari. Procurasi il cibo in condizioni normali non costituiva un problema. Il Seminario aveva disponibilità di terre, risorse e alimenti.
Dalle cascine dei benefici di Santa Maria di Guarene, di Santa Maria de Flesco sul confine con Rocchetta, di Santa Maria di Caniglie, San Malvino di Vigliano, San Pietro di Castagnole Monferrato, San Martino di Celle e altre ancora arrivavano copiosamente frumento, meliga, fave, fagioli, cicerchia, ceci rossi, ceci bianchi, vino. La carne non mancava, ma era vietata in diversi periodi dell’anno e non solo di Quaresima, in cui era d’obbligo l’astinenza o il digiuno. Il pranzo era articolato ordinariamente su due o tre piatti al massimo e la cena era costituita in genere da due portate. Per ricorrenze speciali la mensa si arricchiva di altri cibi come salumi e dolci. Stretta era l’osservanza di mangiare di magro il venerdì e durante la Quaresima. La cucina che si praticava in Seminario era una cucina territoriale, legata alle proprie produzioni e alle disponibilità di alimenti a buon mercato.
Cosa si mangiava in Seminario? Spuntano anche i tartufi
Fondamentale era, secondo antica pratica, l’uso dei legumi come fave, piselli, ceci, lenticchie. Ma abituale era anche l’uso dei prodotti dell’orto, come cipolle, finocchi, cavoli, ravanelli, asparagi, carciofi, spinaci. Come primi, zuppe di legumi e verdure, accompagnate dal pane e condite con lardo o con formaggio. Formaggio piacentino e formaggio di pecora, o “grivera”, erano acquistati quasi quotidianamente. Poca la pasta, a volte fidelini o lasagnette, più sovente il riso in brodo con verdure e aromi. Il pane costituiva l’alimento principe e in genere non veniva acquistato, ma prodotto una volta la settimana all’interno della struttura stessa o in forni convenzionati.
Si è calcolato che la quantità quotidiana delle razioni andasse dai 500 grammi ai 2 chili a testa. L’olio d’oliva era usato come condimento, ma con molta parsimonia, mentre era abbondante l’uso della sugna e del “butirro”. D’uso normale anche cannella, chiodi di garofano, polvere di garofano, zafferano. Il pesce fresco o sotto sale rappresentava uno degli aspetti più significativi della dieta dei seminaristi. Era il piatto principale nei giorni di magro. Le specie più consumate erano il merluzzo, l’aringa, l’anguilla, i gamberi di fiume, le alici, le sarde e la tonnina (tonno in salamoia).
Per curiosità, va citato che nel dicembre del 1774 si compra anche l’olio di noce, così come il formaggio piacentino, il “succaro”, il “peppe” e limoni. Il 19 dello stesso mese, 2 libbre di salsiccia, zafarano, alici, pesci salati, lardo, carne di animale porchino. La conclusione del pasto in Seminario normalmente era costituita dalla frutta: pomi, noci, amandole, ciliegie, graffioni, pesche, nespole, prugne, fragole, meloni, uva passa, castagne. A ogni pasto era presente il vino, che però a volte era allungato con l’acqua. Ma il dato sicuramente più curioso e importante dal punto di vista storico è dato dalla regolarità, in quel periodo protrattasi per anni, con cui dal mese di novembre confluivano sulla tavola dei seminaristi le “tartuffole”. Come venissero cucinate dai cuochi del Seminario non è dato di sapere, però è certa la loro presenza, a volte quasi quotidiana, a significare una volta di più l’abbondanza nei secoli passati dei tartufi nelle nostre terre.
Le Schede