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1938

Banda delle zucche, un’epopea musicale

Gli "scolari di Val Masone" si esibirono anche a Torino
Le bande delle zucche hanno rappresentato e ancora rappresentano un momento particolare della vita folcloristica e musicale astigiana e monferrina. Questa nostra storia comincia negli Anni Trenta ad Asti all’Osteria del Ponte Verde lungo il viale Pilone e porta un gruppo di ragazzi, attori e musicisti dilettanti, a esibirsi con straordinario successo nei teatri torinesi. C'e un personaggio come Sarachet che ne visse l’evoluzione e ci sono i temi del confronto tra mondo contadino e vita in città con i risvolti comici dell’ironia. Sullo sfondo l’arguzia raccontata da Carlo Artuffo. Decenni dopo, Luciano Nattino ha ritrovato e salvato l’antico copione, altri hanno ripreso la tradizione e il gusto di suonare le zucche. Il loro ronzare fa parte della nostra storia.

Tutto nasce alla trattoria del Ponte Verde in viale Pilone

 

È necessaria una premessa. Nella storia degli strumenti musicali “contadini” trova spazio anche una piccola zucca rotonda, seccata, liberata dalla polpa e dai semi e poi tagliata a metà. Vi viene praticato un foro e cantando tra le due valve ne esce un suono particolare, modulabile con la voce. Grazie a questo strumento, molto semplice, sono nate le bande delle zucche, allegre formazioni musicali, i cui strumenti sono autocostruiti con materiali di recupero. In particolare, i cusot propriamente detti sono piccole zucche vinarie (quelle rotonde, che un tempo si usavano come borracce), tagliate a metà e trasformate in strumenti simili al kazoo: se vi si soffia dentro, le due calotte vibrano e modificano la voce del suonatore, conferendogli l’inconfondibile timbro ronzante. Oggi esistono ancora alcune bande di zucche nel Monferrato, come la Banda del Cusi di Serravalle e i Sunadur dal Ravi di Fubine. Partecipano a Carnevali e sfilate. Ma c’è stato un tempo in cui i suonatori di zucche monferrini hanno avuto il loro momento di notorietà e sono finiti ad esibirsi anche nei teatri torinesi. Chi cerca su Google “Gli Scolari di Val Masone” non troverà risultati, ma se chiedete a molti astigiani nati prima degli anni Cinquanta, probabilmente vi diranno di aver sentito parlare di una divertente commedia dialettale d’altri tempi. Gli “Scolari di Val Masone” è stato uno spettacolo teatrale musicale rappresentato più volte ad Asti e a Torino negli anni Trenta del Novecento, ed è rimasto nell’immaginario collettivo di un paio di generazioni di astigiani. La storia di questo spettacolo vede origine in un’osteria di Asti, la trattoria del Ponte Verde, che si trovava in viale Pilone. Lì si riuniva un gruppo di giovani che avevano fondato una banda di zucche, chiamata, in onore del locale, I cosot del pont verdNegli anni Trenta I cosot del pont verd cominciarono a rappresentare “Gli scolari di Val Masone”, spettacolo composto da scene comiche di ambientazione campagnola e intermezzi musicali accompagnati dal suono delle zucche. Il testo riscosse un grande successo e il titolo di questo musical monferrino finì per diventare il nuovo nome della formazione. Nel 1937, un gagliardo ventenne, ciclista che fu anche gregario del leggendario Giovanni Gerbi, il Diavolo Rosso, entrò a far parte della compagnia. Si trattava di Guido Saracco, detto Sarachèt, che ci ha lasciato nel 2010 dopo una lunga e intensa vita dedicata alle sue grandi passioni: la bicicletta, la musica e la poesia. Il giovane Sarachèt venne presentato al gruppo dall’allora presidente dell’associazione alpini di Asti, e iniziò la sua carriera all’interno della compagnia come bigliettaio, in occasione di una rappresentazione della commedia a Carmagnola. Dopo qualche mese il direttore della compagnia, Bagnasco, autore dell’opereretta, insieme al barbiere violinista Roseo e al Maestro Mangone, organista della parrocchia San Secondo, morì in un incidente sul lavoro nella fabbrica di ghiaccio dove lavorava. Venne dunque proposto a Saracco di suonare nella compagnia, per sostituire il clarinettista Masoero che aveva assunto le funzioni di direttore. 

 

Guido Saracco, detto “Sarachet”, è stato uno degli Scolari di Val Masone

Nel 1937 entra nella Compagnia anche il giovane Sarachet

 

Sarachet iniziò usando il clarinetto in do, ma poi, come racconta nella sua autobiografia, sostituì il clarinetto con il “cornoletto”, strumento che il giovane ciclista aveva precedentemente inventato e costruito da sé: era costituito dal tubo di scappamento di un vecchio ciclomotore, a cui Guido aveva praticato dei fori per l’intonazione e collegato il bocchino di un clarinetto. Dopo alcune esibizioni nell’Astigiano, che riscossero un grande successo, Luigi Quaglia, direttore e impresario del Teatro Alfieri di Asti, offrì al gruppo la possibilità di recitare in un teatro di Torino specializzato in commedie dialettali. Il salto verso la grande città venne accettato con entusiasmo, ma non senza qualche timore. L’impresario del Teatro Rossini, Barbera, impose alla compagnia il nome “I nuovi monferrini” e, oltre a far apportare alcune modifiche al testo, se ne attribuì la composizione, concedendo al maestro Mangone solo il dieci per cento sui diritti d’autore. Lo spettacolo fu rappresentato nel maggio 1938 al Teatro Rossini ottenendo un successo straordinario, tanto che agli attori dilettanti astigiani vennero richieste ben undici repliche, una parte delle quali andò in scena nel più capiente Teatro Vittorio Emanuele. Riportiamo parte di una recensione pubblicata sulla “Gazzetta del Popolo” dell’8 Maggio 1938: “Chi siano questi «Nuovi Monferrini», che ieri sera nel teatro di via Po iniziarono un corso di rappresentazioni…, lo disse argutamente il Barbera dopo una presentazione dell’intera Compagnia raccolta: non sono attori, non cantanti, non interpreti, ma un gruppo di popolani, tutti colore e istinto, che sulla scena portano dialoghi, canzoni e balli caratteristici della loro terra, ai quali tutto va perdonato per l’assoluta sincerità del comportamento e per la comicità vivissima che sanno irradiare. […] Discuterli non si può, bisogna vederli, e allora non si può non ridere, che è il fine a cui essi tendono”. Passarono una manciata di mesi e la guerra allontanò la voglia e la possibilità di ridere e far ridere. Molti degli attori e musicisti in scena a Torino furono richiamati alle armi, qualcuno non tornò più e gli “Scolari di Val Masone” si dissolsero. 

 

La locandina della rappresentazione al Teatro Rossini di Torino nel 1938

Il legame con la comicità di Carlo Artuffo

 

Rimase però il copione recuperato qualche decennio dopo da Luciano Nattino, attore e regista della Casa degli Alfieri e presidente di Astigiani. Il testo a firma di Roseo, Bagnasco e Mangone è oggi custodito nell’Archivio della teatralità popolare, Casa degli Alfieri, a Castagnole Monferrato. Si è così stati in grado di recuperare parte dello spirito di quello spettacolo, che naturalmente, oltre al copione, era fatto di improvvisazione, battute estemporanee, momenti esilaranti in scena e fuori. Il dialetto piemontese viene usato come “collante”, una lingua arguta e tagliente. Il clima è lo stesso dei monologhi in piemontese di Carlo Artuffo, l’attore cabarettista nato ad Asti nel 1885 e che al Teatro Rossini di via Po a Torino ebbe i primi grandi successi, poi replicati dalle incisioni dei dischi dei suoi monologhi. Negli Scolari di Val Masone ci sono l’azione corale, la musica, la sorpresa delle situazioni. La canzone che apre lo spettacolo, parla di cusi e viene ripetuta in diversi punti del copione, recita:

Vanta che vuiacc a sapi che noi sima ad Val Masun

cun le vanghe e cun le sape nui pruntuma ’l vin pu bun

quand ca ie l’espusisiun tucc a portu ’l vin pu bun

ma chi l’è che vinc ’l premi sima nui ad Val Masun.

’L nostr pais l’è rich ad roba tucc a venu per catè

ma nuiacc che sima firbu ass lasuma pà ’nbruiè

cun la musica dal cusi tutt’al mund l’è ’n ribilliun

an cunosu come artista an sunandii ’l nostr cansun.

 

L’astigiano Carlo Artuffo, famoso attore dialettale, era la star del Teatro Rossini

Un maestro, i suoi studenti “barotti” e la trama che diventa realtà

 

Il testo degli “Scolari di Val Masone” esprime molto bene lo stereotipo della vita di campagna contrapposto a quella di città e il cui sentimento era molto vivo in quegli anni, e la “ruralità” esaltata dal regime fascista. I protagonisti della storia, che poi è un susseguirsi di diversi quadri, sono degli studenti contadini, ignoranti e un po’ troppo cresciuti, che si prendono gioco del loro maestro, il quale, nel primo quadro, parla loro in piemontese tentando invano, tra un’imprecazione e l’altra, di spiegare la lezione. Gli scolari danno vita a una serie densissima di scenette esilaranti, disobbedendo al maestro e dimostrando assoluta ignoranza, ma molta arguzia. Subentra poi il personaggio della Contessina: venuta da Torino in visita nelle campagne dove lei stessa era cresciuta, chiede al maestro se può far partecipare i suoi studenti a uno spettacolo folkloristico in città. Il maestro stesso pare ora, di fronte all’italiano perfetto parlato dalla ragazza, ignorante e impacciato:

CONTESSINA: Io sono venuta appunto per una cosa che vi riguarda, ecco qui. A Torino si sta organizzando una gran festa folkloristica. Non l’avete letto?

MAESTRO: Verament a me s’mja, na festa fol… fol…

SUFIET (allievo): Fulatun, fulass, fulitru…

MAESTRO: Silenssje!!!

CONTESSINA: Cioè una festa regionale piemontese ad una esposizione da miglior via, ed io qui che sono nel comitato ho deciso di farvi partecipare con i vostri allievi.

MAESTRO: Cosa? Sti matocc a Turin?

Gli studenti si entusiasmano all’idea, e domandano alla contessina com’è la città: «Cuntessina, ca cunta, l’è bel Turin?», «J’è ’d bel buteghe?», «Di bei cinema?», «J’è da mangé ’d robe bune?». L’atteggiamento della ragazza, incuriosita e un po’ intenerita dai giovani “barotti”, rispecchia l’atteggiamento di superiorità un po’ paternalistica che i cittadini torinesi provavano nel confronto dei vicini monferrini e langaroli. Nel terzo quadro la Contessina rimane da sola con gli studenti, i quali tutti fieri le fanno sentire le proprie canzoni in dialetto e le mostrano delle danze tradizionali, come la Monferrina e il Corentone, che evidentemente erano molto apprezzate, per il loro “esotismo”, dal pubblico torinese. 

 

La Banda di Cusot di Asti degli Anni ’50

Il Teatro Rossini divenuto cinema distrutto da un incendio

 

È in questa parte della rappresentazione che si utilizza una delle più tipiche modalità di rappresentazione della differenza: quella linguistica. I giovani contadini, infatti, si sforzano di parlare in italiano per essere all’altezza dell’interlocutrice, con un effetto comico certamente travolgente per il pubblico di allora e che oggi pare quasi grottesco:

CONTESSINA: Come va? Avete già cenato, vero?

ROSINA: Oh sì, abbiamo mangiato un brumo di polenta con un po’ di merluzzo friccio.

CONTESSINA: È anche una buona cena.

CIOTU: A me il merluzzo mi piace tanto, ammacco che ho sempre pau che mi vagga qualche lesca per traverso!

SUFIET: Oh per mi fossi una contessina come chila mangeria sempre pollastro, lappini, salami e paste dusse… ch’am piasu tant.

 

La contessina viene poi corteggiata dallo studente Ciotu, e mentre parlano lei gli spiega che cos’è il varietà e quali sono i nuovi balli, come la rumba e la carioca, che il giovane astigiano storpia istantaneamente in «la rumba… la cariola, ma a sun tute fanfaronade!». Mostra allora alla giovane come si balla “sul serio”, cogliendo un’altra occasione per mettere in scena un ballo tradizionale. Bisogna tenere conto che l’ambientazione astigiana o alessandrina era molto comune negli spettacoli teatrali di questo tipo. Negli anni Venti infatti esisteva già una compagnia teatrale chiamata “I monferrini”, nella quale recitava anche il già citato celebre attore dialettale Carlo Artuffo, che raggiunse il massimo del successo nel 1926 con lo spettacolo teatrale “Sima qui coi ’d Callianet”. C’è da considerare anche il personaggio di Gianduja, la maschera piemontese, che la tradizione e i riscontri storici danno come nato proprio a Callianetto (vedi Astigiani n. 17, settembre 2016). È inoltre un luogo comune nelle trame delle commedie dialettali quello di rappresentare l’arrivo dei campagnoli in città, e tutti i buffi inconvenienti che conseguono alla loro totale inadeguatezza al contesto. E questa è, almeno in parte, anche la trama degli scolari di Val Masone, che si rispecchia, con il gioco del teatro nel teatro, nel reale svolgersi dei fatti: il desiderio realizzato di una compagnia teatrale di provincia che può finalmente recitare a Torino, dove riscuote un successo insperato.

 

Con la fine della guerra tornò la voglia di suonare le zucche

 

Il copione si conclude con la partenza di uno scolaro, soprannominato Bualina, che riceve la cartolina per il servizio militare, quasi un presagio delle imminenti vicende belliche:

MAESTRO: E adess sevi lo ch’a foma? Nduma tucc a cumpagnè Bualina cun ra Banda ’n testa. 

BUALINA: Cosa i veuri butemi tucc i striment an testa?

MAESTRO: Ma no, cun la musica ch’at cumpagna mentri nui cantuma ’l numer dudes. Su tucc an fila. Uno, due… alé.

TUTTI: (canto e musica ) Viva i nostr cussi, tuti russi, sporchi ’d vin. L’è la barbera ch’a ’n fa bufè e nui bufand ai fuma sunè.

La storia della compagnia si conclude più o meno allo stesso modo, cioè con la partenza per il servizio militare dell’ormai indispensabile Sarachet, pochi giorni dopo il loro ultimo spettacolo al Teatro Alfieri, rappresentato il 25 febbraio 1940. La guerra per l’Italia sarebbe scoppiata a giugno. Anche il Teatro Rossini non sopravvisse a lungo. Costruito nel Settecento, venne distrutto da un incendio il 22 dicembre del 1941, alcuni mesi dopo essere stato trasformato in cinematografo. I più superstiziosi insinuarono che le fiamme proiettate durante l’ultimo film, “Maciste all’inferno”, avevano procurato il vero incendio. Un vecchio attore dialettale che ancora viveva in un alloggio situato nell’edificio disse che era stato il teatro a vendicarsi del cinematografo. La guerra finì e tornò la voglia di “suonare” le zucche. Guido Saracco ricorda con affetto in uno dei suoi tanti sonetti, intitolato “Giandoja e ’l Carnevè Ricord Cordial”, che la compagnia si riunì ancora durante il Carnevale di Torino, nel 1946.

La banda delle zucche costituita negli Anni ’80 da giovani astigiani. Si riconoscono, da sinistra, Gianluigi Porro, Luciano Poggio, Carlo Leccioli e Paolino Crivelli

 

Mi l’hai lustrà mè pifer mes ad cossa

’n tonà con ja strument ’d j’amiss d’la ganga,

che lor pur j’an frocià a colp ad brossa,

e prèst a sé r’montà la nostra banda

In quell’occasione di festa, esaltata dalla fine della guerra, gli Scolari cantarono e suonarono ininterrottamente per tutto il viaggio in treno da Asti a Torino, per le vie e le piazze principali del capoluogo e per tutto il viaggio di ritorno. Lo stesso anno il gruppo si esibì alle feste vendemmiali di Asti, come è documentato da un prezioso film dell’Istituto Luce. Si vedono i goliardi e i suonatori di zucche i cui strumenti – dice il commentatore – non li ha mai visti neppure il maestro Toscanini. Sarachèt continuò la sua attività insegnando a costruire e a suonare i cusi a generazioni di giovani astigiani: negli anni Settanta, con gli amici della borgata Cà neuvi, fondò una nuova banda delle zucche, chiamata “Gli amis d’la crota”, il cui eloquente motto figura ancora su una grancassa dell’epoca, conservata a casa Saracco: “Semper ciuch, mai malavi”. Un altro membro della compagnia degli Scolari, Felice Bona, insegnò a suonare e costruire le zucche al giovane sindacalista, ex partigiano, Giulio Grandi, che a partire dal 1954 diresse per anni una “Banda di cusot” legata al circolo “Remo Dovano” dell’azienda Way assauto. Gli strumenti rimasero in un armadio nella sede del PCI, inutilizzati, dal 1958 circa al 1977, quando furono rinvenuti da un gruppo di giovani militanti di sinistra, tra cui Gianluigi Porro, Luciano Poggio, Antonio Frizzarin, Pino Goria, che ricostituirono il gruppo anche grazie, ancora una volta, ai consigli dell’insostituibile Sarachet. Tra il ’77 e il ’78 si esibirono in numerosi carnevali, matrimoni e feste di paese, conciliando con abilità e leggerezza impegno politico e tradizioni locali.  Questi piccoli strumenti di zucca hanno percorso la storia di Asti attraverso tre generazioni e la loro musica, goliardica e gioiosa, ha acquisito ogni volta nuovi significati. Se in un baule di cose vecchie o in nel cassetto di qualche armadio, trovaste una piccola zucca tagliata, provate a soffiarci dentro. Sarà come la lampada di Aladino della nostra storia.    

 

Per saperne di più

(ROSEO, BAGNASCO, MANGONE, Gli scolari di Val Masone [1938], testo teatrale, Archivio della teatralità popolare, Casa degli Alfieri, Castagnole Monferrato)

Per vedere il video dell’Istituto luce sulla Fiera del vino di Asti con la presenza della Banda delle zucche 

http://www.archivioluce.com/archivio/jsp/schede/videoPlayer.jsp?tipologia=&id=&physDoc=23207&db=cinematograficoCINEGIORNALI&findIt=false&section=/ 

 

L'AUTRICE DELL'ARTICOLO

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Astigiani è un'associazione culturale aperta, senza scopo di lucro, che ha bisogno del sostegno di altri "Innamorati dell'Astigiano" per diffondere e divulgare la storia e le storie del territorio.
Tra i suoi obiettivi: la pubblicazione della rivista trimestrale Astigiani, "finalizzata alla raccolta e diffusione di informazioni e ricerche di storia e cultura astigiana dal passato remoto a quello prossimo, con uno sguardo al presente e la visione verso il futuro (dallo statuto), la raccolta di materiale per la creazione di un archivio fotografico, video e documentale collegato al progetto "Granai della memoria", la realizzazione di presentazioni pubbliche e altri eventi legati al recupero della memoria del territorio.

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