Sulla scrivania del suo studio al Michelerio ha La vita di Vittorio Alfieri: «Un ottimo compagno di viaggio». In una bacheca ecco un libro di sonetti con firma autografa di Angelo Brofferio e una raccolta di editti e pandette del 1625. Nella libreria accanto alla porta l’intero “digesto” giuridico, da consultare quando leggi, codici, giurisprudenza non erano ancora a portata di un clic sul computer. Francesco Benzi, leva del 1930, è avvocato da sessant’anni. È il decano per iscrizione dell’Ordine forense ad Asti. Veste la toga dall’11 luglio 1955. Due anni prima, nel 1953, si era laureato in Giurisprudenza a Genova: 110 e lode con una tesi sull’imposta di registro. «Quel giorno, il 16 luglio, faceva caldo e me lo ricordo bene perché, anziché festeggiare la laurea con gli amici, dovetti tornare in fretta ad Asti in treno a sostituire in studio mio padre che era indisposto e aveva preso un appuntamento con una coppia di sposi per la foto ricordo del matrimonio».
Va detto che Giulio Benzi, il padre, era uno dei grandi fotografi della scuola astigiana, con studio aperto fin dal 1905 in zona stazione. È sua la storica foto delle maestranze della Way Assauto, in gran parte donne, schierate nel cortile della fabbrica, nel 1917 durante la Grande Guerra.
Una foto di gruppo con migliaia di persone, non facile da fare, eppure nitidissima e perfetta come luce. «Era esattamente il problema che avevo io in quel pomeriggio da neo laureato. Ricordo lo studio fotografico la scala a chiocciola per salirci e le vetrate che davano luce dal tetto. I soggetti erano due sposi contadini, accompagnati dal sindaco del loro paese. Gli uomini erano con il vestito buono della festa, la donna in un candido abito, tutto tulle e organza che però “sparava” sulla sua carnagione scura, cotta dal sole del lavoro dei campi. Nell’obiettivo quel viso si vedeva praticamente nero in contrasto con l’abito bianco che pareva fluorescente. Provai e riprovai, oscurando lo studio, mettendo filtri, facendo spostare gli sposi. Alla fine la foto venne. Andai in camera oscura e portai subito la prova a mio padre che era a casa a letto . “Passabile” fu la sentenza. Più faticoso che prendere la laurea».
E il suo destino era però di fare l’avvocato e non il fotografo «Mio padre che era gravemente ammalato morì dopo qualche tempo dalla mia laurea e nessuno dei fratelli decise di continuarne l’attività… Con Piercarlo, tre anni più di me, che si era già laureato in legge aprimmo uno studio in piazza Stazione, vicino a quello da fotografo che era stato di mio padre. Non avevamo neppure il telefono. Non c’erano tanti avvocati come adesso. Ci aiutarono anche alcuni colleghi. Dovevamo farci conoscere, prendevamo cause piccole e grandi e più di una volta i clienti ci pagavano come potevano. Non era raro portare a casa uova, galline, conigli come acconti sulla parcella. Da avvocato d’ufficio una volta difesi un tale accusato di furto. Andò bene, ma quello, uscendo dall’aula, fece finta di sbagliarsi e si prese il mio cappotto».
Ma intanto si fece le ossa, tra una pretura e un tribunale. «Insegnavo anche diritto al Giobert. Allora c’erano molte preture attive una volta la settimana: da Moncalvo a Mombercelli. La città di Asti stava crescendo e noi prendemmo anche clienti importanti come la Banca Agraria Bruno, che non era ancora stata assorbita dalla Cassa di Risparmio».
Diventa anche sindaco di Montechiaro d’Acqui. Il paese dove andava in villeggiatura
Verso i trent’anni mette su famiglia «Ero fidanzato, fin dai tempi del liceo, con Silvana. Ci sposammo nel ’58 e nel 1961 nacque Pia, due anni dopo Pier Paolo. I bambini crescevano e il pediatra Leone De Benedetti ci consigliò d’estate di far prendere loro un po’ d’aria buona, di “mezza montagna” come si diceva allora. Piero Damiano, pretore a Nizza, mi consigliò di girare le Langhe. Passammo qualche domenica a cercare finché non arrivai a Montechiaro d’Acqui. Un paesotto di poco più di 500 abitanti. Me ne innamorai. Mi piacquero il borgo antico e l’affabilità della gente. Affittammo una casa e l’anno dopo ne trovammo una da acquistare. Divenne il nostro buen retiro».
Già, però a non tutti capita di diventare sindaco del paese che si sceglie per la villeggiatura. «Mi convinsero dopo qualche anno. Formammo la lista civica con simbolo “La torre” e vincemmo le elezioni. È stata un’esperienza intensa. Avevo anche un’opposizione in Consiglio molto vivace che evidentemente pativa la presenza di un sindaco “foresto”’. Ho dovuto affrontare molti problemi concreti, tra i quali il parziale crollo dei resti del castello. Ho capito le difficoltà di chi deve amministrare per conto degli altri e già allora con pochi mezzi».
Studiare le carte e i processi e non fidarsi solo della bella arringa
Le è servito anche nelle professione quando ha difeso alcuni dei nomi eccellenti coinvolti nei vari filoni di quella che i giornali definirono “Tangent’Asti”. «Gli inizi degli Anni ’90 fu una stagione di profondi cambiamenti, soffiò forte il vento di Mani Pulite, ma non mancarono alcuni eccessi giudiziari. Come avvocato ho sempre cercato di arrivare preparato al meglio ai processi, studiando le carte con meticolosità e non credendo di poter risolvere tutto con una bella arringa».
Una filosofia che ha trasmesso anche ai colleghi più giovani. «Ci ho provato, a cominciare da mia figlia Pia che è con me in studio e con i colleghi Marco Venturino, Anna Mattioli e Pierpaolo Berardi con i quali abbiamo creato uno studio associato, ormai da 15 anni».
Alle pareti di questo studio, dove lavora accanto alla sua storica segretaria Pinuccia Bosca, è un po’ racchiusa la storia di una vita. «Quando i capelli vengono bianchi e la vigoria fisica si sente svanire, si può trovare forza nelle cose e nelle immagini del passato. Lo sguardo di Vittorio Alfieri mi segue e mi incoraggia. Mi pare di conoscerlo come un amico e sono orgoglioso di aver stilato lo statuto del Centro nazionale di studi a lui dedicato. Tra l’altro nel 1949 per le celebrazioni del bicentenario della nascita noi studenti recitammo alcune sue tragedie, ricordo che con me e Aris D’Anelli c’era anche Ileana Ghione, destinata a una splendida carriera di attrice».
Nella vita lei ha conosciuto anche momenti di intenso dolore. «Nel 1969 quando morì mio fratello Piercarlo a soli 42 anni e quando ho dovuto accompagnare al cimitero la mia Silvana era il 1984, per fortuna avevo accanto i figli».
Tra diplomi e attestati ci sono anche i ritratti di suo padre e sua madre. «Quello di papà è tratto da una delle sue rare foto, perché, come si dice… il ciabattino va con le scarpe rotte e papà Giulio fotografava tutto e tutti, ma non se stesso. Gran parte della sua attrezzatura l’ho donata ai Franco di Mombarone, purtroppo migliaia di foto, che erano in un baule a Montechiaro, mi sono state rubate… saranno finite sui mercatini come cimeli d’epoca. Il ritratto di mia mamma, è invece di Menzio che era un nostro amico di famiglia. Era una donna dolce e tenace. Ricordo le sue ansie quando da noi in studio, durante la guerra venivano a farsi il ritratto in divisa da mandare alle famiglie e alle fidanzate i soldati, in particolare i bersaglieri, destinati a finire in Russia. Chissà se torneranno, domandava a mio padre».
A quel tempo lei era un ragazzino «Ma ricordo bene le paure della guerra, gli sfollati, gli ebrei che si nascondevano e avevano bisogno di foto per i documenti falsi. Eravamo vicini alla stazione che era un obiettivo sensibile e dopo i bombardamenti di Asti andammo anche noi a vivere fuori città al Basinetto, verso corso Alba».
Lei il militare lo ha fatto? «No, la morte di mio padre mi fece saltare la naja come figlio di madre vedova. Mi piacciono però gli alpini e sono stato contento di poter mettere il cappello con la penna all’adunata nazionale del 1995 ad Asti. Ora aspetto quella del prossimo anno, ancora qui da noi. Ci saranno tanti veci come me, ma, c’è da giurarci, non sarò io il più vecchio».
Alla soglia degli 85 anni che cosa vorrebbe ancora fare? «Da buon nonno desidero vedere sistemati i nipoti e per me chiedo la possibilità di qualche bel viaggio, magari in Africa il continente che mi ha sempre affascinato. Mi accontento anche dell’Europa che ho girato in lungo e in largo, ma che ogni volta riserva sorprese, con la sorpresa più grossa di scoprire che alla fine ti prende una certa nostalgia di Asti capace di farti sempre tornare e di farti dire: questa è la mia terra».
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