venerdì 12 Dicembre, 2025
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Speciale pandemia

Diario della quarantena

LE MESSE IN STREAMING PER TENERE UNITA LA MIA CHIESA

Marco Prastaro
Vescovo di Asti, 57 anni

 

Quando la pandemia ci ha rinchiusi in casa, capii che avrei dovuto fare tutto quanto mi era possibile per essere vicino al mio popolo.

In casa mi organizzai dandomi un orario a cui mi sono meticolosamente attenuto. Più difficile è stato capire cosa potessi fare per la mia Chiesa. Ero senza mezzi: non ci si poteva incontrare. Mi ha aiutato il telefono. Ho passato tante ore chiamando i nostri preti, rimanendo in contatto con chi portava avanti le nostre iniziative caritative, sanitarie e per i giovani.

Il credito di 1000 minuti del telefono finiva rapidamente, ma erano tutti minuti di confidenze e familiarità che cresceva! Ho scritto parecchio per ricordare che il Signore non ci aveva abbandonato, ma camminava al nostro fianco. La riflessione settimanale su la Gazzetta d’Asti voleva essere una condivisione alla ricerca di significati di ciò che ci stava accadendo, un provare a esprimere sentimenti che abitavano il cuore. Ho scritto alcune lettere: ai preti, alle suore, ai giovani della diocesi e a tutto il personale sanitario della
nostra Asl (una riflessione sui confini presso i quali stavano “combattendo”).

E poi le Messe domenicali in streaming per incontrare e tenere unita la comunità. Senza vedersi non è stato facile sentire il calore del legame. Poi uno dei due operatori mi ha ricordato che i fedeli erano dietro l’obiettivo della camera. Allora guardavo lì, consapevole di guardarli negli occhi. Con la Settimana Santa abbiamo iniziato a celebrare in Cattedrale: lì, nel vuoto della chiesa, il senso di tragedia e di gravità incombeva silenzioso. Il giorno di Pasqua, come avevo invitato tutti a fare, ho messo il vestito della festa, “l’abito corale” che avevo indossato solo il giorno della mia ordinazione. Anche il vestito ha aiutato a sentire la festa, la speranza della vita nuova, in un tempo in cui sembrava non ci fosse nulla da festeggiare.

Ricordo poi i giorni della malattia di Don Croce. Sapevamo che il male lo avrebbe preso presto. Pregavo che potesse vivere fino a quando avremmo potuto fargli un funerale “come si meritava”. Ma se ne è andato prima. Abbiamo celebrato il suo funerale in privato, coi sacerdoti anziani del seminario e sua nipote. Il resto della comunità era assente fisicamente, ma presente spiritualmente.

Ai sacerdoti scrivevo che questo tempo ci ha reso, come tutti, vulnerabili, paurosi, ansiosi, in fila con gli altri. Ma ciò ci ha fatto bene perché “essere come loro” ci rende più capaci di “essere per loro”.

+ Marco

 

ANSIE DAPREFETTO E CONDORTO DI MIA MOGLIE

Alfonso Terribile
Prefetto di Asti, 63 anni

Ho vissuto l’emergenza sanitaria che ha caratterizzato queste ore faticose e intense settimane in una dicotomia: ore tanto frenetiche di giorno, in un susseguirsi di telefonate, videoconferenze e flussi di dati da monitorare, quanto ritirate e raccolte al calar della sera,
quando non rimanevo che in compagnia di mia moglie e dei miei pensieri. Nei rari momenti di relax serale, perso nelle mie riflessioni, mi sedevo al pianoforte per trovare nella musica un po’ di conforto per il fisico e per la mente.

Ho cercato di assaporare a pieno la dimensione domestica, confortato da mia moglie, che mi ha supportato condividendo con me impressioni e preoccupazioni di quei giorni convulsi.
Non dimenticherò di quella volta che, aiutandola volenterosamente in cucina, ho sbadatamente bruciato il buon sugo che mi aveva incautamente affidato, salvo poi impegnarmi per rifare tutto da capo…

In compagnia di mia moglie, dalla mia abitazione nel cuore del centro cittadino, ho più volte contemplato dall’alto l’inedito spettacolo di una piazza Alfieri deserta, riflettendo sulle bellezze del territorio astigiano e l’accoglienza dei suoi abitanti, che ho imparato a conoscere profondamente.

Tengo particolarmente a citare un breve testo scritto dalla mia consorte, frutto di quelle riflessioni serali: “Stasera le auto sono più frequenti, ma tra l’una e l’altra si ascoltano suoni come in campagna: il verso della tortora è coperto dalle grida di rondini numerose e spericolatissime, poi cinguettii sparsi tra gli alberi e il Monviso, immerso nel rosa/arancio della fine del giorno, fa da sfondo ai mattoni rossi della Collegiata e della Torre Troiana. Il campanile batte le ore… io respiro con la vita che scorre. Sarebbe bellissimo guardarlo insieme! Tu mantieniti forte”.

IN SILENZIO DAVANTI AI DRAMMI

Paolo Lanfranco
Presidente della Provincia di Asti, 38 anni

 

Mi sentivo ancora lontano dai rischi cui saremmo andati incontro quando mi informarono della diffusione del contagio in un albergo di Alassio in cui soggiornavano da alcune settimane i partecipanti ai soggiorni marini organizzati dalla nostra Provincia; si susseguirono, con ritmo serrato, incontri con il Prefetto ed il Sindaco di Asti, con i quali presi parte il 2 marzo ad un tavolo di crisi, alla Prefettura di Torino; l’Astigiano, e Portacomaro in particolare, costituivano in quei giorni l’area che destava maggiore preoccupazione.

Ricorderò a lungo l’angoscia che provai nell’udire da parte del Coordinatore dell’Unità di Crisi le prospettive che avevamo davanti: tra molte incognite, sia sull’evoluzione del contagio sia sulle misure da mettere in campo, si aprivano scenari potenzialmente drammatici. Per alcuni interminabili secondi nessuno parlò. Fu certamente quel momento di silenzio in cui ho avuto più difficoltà a mantenere il sangue freddo.

Resteranno impressi nella memoria anche due momenti di cordoglio collettivo, che ho vissuto in rappresentanza della Provincia e del mio Comune. La mattina di sabato 14 marzo ho ritenuto doverosa la presenza a Montaldo Scarampi della fascia blu della Provincia, a fianco di quella tricolore del Sindaco, del parroco, e dei soli figli, per portare l’estremo saluto al senatore Giovanni Rabino, testimoniando la gratitudine delle istituzioni astigiane per l’impegno da lui profuso per il nostro territorio. In un’atmosfera mesta e surreale, ho vissuto un doloroso senso di vuoto.

Pochi giorni dopo, a Valfenera il mio paese, un altro intenso momento di lutto: la sera di domenica 29 marzo, davanti alle lapidi ai Caduti, affiancato dai Carabinieri che avevano perso il loro Comandante di Stazione, ho omaggiato la memoria del luogotenente Mario D’Orfeo, un servitore fedele delle istituzioni, un concittadino stimato e amato per le sue doti
umane, un amico per molti; la era piazza vuota ma sapevo che dalle loro case i valfeneresi erano comunque uniti nella preghiera e nel ricordo mentre dall’antica torre campanaria
venivano diffuse le note dell’Inno nazionale, dell’Inno alla Virgo Fidelis e del Silenzio.

Di molte riunioni, di altri momenti, di tante parole, forse non rimarrà traccia nel mio ricordo. Resteranno però queste emozioni, questi silenzi.

 

LE MIE DIRETTE FACEBOOK PER NON LASCIARE SOLI I CONCITTADINI

Maurizio Rasero
Sindaco di Asti, 46 anni

La mia quarantena è stata una botta di adrenalina e umanità all’ennesima potenza sia verso le persone con le quali ho condiviso, chiuso in casa, quelle settimane, sia verso i cittadini di Asti ai quali ho cercato di non far mancare l’appoggio, la presenza, l’incoraggiamento e la fiducia.

Restando a casa ho potuto dedicarmi al mio papà e alla mia mamma come meritano e come, per mille impegni, non ero mai riuscito a fare da molti anni a questa parte, riscoprendo il valore degli affetti familiari anche attraverso episodi della giornata che vanno dal cucinare con mia mamma o aiutarla a stendere e piegare le lenzuola fino al fare la barba a mio papà o aiutarlo a fare un minimo di passi tutti i giorni, cosa non scontata visto i suoi problemi di salute.

Grazie alla tecnologia ho potuto azzerare le distanze con il mondo che mi circonda impostando diversamente il modo di lavorare e di fare il sindaco. Non ho perso una riunione o un incontro, riuscendo a confrontarmi ai tavoli della Prefettura, a quelli dell’Asl o a quelli dei vari assessorati passando da una piattaforma all’altra, discutendo e a volte arrabbiandomi, senza uscire dalla mia camera dove ho il computer. Abbiamo gestito così anche il Consiglio comunale, per la prima volta convocato on line.

Grazie ai social ho potuto idealmente prendere per mano i miei concittadini cercando di far sentire loro la mia vicinanza e il mio impegno. Non volevo che qualcuno si perdesse, si
abbandonasse allo sconforto e alla paura. Questo è stato possibile grazie ai social, con filmati durante la giornata che vanno dall’organizzazione dei mercati, compreso “lo scoop” presso i supermercati dove sono andato in incognito per verificare il corretto utilizzo dei buoni spesa del nostro Comune.

Ho anche diffuso alcune ricette della cucina astigiana custodite nella tradizione della mia famiglia che in molti hanno provato a cucinare o che mi hanno suggerito come preparare
in altro modo (ricordo chi mi diceva di non mettere le uova negli gnocchi o chi mi diceva di non far friggere le patate prima di aggiungerle nello spezzatino).

Le mie dirette Facebook, scandite dall’immancabile “diario di bordo del giorno…”, sono diventate l’appuntamento fisso giornaliero di molte migliaia di nostri concittadini. In una realtà come quella astigiana, purtroppo privata ormai da tempo di una propria televisione locale, quella mia diretta è stata un appuntamento seguito e atteso che ha informato e fatto compagnia agli astigiani chiusi nelle loro case. C’è chi, i più piccoli ma non solo, la attendeva per le storie di Esopo, chi per avere informazioni sulle agevolazioni e gli aiuti del Governo e della Regione, chi per sapere come comportarsi di fronte a determinate situazioni, chi per avere il bollettino quotidiano dei nuovi positivi e dei decessi per capire da questi numeri come stava evolvendo la situazione e chi la seguiva anche solo per salutare gli amici collegati o per dire qualsiasi cosa di fronte a un pubblico numeroso.

Ricordo chi per giorni ha continuato a scrivere nei commenti contro le antenne 5G, che ad Asti per la cronaca non ci sono, oppure chi per venti giorni tutti i giorni ha scritto «quando riapre l’ecocentro?» o gli iniziali appelli sul mettere o no le mascherine o, infine, la cosa detta più volte da più persone: «bisogna fare più tamponi!».

MENO TRASFERTE CON LE VIDEO CONFERENZE

Mario Sacco
Presidente Fondazione Cassa Risparmio di Asti , 66 anni

 

La mia “quarantena” è finita solo sabato 6 giugno quando finalmente abbiamo rivisto e abbracciato nostro figlio Valerio, che lavora alla Barilla ed era bloccato a Parma dal 16 febbraio. Per tutti noi è stata una grande emozione.

Eravamo sempre rimasti in contatto con il computer e via telefono, ma non è la stessa cosa poterlo avere con noi nella nostra casa di San Damiano. Ci siamo detti tutto con gli occhi.
Mi sono impegnato anche a rendere bello il giardino di casa che non è mai stato così curato.

Il Covid mi ha fatto riscoprire valori molto importanti che tutti avevamo un po’ dimenticato.
In queste settimane debbo ammettere che sono anche diventato quasi esperto di video-conferenze, almeno due o tre al giorno con le quali ho sbrogliato gran parte del lavoro insieme a mail e Whatsapp. E ho anche scoperto che tanti dei viaggi e delle trasferte che facevo prima a Roma o a Torino si possono benissimo evitare usando queste tecnologie come continuerò a fare d’ora in avanti. Ci sarà un gran lavoro da fare per tornare come e meglio di prima.

 

UN TESTIMONE ASTIGIANO DAL FRONTE DELL’ECO DI BERGAMO

Maurizio Ferrari
Astigiano, giornalista, 56 anni

 

Scrivo da Bergamo, continuo a sentirmi profondamente astesan, ma questa tragedia ha sicuramente amplificato l’amore verso la mia patria d’adozione. Bergamo terra martire, divenuta emblema del dramma, con quella foto dei carri militari che trasportano le bare destinate alla cremazione, epicentro di un terremoto che ha scosso le fondamenta delle nostre certezze, tsunami che ci cambierà per sempre.

Abbiamo avuto morti in terra orobica, tanti morti, siamo arrivati a contarne oltre 200 al giorno al culmine dell’emergenza: un conteggio per difetto, perché a chi moriva in casa, ed erano altrettanti, non veniva fatto il tampone, quindi lo si catalogava diversamente.

Cinquemila decessi in marzo (+568% rispetto agli anni precedenti, rivelerà l’Istat), con gli ospedali che esplodevano e migliaia di volontari che annaspavano dentro al contagio, che cercavano di aiutare fratelli e genitori improvvisamente inghiottiti dal virus e portati su un’ambulanza a morire via, senza la carezza di un familiare, senza un fiore al proprio funerale.

Come una guerra: mola mia

 

Sono di una generazione che non ha vissuto la barbarie della guerra, ma avendo avuto un nonno ufficiale, i racconti bellici durante la mia infanzia non sono mancati: ecco, rivedo
gli atti di eroismo di tanti, come ci furono allora; la paura che ti paralizzava e il coprifuoco, assimilabili alle nostre reclusioni forzate; il timore di non farcela, di aver perso amici, fratelli, nonni, una generazione intera che custodiva la nostra memoria. Il nemico stavolta è invisibile, crudelmente subdolo, capace di ghermirti solo per aver stretto una mano, per una chiacchiera di troppo, o scambiato un bacio con chi avevi di più caro.

Essendo, poi, figlio e fratello di medici, il mio pensiero corre a quelle unità di crisi al collasso, con medici e infermieri straordinari, che hanno vissuto turni infiniti vegliando, unici angeli, sui loro pazienti intubati, con la speranza di tirarne fuori almeno qualcuno.

Sono stato testimone della capacità straordinaria di mobilitarsi dei bergamaschi che, in dieci giorni, fanno crescere dal nulla un nuovo ospedale, che si aiutano, in modo commovente, sussurrando di labbra in labbra quel motto: mola mia, non mollare, che ha imparato a conoscere anche il resto d’Italia.

La memoria corre al mio dolce papà Carlo, scomparso sette anni fa, che ad Asti aveva fatto nascere il reparto di Rianimazione. Almeno questa, caro babbo, te la sei risparmiata: con la sua generosità il mio genitore-primario avrebbe sicuramente finito per contagiarsi, come hanno fatto tanti sanitari qui in Lombardia, lasciati in prima linea per settimane senza protezioni, a contatto quotidiano col morbo, pagando un tributo altissimo (e intollerabile) di vite.

Quelle pagine di necrologi

 

I primi oscuri presagi cominciammo ad averli in redazione, a L’Eco di Bergamo, attorno al 20-22 febbraio, quando scoprimmo che il figlio di una nostra segretaria era contagiato e si trovava in quarantena. In tanti allora pensavano a qualcosa di ancora passeggero, io invece ebbi netta la sensazione che era una cosa seria. Mai però avrei pensato che di lì a poche settimane avremmo raddoppiato e poi triplicato fino a decuplicare le pagine dei nostri necrologi, altra immagine choc circolata in mezzo mondo.

Cominciavano misteriosamente ad assentarsi persone care dal giornale, poi la prima mannaia: Renzo Testa, storico leader della pubblicità de L’Eco, muore dopo brevissima malattia. Fu solo il primo di una catena infinita di lutti e ricoveri, con altri quattro nostri colleghi giornalisti contaminati (uno ricoverato), poi fortunatamente riemersi dopo febbroni da cavallo.

Ormai siamo certi di essere in piena zona rossa che invece non verrà mai proclamata. Nonostante le prime settimane al lavoro avessimo cercato di resistere bardati di tutto punto
(mascherine, guanti, occhiali protettivi), non era più possibile lavorare in redazione: dal 2-3 marzo siamo finiti tutti in modalità smart working, salvo qualche intrepido caporedattore
che ha preferito non abbandonare “fisicamente” la nave.

Lavorare da remoto mi affascinava, ma alla fine è risultato frustrante: collegamenti in continua caduta per rete sovraccarica, difficoltà a comunicare tra le varie parti del giornale e tempi lavorativi dilatati. Niente però al confronto di quanto accadeva nelle strade, dove notte e giorno risuonavano ininterrotte e sinistre le sirene delle ambulanze.

Le (macabre) regole dell’economia

 

Dal nostro osservatorio (anche mia moglie Bruna, funzionario di banca e astigiana come me, ha continuato da casa a parlare con i clienti di moratorie e mutui), abbiamo purtroppo potuto verificare come in questo territorio le leggi dell’economia, rivelatesi macabre, sono state capaci di tenere in ostaggio la politica ostacolando, almeno in parte, quella sacrosanta chiusura totale che andava fatta subito, nella zona a più alto rischio all’imbocco della Val Seriana, tra Alzano e Nembro, dove il focolaio fortissimo ha sterminato intere famiglie.

Invece sono prevalsi i tanti interessi in gioco e non quello primario del diritto alla salute, decidendo di non decidere sulla zona rossa. Da lì è nato tutto e, a partire dal 15 marzo, Bergamo precipitava in una dimensione tragica, con numeri che hanno fatto impallidire persino la cinese Wuhan, la città-matrigna del contagio globale.

Il picco si tocca il 21 marzo, primo giorno di questa tragica primavera: nella sola provincia di Bergamo 715 contagiati e 256 morti in 24 ore. Si è è scatenata la guerra senza esclusioni di colpi tra istituzioni con gli immancabili rimpalli di responsabilità.

Sono anche partite le inchieste giudiziarie, soprattutto per ricostruire quella giornata convulsa del 23 febbraio, quando il Pronto soccorso di Alzano fu chiuso e poi sciaguratamente riaperto nel giro di poche ore. I morti (e anche i vivi) esigono risposte: non so se le avranno tutte.

Addio da lontano ai due Vittorio

 

Tanti amici e conoscenti qui ci hanno lasciato d’improvviso, senza il tempo di piangerli. Il giorno 8 aprile ho pianto anch’io e non per una vittima bergamasca e non per il coronavirus: ci aveva lasciati dal suo ricovero astigiano, ormai stanco e malato, Vittorio Marchisio, il mio primo maestro di giornalismo.

Mi capitava ancora di andarlo a trovare nella casa di cura di via Testa, dove era ricoverato da anni, anche se Toju forse aveva cominciato a morire quando schiena e gambe non
lo ressero più per fare il solito giro di nera a raccogliere notizie. Ti ho voluto bene Vittorio, mi narrasti l’epopea del giornalismo astigiano, il tuo amore-odio per Luigi Garrone, le corse e i dispetti per l’ultimo fuorisacco serale, l’ossessione per i “buchi” ricevuti o resi. Ricordo i tempi della redazione astigiana de La Stampa dei primi Anni 80, via Massimo d’Azeglio, angolo via Antica Zecca.

Io giovanissimo e titubante sulla soglia, per la prima volta mi presentai al Cavalier Marchisio. Mi stoppò subito: «Sei il figlio del dottor Ferrari? Brava persona. Vuoi scrivere? Vai a controllare il livello del Tanaro, sta piovendo troppo e poi vieni a raccontarlo». Questo era Vittorio e spero che la nostra città lo ricordi dedicandogli una via o, meglio, un premio giornalistico.

Un altro Vittorio giornalista se n’è andato a 20 giorni dal primo: don Croce, l’inossidabile mio primo direttore alla Gazzetta d’Asti (lo è stato per 44 anni!): fu lui che mi accolse in quel lontano 1984, buttandomi subito nella mischia a seguire l’Asti, allora in serie C, e le malebolge del Palio.

Vi dico addio maestri e devo farlo da lontano, ma la prima cosa che farò di ritorno ad Asti sarà portarvi un fiore. A Pasqua, benché reclusi, abbiamo voluto festeggiare: sottovoce, per il rispetto che si deve a una terra provata oltremisura.

Il nostro giovane sindaco di Brusaporto (paese a 8 chilometri da Bergamo, che abbiamo scelto perché le sue colline ci ricordavano quelle astigiane) ha fatto in modo che tutti, giovani e anziani, potessero avere mascherine consegnate a casa e anche la spesa a domicilio, grazie a una rete di piccoli negozi di vicinato. Così Bruna ha scelto di fare la Torta pasqualina e io ho ordinato una colomba all’albicocca. Abbiamo aperto una bottiglia del nostro Moscato d’Asti, made in Castiglione Tinella, brindando da un balcone all’altro con i vicini di casa.

Brindisi di Pasqua al Moscato d’Asti

 

Mi sono venute in mente le Pasque astigiane di tanti anni fa: il grande uovo di cioccolato fondente (con l’attesissima sorpresa) acquistato da Giordanino, il pranzo di famiglia e gli agnolotti fumanti della zia Teresa. Poi da ragazzini con mio fratello Gianluca (oggi primario a Casale e in prima linea come tutti i suoi colleghi contro il covid), l’attesa per le feste di San Secondo, i fuochi, le giostre in piazza del Palio e lo zucchero filato.

Quando non lavoro, ho i miei antidoti per convivere con la cattività: i miei libri, la musica, i vecchi sceneggiati di Maigret con Gino Cervi che non mi stanco mai di rivedere. Tante le storie tragiche o bellissime che noi de L’Eco di Bergamo abbiamo raccontato in queste settimane (compresa l’inchiesta ripresa dai giornali internazionali sul numero reale delle morti di covid in provincia, molto superiori a quelle ufficiali). Ci siamo ritrovati citati a Pasquetta dal presidente francese Macron, che ha indicato Bergamo come città emblema nel mondo di questa tragedia, ma anche come punto da cui far ripartire la rinascita.

La telefonata del Papa

 

Il 15 aprile il nostro direttore riceve la telefonata di Papa Francesco che elogia proprio lo sforzo nel raccontare, nel dare dignità a chi ha perso la vita o a chi sta lottando per preservare la sua e quella degli altri.

Tra i centinaia pubblicati, preferisco i racconti minimalisti: mi ha colpito quello di Anna Salvatori, mamma di tre figli e infermiera di Norcia, città colpita dal terremoto del 2016, che dal 3 aprile ha deciso di entrare come volontaria in servizio al Covid Hospital di Bergamo «per ridare una parte di quella solidarietà che avevamo ricevuto con il terremoto», ha detto. Sono stati tanti gli slanci e le manifestazioni d’affetto in questi giorni tragici: mai Bergamo si era sentita così amata, ma chi semina raccoglie sempre.

Furono molti i bergamaschi che vennero in soccorso anche ad Asti in occasione dell’alluvione del 1994: volontari, alpini o squadre organizzate, specie in zona Tanaro e Trincere, arrivarono con pompe idrovore e aiutarono gli astigiani nell’immane sgombero del fango. E dopo il dare, ora era il momento di ricevere.

Un prima e un dopo

C’è un prima e un dopo la pandemia.

Nei mesi precedenti il disastro, Bergamo aveva raggiunto record invidiabili: il suo aeroporto di Orio aveva toccato i 13 milioni di arrivi annui (terzo in Italia dopo Fiumicino e Malpensa), l’export tirava, il turismo era finalmente decollato anche grazie all’enogastronomia e l’Atalanta aveva esaltato tutti per essere riuscita a raggiungere i quarti di Champions League, massimo traguardo in oltre 100 anni di storia. Chi poteva immaginare di essere sull’orlo del baratro.

Poi c’è il dopo, con quel primo spiraglio di apertura il 4 maggio, ma che continua a tenerci avvinghiati in una spirale di paure, in un mix di flebili segnali positivi, false speranze e ricadute, col lavoro che riparte nonostante la “bestia” non sia ancora debellata.

Il 23 aprile il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, ha preso una posizione durissima contro “chi sapeva sin da fine gennaio” che il disastro avrebbe potuto avvenire e non ha agito in tempo. Il premier Conte si presenta a Bergamo solo il 28 aprile, quasi a notte, praticamente due mesi dopo l’inizio dell’incubo: forse sarebbe dovuto venire prima per far capire la vicinanza dello Stato.

Raccomandazioni a mio figlio Giulio

 

Chi è sembrato impermeabile alle ansie è mio figlio Giulio. Penso a come saremmo diventati matti, noi diciottenni degli Anni Sessanta, reclusi per mesi tra quattro mura, noi che se non si scendeva almeno una volta al giorno in cortile per tirare quattro calci al pallone ci si sentiva soffocare, noi che avevamo bisogno come l’aria del contatto con gli amici, della compagnia, del “Ciao” bianco, del bar Mixi.

Ma loro sono i millenials, i nativi digitali, che dialogavano a distanza già prima della pandemia, con le loro chat, le f inestre virtuali che si aprono contemporaneamente e le lezioni davanti al pc. Mio figlio e i suoi amici sono rimasti a casa, disciplinati e sul pezzo, pur mordendo il freno.

Il 2 aprile Giulio ha sostenuto il suo primo esame universitario on line (frequenta la Naba a Milano, ama la regia e ha creato spot e corti che qualcuno ha già notato), poi mi ha girato soddisfatto sul cellulare la schermata del suo 28. Altro che il mio libretto di Lettere a Palazzo Nuovo.

Voglio finire con una raccomandazione, sperando che mio figlio non sbuffi: «Questa tragedia, caro Giulietto, deve far capire a tutti, soprattutto alla tua generazione, che tra qualche anno guiderà il Paese, che la salute è un bene primario e inalienabile, che tagliare posti letto e prestazioni sanitarie significa perdere per strada pezzi di vita, che l’egoismo deve lasciare il posto a una solidarietà diffusa, che se tutto dovesse tornare davvero come prima, beh, sarebbe proprio un’occasione persa. Per tutti».

 

LA RISPOSTA DELLA CROCE VERDE E QUELL’IDEA DI VEGLIONE

Domenica Demetrio

Avvocato, presidente della Croce Verde di Asti, 65 anni

 

Sono stata nominata presidente della Croce Verde di Asti nel gennaio 2020 e i giornali avevano titolato “per la prima volta una donna presidente dopo 111 anni”.

Mi sono ritrovata circondata da un consiglio composto da persone brave e molto competenti, ma soprattutto con una grande energia e voglia di fare, uomini e donne per i quali “la Verde” è la seconda casa, volontari ripagati dall’affetto delle persone che soccorrono.

Avevamo tanti nuovi progetti e ne stavamo parlando nella nostra sede di corso Genova, una sera di fine gennaio, quando all’improvviso bussa un volontario che, con fare circospetto e l’aria molto preoccupata, chiama il direttore dei Servizi, Sergio Gallo, che è la persona che sa tutto quello che accade in sede, anche quanta polvere c’è sotto il divano. Poco dopo il direttore è rientrato e ci ha riferito che forse l’ambulanza che era appena rientrata aveva trasportato un caso di covid 19. In quel preciso istante ci siamo resi conto che il paventato e temuto virus era arrivato fino a noi.

La direzione sanitaria della Croce Verde, con i medici Walter Saracco e Andrea Strocco, aveva già provveduto ad acquistare i DPI, quelli che ormai tutti abbiamo imparato a conoscere, le mascherine, che per i soccorritori sono di tipo speciale, guanti, camici ecc, quindi i soccorritori erano ben attrezzati per fronteggiare questo invisibile nemico che ha gettato paura e causato morte anche nelle nostre terre.

Col passare dei giorni la situazione era peggiorata sempre di più e occorreva cercare di reperire altro materiale di protezione, che nel frattempo si era reso introvabile, oltre a cercare dispositivi sempre più sicuri per tutelare i militi, che vanno salvaguardati per loro stessi, per le loro famiglie e perché possano continuare a svolgere il loro prezioso lavoro. Temevamo defezioni, che per fortuna non ci sono state: i volontari, ragazzi e ragazze, ma anche lavoratori e pensionati, pur consci del rischio di contaminazione che potevano correre, hanno continuato senza sosta e senza tentennamenti ad accompagnare i contagiati all’ospedale, con grande spirito di abnegazione e coraggio, sempre con un sorriso, che cercavano di far trasparire sotto le mascherine.

Abbiamo adottato le più rigorose misure di sicurezza. La Croce Verde non ha chiesto aiuti economici, ma molti, astigiani e non, hanno generosamente contribuito al sostegno economico per l’emergenza. Tra i primi sono arrivatii diecimila euro stanziati dall’Associazione Astigiani, che non ringrazieremo mai abbastanza, nella persona del suo presidente Pier Carlo Grimaldi. Quei soldi li abbiamo subito usati per l’acquisto di apparecchi per sanificare i mezzi impegnati nei trasporti, operazione di primaria importanza per la sicurezza di tutti.

La Croce Verde è grata a tutti i donatori per la benevolenza di cui è stata fatta segno, assicura che tanto bene viene e verrà riversato su chi ha bisogno e può contare su di un servizio professionale oltre che volontario. Lo garantisco a nome dei duecento che aderiscono al nostro sodalizio. E in queste settimane di emergenza ci è venuto in mente, parlando con Sergio Miravalle di Astigiani, che sarebbe bello, quando si potrà farlo in sicurezza e con lo spirito giusto, tornare a organizzare un nostro veglione, come la Croce Verde faceva negli Anni ’50 e ’60: un momento di incontro, di ricordo e di ringraziamento.

DALLA PRIMA LINEA DELLA TERAPIA INTENSIVA

Ilaria Varese

Medico Anestesista Rianimatore-Ospedale Cardinal Massaia, Asti, 38 anni

 

In ospedale da metà febbraio era tutto un controllato fermento: si susseguivano mail, incontri, protocolli… cercavamo di prepararci al meglio per qualcosa di sconosciuto, che sapevamo sarebbe arrivato, ma non potevamo immaginare così violentemente.

La nostra Rianimazione normalmente ha dieci posti letto, una delle pochissime in Piemonte ad avere ben due postazioni perfettamente isolate, con doppia porta di protezione a pressione negativa. E in quei primi giorni ho pensato che tutto sommato potessimo ritenerci fortunati e che forse sarebbero bastate. Nel 2015 avevamo fatto corsi e protocolli per Ebola che poi non era mai arrivato. Invece questa volta in Malattie Infettive iniziavano a ricoverare i primi casi di pazienti positivi al SARS Cov2, dapprima li contavamo sulle dita di una mano, poi di due, poi avevamo il reparto pieno.

Il primo marzo abbiamo intubato il nostro primo paziente positivo. Il due il secondo. E i nostri due preziosi posti erano finiti. Da lì in poi ci siamo inventati tutto: non bastava il reparto di Malattie Infettive, non bastava chiudere tutti gli ambulatori, non bastava fermare tutta l’attività operatoria ordinaria. Abbiamo rivoluzionato tutto. Ogni due giorni un reparto che prima era destinato a una specialità medica o chirurgica diventava Covid. Covid 3, Covid 2, Covid 1, Covid 0, Covid 4, Rianimazione 1 (che da 10 è passata a 14 posti) e Rianimazione 2 (nata stravolgendo le sale operatorie, svuotando, rubando spazi nati per tutt’altro utilizzo… in ogni sala operatoria due posti letto) e Medicina d’Urgenza. Tutti solo, sempre, pazienti Covid.

Abbiamo triplicato il personale di guardia in rianimazione. Abbiamo reclutato OSS e infermieri da tutto l’ospedale, che stravolgendo le loro abitudini hanno cercato di imparare in un pugno di giorni ciò che normalmente si impara in mesi. Medici chirurghi generali, gastroenterologi, dermatologi, cardiologi, ortopedici, urologi, chirurghi vascolari hanno abbandonato le loro certezze, le loro competenze specialistiche per aiutare in ogni modo nella gestione di questi pazienti respiratori. Sono stati assunti specializzandi all’ultimo anno di formazione di ogni specialità giovani, molto preparati, che da un giorno all’altro hanno lasciato la loro vita, la loro città, i loro progetti, le loro tesi, i loro ospedali, per dare una mano, una mano fondamentale. E i pazienti… i nostri pazienti erano incredibilmente tutti simili: uomini di mezza età, spesso sovrappeso, con poche o nessuna patologia preesistente che arrivavano in difficoltà respiratoria.

Omoni oltre il quintale, alcuni sportivi, alcuni abbronzati, professionisti, lavoratori, che fino a pochi giorni prima facevano una vita attiva e normale esattamente come la nostra e che invece oggi varcavano la soglia della Rianimazione con lo sguardo impietrito di chi sa perfettamente (perché nei telegiornali e nei talk show non si parlava d’altro) che dopo il peregrinare da reparti a bassa, poi media, poi alta intensità di cura, questa in terapia intensiva avrebbe potuto davvero essere l’ultima fermata.

Uomini forti, abituati a essere autosufficienti, che invece ora andavano in affanno nello sporgersi dal letto per prendere un bicchiere d’acqua. Confusi per il basso apporto di ossigeno che i loro polmoni malati riuscivano a malapena a garantire al cervello nonostante tutte le nostre mirabolanti tecnologie. Omoni infine sedati profondamente, intubati, con la vita appesa a un ventilatore e a mille farmaci; inermi, da girare periodicamente a pancia in su o in giù per cercare di migliorare anche solo di poco l’ossigenazione dei tessuti, per avere ancora un po’ di tempo nell’attesa di capire di più di questa malattia nuova. Si è ammalato chiunque: chi era prudente, chi faceva lo spaccone, giovani, anziani, colleghi dell’ospedale e delle strutture sanitarie del territorio, medici di famiglia… tutti.

Dal primo marzo ad oggi hanno varcato la soglia delle nostre Rianimazioni più di 70 pazienti. I sopravvissuti hanno di fronte a sé un lungo, lunghissimo cammino di riabilitazione fisica e psicologica. Reimparare a parlare, mangiare, stare seduti, camminare… una vera e propria faticosissima rinascita. E io nei primi due mesi ho messo tutto in pausa. Ho vissuto lontana dai miei genitori e dalle mie figlie. Le ore libere dai turni erano semplicemente un tempo per mangiare, dormire, recuperare lucidità per poi tornare dentro.

Sapevo a che ora sarei entrata ma non quando sarei uscita, né se sarei uscita. Arrivavano notizie di colleghi lombardi che venivano trattenuti in ospedale. Tutti noi siamo andati a lavorare con uno zaino col cambio. E ora che tutto sta andando meglio si aprono nuove sfide, altrettanto difficili, del contenimento dei nuovi casi, della ripresa delle attività finora sospese, e soprattutto dobbiamo fare i conti con la paura che tutto torni.

 

IL MONDO IN UNA STANZA LA SPERANZA IN UN TAMPONE, ANZI DUE

Maurizio Scarpa

Artigiano falegname e macchinista teatrale, 69 anni

 

Sono tra i colpiti dal Coronavirus. Dal 21 al 30 marzo vengo ricoverato in ospedale ad Asti e poi dimesso per proseguire le cure e l’isolamento a domicilio: da allora vivo chiuso in casa. Mentre aggiorno queste mie note sono 71 giorni che sto nella mia camera di 4 metri per 4, letto grande, armadio e finestra che si affaccia sulla passeggiata delle antiche mura dove ho visto per settimane amanti o fidanzati che si incontrano con la scusa di portare fuori il cane. Scusate, non sono un guardone, mi interessava di più il girovagare di certi gatti. Su un tabellone segno ogni giorno di isolamento.

Avete presente i soldati di una volta con la stecca dove segnavano l’avvicinarsi della fine della naja? Cammino ogni giorno un po’ senza mai uscire dalla stanza. All’inizio pochi passi, poi sempre di più. Il giorno di Pasqua ho fatto 5 chilometri. Mi sono inventato anche una ginnastica tipo tai-chi molto leggera. La mia situazione ha condizionato per settimane quella della mia famiglia che è rimasta a lungo bloccata in casa con me, ma nelle altre stanze dell’alloggio. Per essere dichiarato guarito bisogna avere due tamponi negativi. Giovedì 16 aprile primo tampone.

Ancora positivo. Penso e cerco di avere spiegazioni. Mi hanno dimesso dall’ospedale troppo presto? Con calma cerco di organizzarmi la vita per non lasciarla diventare opprimente. Faccio ancora un po’ fatica a parlare a lungo e così i miei rapporti sono a base whatsapp. Vedo mia moglie e mia figlia a qualche metro di distanza e con le mascherine. Ci scambiamo foto su WhatsApp ma non sono molto attraente. Mia figlia ha scoperto che esiste un apposito servizio per i nostri rifiuti urbani che dobbiamo mettere in doppi sacchi sigillati. Ci dicono che siamo gli unici in città ad averlo richiesto. Il 2 maggio nuovo tampone.

Ancora positivo. Mi permetto un giorno di sconforto che viene sostituito dall’incazzatura, il SISP diventa “ufficio per la Gestione dello Stato di Positività”. Il mio medico dice che anche per lui è difficile contattarli. I chilometri diventano 7 e anche 8 al giorno… Vorrei presentarmi sul viale di accesso dell’ospedale con un cartello “Non avete mai finito di curarmi! Fatemientrare”.

Non ho l’auto, devono venirmi a prelevare i tamponi a casa. Ti infilano un coso nel naso e fa male. Molto male. Lunedì 11 maggio nuovo tampone e poi altri due. Uno negativo e uno positivo. Le mie donne nel frattempo hanno avuto il permesso di uscire. Almeno loro. Lunedì 8 giugno sono ancora in attesa. Seguo ogni sera i numeri della Protezione civile. Ecco, in uno di quei numeri ci sono io e spero di esserlo presto nella colonna dei guariti.

CHIUSE IN CASA CON PAPÀ POSITIVO

Melissa Scarpa

Prossima alla laurea infermieristica, 26 anni

Io e mia mamma siamo state per settimane in quarantena domiciliare, in seguito al ricovero di mio papà, il 21 marzo e il suo rientro a casa il 30 marzo dall’ospedale di Asti.

Questo periodo ha profondamente cambiato le nostre abitudini e ci ha dato modo di riflettere su quali siano le cose importanti. Abbiamo capito, per esempio, che impiegare il proprio tempo a serbare rancore o dare importanza alle parole dette per ignoranza e per paura da alcune persone porta via energie positive a sé stessi. Nessuno si aspettava di vivere qualcosa del genere, eppure…

Ricordo quando mio padre ha cominciato a stare male. Le chiamate al medico, al numero regionale e alla guardia medica, nessuno veniva a visitarlo. Fino alla chiamata al 112 la sera del 21 marzo, dopo una notte insonne a decidere se era opportuno mandare in Pronto soccorso papà e poi vederlo andare via, solo, con due operatori dell’ambulanza avvolti dalla tuta bianca.

Allora cominci a sentirti addosso tutti i sintomi, e bisogna rispondere alle chiamate, prima quotidiane poi a giorni alterni, del SISP, per sapere se qualcuno a casa presentasse tosse, febbre o altro. Volevo poter stare vicina a mia mamma ma ci hanno detto che anche in casa bisognava mantenere almeno 1.50 metri di distanza ed era consigliato mangiare in stanze separate. Poi il 30 marzo un dottore decide di dimettere papà. Una sorpresa, perché il giorno precedente, telefonicamente, un’altra dottoressa ci aveva detto che sarebbero stati effettuati altri esami e, successivamente agli esiti, l’avrebbero eventualmente dimesso. Alle 15 è a casa.

Nella felicità e nella paura, perché dimesso senza tampone, per cui non sapevamo se fosse ancora infetto. In casa avevamo finito i guanti e i disinfettanti adeguati. Le mascherine per fortuna ce le aveva fornite uno zio. Inizia una nuova routine. I pasti per papà posti sul vassoio e lasciati fuori dalla sua camera, la disinfezione costante degli spazi condivisi, come il bagno. Ora noi possiamo uscire, ma non vedo l’ora di poter abbracciare papà. Il suo caso e la sua vicenda sono diventati l’argomento della mia tesi finale di laurea.

RABBIA DA MEDICO A OGNI BOLLETTINO

Daniela Timon

Medico di famiglia, Asti

Sono un medico di famiglia, inteso proprio come curante, consigliere, medico di fiducia, per lo meno io così mi vivo. In questi mesi di pandemia mi sono ritrovata a essere il riferimento sanitario di tutti quanti i miei pazienti, non solo di chi stava male, ma anche di chi giustamente aveva bisogno di informazioni, consigli, rassicurazioni.

Le dodici ore al giorno spesso non bastavano. In ambulatorio abbiamo fatto venire pochissime persone, cercavamo di seguirle al telefono perché non volevamo uscissero di casa. Non abbiamo mai ricevuto tute né visiera per poter visitare a domicilio senza rischiare di essere infettati, diventando noi stessi fonte di contagio. Ogni giornata erano ore e ore al telefono. Chiami a casa il tuo paziente: qualcuno sta meglio e qualcuno sta peggio, modifichi la terapia, consigli, spieghi e ti si stringe il cuore sempre un po’ di più. Decine e decine di richieste ogni giorno, con responsabilità e angosce che aumentano.

Due cose sole sapevamo dall’inizio: che questo virus è estremamente contagioso e che una percentuale, piccola ma significativa, qualcosa tipo 1-3%, finisce in terapia intensiva. Il che vuol dire che il 97% dei contagiati è stato ed è nostro, dei medici di famiglia. I casi gravissimi sono stati ricoverati, mentre tutte le persone con sintomi lievi, medi, moderati sono state gestiti da noi, con tutte le preoccupazioni del caso. La sera, esausta, dopo aver pianto sotto la doccia per la tensione continua, mi saliva la rabbia quando leggevo i numeri dei contagiati in provincia: in quei dati non c’erano i miei pazienti, e quelli di tutti i colleghi medici di famiglia, perché i tamponi non sono stati fatti, nonostante le richieste inoltrate quotidianamente, allo sfinimento.

A mio parere l’errore fondamentale è stato nella gestione iniziale dell’epidemia: tutto lo sforzo, organizzativo ed economico, è stato dirottato sull’ospedale. Lo capisco, importantissimo, ma in contemporanea bisognava fare i tamponi tempestivamente a tutte le persone che avevano sintomi importanti, e in caso di positività, anche ai loro contatti. In questo vortice di malati, sono state fondamentali le chat mediche, come quella con una ventina di colleghi di equipe e quella dell’Associazione Donne Medico, di cui avevamo appena aperto la sezione di Asti a gennaio.

Era un continuo furioso scambio di pareri, aggiornamenti, confronti su linee guida e protocolli e, alla fine, è servito anche per confortarci tra di noi, quando più logorati, con qualche vignetta dissacratoria. In questa emergenza tre pazienti purtroppo li ho persi, gli altri ce l’hanno tutti fatta, ma temo non sia finita. Sabato 6 giugno ho fatto tre segnalazioni, per febbre alta; il tampone, se negativo, mi servirebbe per tranquillizzare le loro tre famiglie. Speriamo si possa fare…

IL SILENZIO DELLA REDAZIONE IN SMART WORKING

Fulvio Lavina

Giornalista, caposervizio edizione di Asti de La Stampa, 61 anni

 

Il silenzio. Se adesso dovessi dire che cosa ricordo, che cosa mi è rimasto del lungo lockdown (tralasciando timori e preoccupazioni), è la “mancanza di rumori”. Delle auto, della attività, il chiacchiericcio, quella colonna sonora continua che fa da sottofondo alla nostra vita quotidiana tanto che non ci fai più caso, improvvisamente sparita. E te ne accorgevi perché sotto i portici di piazza Alfieri potevi sentire in lontananza i passi svelti e cadenzati di una giovane donna che si avvicinava; o il suono della sirena di un’ambulanza, chissà dove.

Forse neanche a Ferragosto si poteva ascoltare un silenzio così “pieno”, ed era la cosa che mi stupiva ogni mattina arrivando in redazione. Dove, a proposito di silenzi, il telefono non suonava quasi più e le regole del distanziamento imponevano al massimo due presenze contemporaneamente, con i colleghi a casa in smart working, parola divenuta di uso comune (quante volte incontrando qualcuno si salutava: “ciao, come stai? Sei in ufficio o in smart working?”) un metodo di lavoro non sempre agile, come vorrebbe la definizione. Il lavoro in redazione è fatto anche di confronto, c’è la necessità di scambiarsi informazioni su come cambiare una pagina, scegliere una foto (a proposito di silenzi…) e se ogni volta devi telefonare o scrivere una mail, si perde in immediatezza. Oltre ai problemi di connessione e di sistema, tanto che alcune volte più che smart working si è fatto smart…walking: una bella passeggiata fino in redazione per andare a lavorare.

 

GENERAZIONE IN BILICO CHIUSI IN CASA A LONDRA

Martina Masoli

Food Leader IKEA Londra,28 anni

 

Anno nuovo, vita nuova. Questo è ciò che ci siamo detti con il mio fidanzato a Gennaio. Una frase tipica del periodo a cavallo tra due anni solari in cui si fanno bilanci e grandi propositi. Però per noi era vero. Infatti abbiamo preso baracca e burattini, li abbiamo messi in quattro valigie e ci siamo trasferiti a Londra.

Vivere all’estero era un nostro sogno. Ed ecco quindi che presentata, colta e ottenuta la tanto desiderata opportunità lavorativa, siamo partiti. Negli ultimi cinque anni abbiamo vissuto a Rimini, ma siamo astigiani di origine. Certo, il passaggio dall’accoglienza romagnola all’uggiosa metropoli multiculturale britannica è stato pieno di alti e bassi per i primi mesi, ma di certo intenso ed emozionante. E poi è arrivata la pandemia: prima in Italia e poi in UK.

Il Covid-19 per noi è stato all’inizio come un’ombra che lentamente oscurava la terra natìa e faceva crescere in noi la preoccupazione per i nostri cari. E qui? Qui arriva la bomba: il primo ministro Boris Johnson dichiara che con l’immunità di gregge si conterrà il contagio. “Ma dove sono f inita?” ti domandi. “In un paese di pazzi” è l’unica risposta che riesci a darti. Per fortuna bastano pochi giorni, una curva dei contagi amaramente positiva e una fredda doccia mediatica per far rinsavire BoJo. Ed eccolo: il lockdown. D’un tratto la tua azienda è chiusa, per la prima volta nella storia inglese il governo si inventa la cassa integrazione e ti ritrovi a “casa”.

Qual è il colmo per un residente in UK in lockdown? Il cielo azzurro, azzurrissimo, durante tutta la quarantena. Di certo ci sentiamo fortunati, stiamo bene e così i nostri cari. Ci costruiamo una nuova routine fatta di workout, sperimentazioni culinarie, corsi di spagnolo, disegno, letture e serie tv. Tornare in Italia è difficile, pericoloso, stupido e altrettanto egoistico. Quindi restiamo.

E il futuro? Chissà. Siamo una generazione in bilico tra opportunità e incertezze, f iguriamoci con gli effetti di una pandemia. Una cosa è certa: quando questo articolo uscirà saremo tornati a “lavorare”. Uso le virgolette perché noi lavoriamo per il colosso svedese del mobile e finchè non riapriremo del tutto ai clienti, seppur con modalità nuove e sicure, ci sembrerà comunque di lavorare a metà.

Quando questo articolo uscirà saremo più forti e cambiati e avremo imparato che “anno nuovo vita nuova” non è solo una frase da dire a Capodanno. È qualcosa di concreto, con cui d’ora in poi dovremmo fare i conti più spesso: una gioiosa consapevolezza della caducità della vita. Che alla fine è bella così, nella sua meravigliosa imprevedibilità.

 

AVERE 72 ANNI VIVERE CON I LIBRI

Irene Rosso

Pensionata dirigente Anpi, 72 anni

 

Avere 72 anni, vivere sola da undici, festeggiare sottotono l’arrivo del 2020 per una serie di disavventure prima di Natale, poi riuscire a cadere rovinosamente il 7 gennaio con conseguente frattura della rotula destra non è proprio il massimo per iniziare un nuovo anno. Costretta a 30 giorni di tutore, con fatica ma determinazione, sono riuscita a non disturbare nessuno, a gestire le uscite con l’aiuto delle stampelle e quindi a non perdere i numerosi corsi Utea e tutti gli impegni annotati nella rubrica settimanale. Che occupa, anzi occupava, un posto fisso sul tavolo della cucina, vicino al telefono, a portata di mano per aggiungere o spostare incontri, le uscite per un the, una riunione o un film in sala Pastrone.

Non ho fatto in tempo a posare le stampelle che si parlava di Coronavirus. Prima la Cina, lontanissima, e poi la Lombardia che però sembrava anch’essa distante. Poi alle due del mattino dell’8 marzo anche Asti viene inserita tra le 14 provincie dichiarate zona rossa. Dopo due giorni tutta Italia va in quarantena. Ho stampato la mia prima autocertificazione e tutte le altre successive. Mi compero il termometro da appoggiare alla fronte. Mi misuro la febbre tre volte al giorno. Poi smetto.

Inizia la frenesia della casa pulita. In fondo tradizione vuole che in primavera si facciano le pulizie di Pasqua. Nessun prete deve venire a benedire, ma è bene che si puliscano vetri, si passino in lavatrice tende lavate a Natale, e più che altro si metta ordine nei cassetti. Via le calze spaiate, via la maglietta che va un po’ stretta, si allineano le calzature nell’apposita scarpiera e quando tutto è lindo e profumato, che fare? Quanti libri in attesa di essere letti! Ne inizio uno e poi mi rendo conto che nelle tre librerie di casa, solo una parte contiene libri numerati e quindi catalogati.

Su una vecchia spessa agenda avevo riportato libri dal numero 1 al numero 826, indicandone autore e titolo. Tutti quelli acquistati o ricevuti in regalo negli ultimi 20 anni erano stati ben riposti, sapevo ritrovarli al bisogno, ma avendo fatto un trasloco nel 2009 avevo un po’ stravolto l’ordine. Devo stare a casa: va bene, ne approfitto e inizio il lavoro titanico. A Pasqua sono arrivata a 1.280 titoli. Per festeggiare ho ordinato il pranzo al ristorante.

Non è sufficiente apporre una bianca etichetta con un numero sul dorso. Procedo alla spolverata con lo straccetto inumidito, intanto do un’occhiata al risvolto di copertina. Che bel ripasso! In quei libri c’è la mia vita. All’interno ho trovato margherite, bougainvillea, rosmarino, insomma tutte le foglie o i fiori del mio piccolo giardino ligure, ma in prevalenza cartoline e fotografie, scontrini, liste della spesa e tanti biglietti ferroviari. Già, quasi sempre relativi alla tratta Asti-Diano Marina. I miei svernavano nella casa a Diano. Io il venerdì sera partivo per raggiungerli con un treno verso le 17,15 e arrivavo verso le 21. Mio padre e il cane ad attendermi. Mi godo una valanga di emozioni, rivedo persino i vecchi scompartimenti ferroviari. All’epoca tra passeggeri si parlava ancora. “Cosa legge di bello signora?” Fontamara di Silone. “E Vino e pane l’ha letto?” No, è il primo che leggo di Silone. “Le consiglio anche L’avventura di un povero cristiano”. E allora mi appuntavo sul biglietto ferroviario i consigli di quel viaggiatore.

Rileggendo ora l’annotazione, ricordo quella conversazione. Eravamo nell’altro secolo. Oggi in treno tutti connessi, tutti con la presa di corrente inserita e gli altri a dormicchiare. Io sto a casa con i miei libri che mi riempiono l’anima di serena malinconia.

 

RIPENSARE UNA VITA DI SPORT E MUSICA

Aldo “Cerot” Marello

Campione di tamburello e musicista, 70 anni

 

Sono nato e risiedo a Revigliasco, a pochi chilometri da Asti, e di fronte a una simile calamità ho cercato di vivere adeguandomi alle necessità: non sono mancate le telefonate agli amici per uno scambio di notizie e per gli aggiornamenti sulla realtà e il decorso del virus.

Quello slogan “Restate a casa” è stato un chiaro invito. Ho pensato che, dopo una vita alquanto frenetica, questo “intervallo” (con tutti i problemi del caso) mi consentiva di rivedere con calma eventi di un lungo percorso sportivo e umano. Ho così “rifatto” il mio archivio che ospita, oltre alla storia del tamburello e degli sport “sferistici” in genere, anche il cammino della Cerot Band documentato da centinaia di articoli e fotografie. Poi la mia biblioteca: intere collezioni di libri di vario genere, scritti e articoli sulla Resistenza, i “miei” scrittori, Pavese, Fenoglio, Piccinelli, Arpino, la letteratura nordamericana…. E la musica, soprattutto jazz e blues.

Ho cercato di “datare” la posta, inviata e ricevuta in oltre 50 anni e classificare lettere personali che avevo dimenticato in molti cassetti: un lavoro non facile, ma che mi ha restituito gioia, sorprese, ricordi.

Sono uscito poco. Dopo la colazione con i miei due cani Piri e Nero (amiamo i Biscotti Tre Rossi di Ovada) vado con la mascherina fino al negozio “Da Guido”, sulla piazza del paese. Qui comincia la lunga filiera dei ricordi che mi portano indietro, al tempo in cui le ciliegie erano il vanto di Revigliasco: la piazza piena di gente, i bambini festanti, le feste di Sant’Anna, le partite alle bocce, il tamburello, i tifosi, le critiche, le rivalità. Ascolto il silenzio delle “panchine dei vecchi” svuotate in pochi anni per mancanza di ricambi, purtroppo non più reperibili…

Mi è dispiaciuto per la cancellazione di tante nostre manifestazioni: il Festival delle Sagre, Asti Musica, il Palio. È saltata pure la Via Crucis di Antignano. Fermi anche i campionati di tamburello e della palla pugno, discipline che amo e ho amato visceralmente. Mi sono mancati i rintocchi delle campane per l’invito alla messa e sono state tristi le tante dipartite di paesani, portati all’ultima dimora senza una preghiera, senza un saluto della collettività.

In queste settimane ho ricevuto, e ricevo quasi ogni giorno, notizie di decessi di molti tifosi in tanti paesi del Norditalia, dove sempre ho ricevuto rispetto e simpatia per le mie tante battaglie umane e sportive. Vorrei, comunque, tranquillizzare i fans della Cerot Band per il mancato concerto dell’8 maggio che avevamo annunciato anche su Astigiani: lo rifaremo di sicuro, con la stessa grinta, non appena ci sarà una schiarita dopo il buio di questi tempi.

 

LETTO I PROMESSI SPOSI E PIANTO PER SEPULVEDA

Mimma Bogetti

Ex direttrice della Biblioteca Astense, 73 anni

 

Sono stata dipendente dalla televisione, dalla radio, dai giornali per sapere ogni giorno come andava. Quando è arrivato quel video della lenta fila di camion dell’esercito che portavano le bare nel silenzio di Bergamo, ho avuto paura. Mi ha fatto pena sapere che le persone malate in rianimazione negli ospedali non hanno mai avuto vicino un parente e tanti sono morti soli.

Loro sono volati via, ma terribile, orrendo il dolore dei parenti. Quella era soprattutto la mia paura, la solitudine. Ho ripreso in mano I promessi sposi, ho letto le pagine sulla peste. Un quadro impressionante e al tempo stesso bellissimo nella scrittura del Manzoni.

Dopo l’obbligo di quarantena di oltre due mesi, non abbiamo potuto fare a meno di pensare alla vita “precedente”. Durante questa clausura in casa ho pensato molto. Il periodo è stato lungo, non ricordavo che giorno fosse, ammiravo dottori, infermieri, i tantissimi volontari che hanno lavorato incessantemente. Ho anche rallentato il mio tempo quotidiano, scoperto la capacità di apprezzare le piccole cose che forse non abbiamo mai avuto il tempo di capire. Forse la vita stressante che prima vivevamo non ci aveva concesso di scoprire quanto è grande la bellezza, l’aspettare i propri figli e nipoti che abitano lontano, l’attesa di tornare nella città, gli incontri con gli amici. L’attesa addolcisce la scoperta delle cose belle.

L’altra faccia della quarantena: il disastro economico e la conseguente disoccupazione, la nuova povertà, la difficilissima ripresa. Ho anche pensato a tutte le tragedie nei secoli, e ancora ai nostri giorni. Le guerre, le torture, i migranti che attraversano il marecimitero pur di arrivare da qualche parte e vivere meglio (non tutti), i bambini di tanti luoghi del pianeta che muoiono di fame o di sete o di freddo, e i loro genitori, l’assolutismo e la tirannia, i buoni e i cattivi, per dirla semplice. Ho pianto per la morte di Luis Sepulveda, ci eravamo conosciuti. Era legato molto ad Asti e soprattutto aveva la capacità di parlare a chiunque. Affascinava. 70 anni. Pochi.

 

IL CAFFE’ DELLA FARMACISTA IN CLAUSURA A SETTIME

Guido Rosina

Avvocato, 71 anni

 

Eh no, cara Mici (la mia gattina trovatella), il coronavirus non ci frega, noi due ci trasferiamo a Settime: dichiaro di eleggere in paese la mia residenza temporanea fino al 30 settembre; le rare puntate ad Asti saranno giustificate da motivi di lavoro. Ho l’ufficio in città e l’accesso non mi è precluso anche se il Tribunale lavora solo per le urgenze. Vedrai che la clausura vissuta a Settime sarà una bazzecola. Ed eccoci al paese; per la Mici è libertà assoluta, per me vacanza più che segregazione: qualche lavoretto nell’orto, la spesa nel commestibile di campagna, due chiacchiere con mascherina.

Ma un pomeriggio, al rientro da Asti, si alza la paletta dei carabinieri alle porte di Settime: le mie giustificazioni paiono non convincere. Si discute e a un certo punto il graduato, forse per invitarmi a maggior prudenza a prescindere, sbotta: «Si, ma se io le dicessi che, spesso, vedo la sua autovettura parcheggiata nei pressi della farmacia di Settime fuori dall’orario di apertura, che mi direbbe?». Penso: “Colpito e affondato! Il caffè serale dalla farmacista, il mio tallone d’Achille!”. È piacere irrinunciabile quel caffè sorseggiato a casa della farmacista, un velo di cacao spruzzato sulla soffice e saporita schiuma, le chiacchiere che vanno e vengono, così, senza impegno.

Piacere irrinunciabile, ma vietato dal ferreo “io resto a casa”. Allargo le braccia e dico al militare: «In quel caso potrei solo dirle che un caffè dalla farmacista val bene una multa». Un sorriso del carabiniere e mi ritrovo sulla strada di casa a ringraziare Enrico IV, re di Francia, quello che disse: «Parigi val bene una messa».

 

IL SAPORE DELLA VITA IN ATTESA DI ANTONIO

Debora Scrima

Titolare del ristorante pizzeria “Al Peperone Rosso”, Motta di Costigliole, 33 anni

 

Potrei giustamente lamentarmi, come tutti i ristoratori, del danno economico causato dal blocco delle nostre attività, ma preferisco dire che, nonostante le ansie, in questi mesi di quarantena abbiamo riassaporato i veri valori della Vita: lo stare in famiglia, i piccoli gesti che si erano persi con la vita frenetica che si è fermata il 9 di marzo 2020.

Io, in tutto questo gran caos, aggiungo una nota speciale: sono in dolce attesa di un bel maschietto, che sarà tra noi a fine agosto e che chiameremo Antonio. Penso che questo 2020 rimarrà nel mio cuore per sempre perché sarà l’anno della rinascita in una nuova Vita.

 

LA GUERRA DELLE DUE ROSE” AL BRICCALONE

Alba Nicoletti Nattino

Pensionata, animatrice culturale, 64 anni

 

Il Covid-19 non è stato, nel periodo del nostro obbligato isolamento, l’unico grande “sconosciuto”. Io mi sono ritrovata diversa nel gestire la vita quotidiana con mia sorella Nicoletta. Dopo la morte della mamma, nel novembre scorso, il rischio del virus ci ha sorprese ancora insieme in questa grande casa. Nicoletta, che abita a Latina, è rimasta con me. Il desiderio reciproco di compagnia e condivisione si univa all’obbligo del non uscire.

Così le nostre origini tosco-emiliane sono rinate come le rose in giardino in questa strana primavera! La “rosa rossa” e la “rosa bianca” della storia inglese si personalizzano e diventano, come in un film, i ”Lancaster” e gli ”York” della campagna astigiana. Ritornando alle nostre origini, i parenti toscani hanno in Nicoletta la loro perfetta rappresentazione. Mia sorella è una donna “etrusca”: per lei vige il matriarcato, il diritto, il senso della polis. Il suo sorriso mi ricorda quello sardonico ed enigmatico delle statue del Sarcofago degli Sposi a Tarquinia. Sorriso che spesso mi ha depistata, ma che adesso ho imparato a fronteggiare!

Il nostro bisnonno materno ha fatto parte della Carboneria. Nicoletta ha sempre detto di sentirsi “garibaldina”: mente acuta e lingua sciolta… Cecco Angiolieri in gonnella! A parte gli scherzi, la ragazza ha personalità e spesso mi spiazza in velocità e voglia di fare. Eh… la mamma Lella mi diceva: «Vogliatevi bene»… come fosse facile alle volte! Dall’altro canto io rappresento di più l’eredità emiliana: paciosa, tranquilla, attiva e cooperativista no profit! Mi piace pensare di avere un’anima un po’ bizantina e dorata come i tasselli dei mosaici di Ravenna… ma mi ritrovo poi come la gazza che è attratta da tutto ciò che luccica!

Quindi le squadre sono in campo. Ghibellini contro Guelfi. Carducci contro Fanciullino e Miricae di pascoliana memoria. Scusate la foga ma nel raccontare mi diverto molto… torniamo seri. Il nonno paterno Enrico, grande studioso del Pascoli, era un terziario francescano, religioso in opposizione ai parenti materni laici e repubblicani. Ritornando alla nostra convivenza ci sono stati lunghi desideri di silenzio in contrapposizione a vivacissimi e stimolanti dibattiti.

Quando ero ancora al mattino in pieno relax, mentre lei era in perfetta organizzazione della giornata, i suoi “decisionalismi” non li vivevo come comunicazione, desiderio di aiutarmi e… chiaccherare un po’. La differenza, pur nella sua bellezza, ci porta a tenerezze e f ilosofie di vita diverse ma unite a credere all’importanza di questa vita, soprattutto di questi tempi, senza sprecarla, che si creda o no a “quella dopo”. Questo ci rende forti insieme come fiumi che sfociano nello stesso mare. Intuiamo però che non è la sicurezza dell’altra, ma la continua ricerca l’unica certezza.

Abbiamo ritrovato come da tempo non succedeva la conoscenza individuale di un passato familiare. Il presente e il futuro, così confusi da questo coronavirus, avranno più consapevolezza, attenzione e amore per il mondo e per noi stesse. Non è così scontato, sapete?

 

L’ANSIA DEGLI UOMINI E I COLORI DELLA NATURA

Giulio Morra

Fotografo, 63 anni

 

In questa quarantena ho, per fortuna, continuato a lavorare qualche ora ogni mattina. In giro per Asti vuota, a far foto per La Stampa e Astigiani: mascherine, gente in ospedale, disegni e scritte “andrà tutto bene”, negozi chiusi, solitudini, spazi e piazze vuote.

Nei pomeriggi, abito in campagna a Montemarzo, ho fotografato erba e fiori, vento e nuvole di questa primavera mai così effervescente, colorata e sconosciuta ai più. Ogni mattina ho postato una di queste foto su Facebook. Così ho messo via colori e profumi per gli anni a venire, quando sarà tutto finito e, spero, ricorderemo con dolcezza e magari un pizzico di nostalgia anche questa stagione.

 

COME IN UN ROMANZO DI FANTASCIENZA

Giovanni Ruffa,

Ex insegnante, giornalista, 70 anni

 

Nei giorni della “quarantena” ho perso un grande amico, Renato. Ci conoscevamo e ci frequentavamo da anni e avevamo in comune diverse passioni, una in particolare, quella per la fantascienza. Tanti sono i libri che ci siamo scambiati e di cui abbiamo discusso, con Renato che disquisiva a lungo, estendendo il discorso alla storia e alle scienze, come amava fare. Lo avrebbe fatto senza dubbio anche in questa occasione.

Perché in tanti abbiamo avuto la sensazione di essere stati proiettati in una dimensione fantascientifica, come se davvero questa volta si fosse finiti in un racconto di Ballard, uno dei nostri preferiti. Ma ancora di più penso a H.P. Lovecraft, in cui la fantascienza diventa horror, ai suoi universi terribili, alle sue galassie ignote popolate da esseri capaci di portare la distruzione sulla terra.

Ancor prima di conoscere il destino di Renato, i mesi della pandemia li ho vissuti male, non tanto per la “quarantena” ma per uno strisciante sentire pessimistico, che mi ha condotto a rileggere La peste di Camus e a pensare spesso che l’aggressione del virus sia stato un primo avviso del destino che attende l’umanità e il pianeta.

CIO’ CHE NON HO FATTO E LA GRAN VOGLIA DI ASSEMBRAMENTO

Vittoria Dezzani,

Lavora alla Caffetteria Mazzetti, scrittrice, 29 anni

 

In questa quarantena non ho fatto grandi cose. Non ho fatto il cambio armadio, non ho fatto il pane in casa, non ho nemmeno fatto una torta. Non ho fatto la maratona di Harry Potter e neppure quella di Star Wars ho fatto, non mi sono rimessa in pari con i libri da leggere, non ho ordinato la libreria in ordine cromatico, non ho smesso di mangiarmi le unghie e non ho fatto buoni propositi. Soprattutto, non ho fatto buoni propositi. Non ho fatto un video mentre facevo ginnastica e non ho fatto ginnastica. Non ho fatto l’orto sul balcone, e non ce l’ho nemmeno un balcone. Non ho imparato a cucinare l’uovo in camicia, a dare il bianco, a suonare la chitarra, a tagliarmi la frangia da sola. Non ho imparato il portoghese.

Ho fatto cose piccole. Ho fatto le pulizie, quelle che faccio sempre, non le grandi pulizie di primavera. Ho fatto le insalate di verdura cruda a pranzo e le spremute d’arancia al pomeriggio, che ci ho creduto io, alla storia della vitamina C. Ho guardato le stagioni passare dalla finestra: l’otto di marzo c’erano rami spogli e adesso un muro verde. Mi sono ripresa il tempo: di mettere il balsamo nei capelli, di stare allungata sul divano, di leggere i giornali, di rimandare le cose a domani senza sentirmi in colpa. Ho creato insieme ai miei genitori un nuovo lessico famigliare, fatto di parole come videochiamata, zoom, houseparty, distanza di sicurezza, gel igienizzante, assembramenti non consentiti. Ho avuto voglia di un “assembramento”.

Ho parlato dalle finestre, e guardato da sopra una mascherina. Ho portato in cortile una sedia della cucina – quella azzurra della nonna Pina – e sono stata con i miei vicini, lontani. Ho fatto la coda all’Esselunga e ho misurato i duecento metri da casa mia: arrivo fino in Piazza del Cavallo. Mi sono dimenticata di bagnare il basilico come sempre, e come sempre ho pianto riso, parlato e dormito. Litigato tanto e amato un po’. Qualche volta no. E in ultimo ho poi imparato due cose grandi: la prima è che la massima “nessuno si salva da solo” è in realtà una gran cazzata, ma che nonostante questo, alla fine, two is meglio che one, in ogni caso.

 

IN GITA SCOLASTICA NELL’ISOLA DELLE MERAVIGLIE

Vittoria Gallo,

Scolara, 10 anni ad agosto

 

Mi svegliai da un lungo sogno e mi accorsi di essere sull’Isola delle Meraviglie ricca di piante e fiori. In lontananza vidi tutti i miei compagni ancora addormentati e notai, per la prima volta, le rocce appuntite e gli alberi di colore verde scuro e giallo ambra. Dietro alle rocce scorreva un grande fiume di color “bluette” nel quale ci si poteva specchiare e vedere l’immagine riflessa trasformata nella sagoma di un bellissimo cavallo. Intorno a noi c’era la tribù indiana che ci aveva accolto.

Eravamo partiti sette giorni prima perché in tutto il mondo era scoppiata una pandemia o, come dice una scrittrice che conosce mamma, una “pandemonia”. Un virus letale che uccideva la maggior parte delle persone che colpiva. Il nostro obiettivo era raggiungere l’Isola delle Meraviglie perché era bella e non ci vivevano tante persone. L’unica tribù presente non creava assembramento. Il nostro viaggio è iniziato dal porto di Genova con una nave. Abbiamo attraversato il Mar Mediterraneo e l’Oceano Atlantico f ino ad arrivare alla nostra isola.

La mappa la custodiva gelosamente maestra Silvia, il nostro capitano! Era molto severa e determinata a raggiungere l’obbiettivo; non la faceva vedere e toccare a nessuno di noi perché era un documento segreto e prezioso che apparteneva al suo trisnonno, famoso marinaio dei sette mari. Abbiamo superato tanti ostacoli. I più difficili e pericolosi sono stati: un gruppo di seppie malvagie che sparavano all’impazzata un inchiostro nero negli occhi di ciascuno di noi e uccidere il serpente a tre teste che viveva negli abissi dell’oceano e cercava di stritolare la nostra imbarcazione.

È stata un’impresa difficilissima ma alla fine abbiamo vinto noi. All’inizio il capo della tribù dei Girasoli non voleva che stessimo con la sua gente, poi, guardandoci negli occhi, capì che eravamo buoni e più impauriti di lui. Cambiò idea e ci accolse tra la sua gente. Non lo abbiamo deluso e per aiutarli ci siamo organizzati in quattro gruppi. Il primo si occupa della legna per il fuoco, il secondo pulisce e mette in ordine, il terzo cucina e il quarto procura l’acqua. Di notte dormiamo accoccolati l’uno di fianco all’altro fra le radici degli alberi. L’unica cosa che ci manca sono le nostre famiglie, ma ritorneremo solo quando il mondo sarà libero dalla pandemia.

 

GLI INCUBI NOTTURNI DEL COVID

Enzo Armando

Giornalista, 54 anni

Sono a piedi e con il mio amico Lele Pozzi sto andando ad Alba, seguendo il corso del Tanaro. Mi tocca anche guadarlo, ma per fortuna è in secca. Entrato in città, mi ritrovo senza scarpe e decido di andare a comprarne un paio. Mentre faccio ingresso nel bugigattolo affollato, mi accorgo di non avere la mascherina e mi assale il panico perché gli altri clienti, che ne sono privi pure loro, mentre parlano «sputacchiano».

Mi risveglio: per fortuna è stato solo un incubo ma è il segnale che la pandemia è entrata nella mia psiche. Non ho preso il virus ma i suoi segni li porto dentro di me, nel mio inconscio. Da quando siamo entrati nella fase 3 rifuggo dai luoghi affollati perché mi coglie una sorta di ansia. E pensare che ho potuto vivere il «lockdown» in maniera sostanzialmente normale, godendomi una città deserta dove, con lo sbocciare della Primavera, ho sentito profumi di cui, causa smog, avevo perso memoria.

Guardavo gli altri che accompagnavano i loro cani, gente che non avevo mai visto prima nei giardini di piazza Lugano: io, Pino Macchia, il mio bulldog inglese, non ho dovuto strapazzarlo più di tanto perché la classica passeggiattina è un›azione quotidiana da 6 anni a questa parte. Ho continuato ad andare in redazione, alla Gazzetta d›Asti, in tutta sicurezza: eravamo in una sorta di fortino, con don Dino Barberis, Antonella Laurenti e Rosy Romano a confezionare il giornale, confortati da ottimi risultati di vendita. Ci sentivamo protetti e ci pareva di essere come in trincea, a fornire un servizio essenziale che era quello di informare i nostri lettori.

Ed era bello vedere la coda la domenica all’edicola accanto alla vecchia Maternità: cosa divenuta nell’era dei social piuttosto inusuale, purtroppo. Mi sono goduto mia figlia Carola, 9 anni, che mi ha impegnato in dure partite di basket Nba alla playstation. I pranzi domenicali erano curati come non mai: mi sembrava di essere tornato bambino, con mamma, papà, sorella, tutti riuniti a tavola, a officiare il rito.

Al mattino della domenica seguivamo la messa in «streaming» del vescovo per ricevere un po’ di sollievo spirituale. Quando però il sogno si è disvelato nella realtà quotidiana della ripresa, mi sono accorto che un altro «covid» si era impossessato di me. Ed era quello di chi ha vissuto dentro una bolla che, una volta scoppiata, mi ha mostrato tutta la distruzione intorno. Adesso sto ancora camminando in mezzo alle macerie al termine di una guerra che ho combattuto anch›io, sulla quale non è stata scritta la parola fine. E chissà quando avverrà.

 

CON MIA FIGLIA CLOE LE STORIE DELL’ALVEARE

Valentina Mansone,

Giornalista radiofonica, Agliano Terme, 42 anni

 

Fra i vigneti di barbera, ai tempi del coronavirus, un alveare è diventato il nostro fantasioso rifugio. La prima inquilina è stata Ape Pina, presto raggiunta da una simpatica comitiva di amici: Adriano l’elefante, che ama sdraiarsi sul pavimento scaldato dal sole, Drillo il coccodrillo che sogna di nuotare nel Rio delle Amazzoni, Tino il leoncino, fuggito dalla savana insieme a papà Tano e mamma Tana, appena prima che chiudessero le frontiere, il professor Talpi, grande esperto di matematica, astronomia e botanica, che nelle sue tasche ha le risposte a tutte le domande.

Un giorno è persino arrivato, con un rocambolesco atterraggio dallo spazio nel vaso dei pansé, Ricky il razzo, con il computer di bordo impazzito. Dalla finestra è comparso Phanty, il fantasma da guardia che dorme di giorno sotto il letto e veglia di notte, cacciando la paura. La pecora Camomilla ci ha insegnato un metodo brevettato per dormire: basta contare uno a uno i fili di lana del suo vello e c’è chi giura che non si riesce mai ad andare oltre i dieci, le palpebre si fanno pesanti e il sonno si accuccia sulla fronte come una carezza di seta.

Quando ci hanno detto che potevamo riaprire le porte dell’alveare, emozionati siamo usciti a rivedere il mondo, che nel frattempo, senza aspettarci è sbocciato. Ape Pina sembrava ubriaca in mezzo a papaveri e pratoline. Nei giorni di isolamento, sulle sue ali abbiamo fatto viaggi incredibili: con l’aiuto di Lalla la girandola che sfrutta le correnti ascensionali, siamo andati al lago dei Fiori Giganti dove le barche sono morbide corolle di velluto su cui lasciarsi cullare, a Ovolandia, dove a Pasqua si raccolgono uova di cioccolato dagli alberi, nel Cantiere delle Meraviglie dove abbiamo costruito un enorme parco giochi. Nell’alveare le nuvole si sono trasformate in draghi e il mare bussando alle finestre è arrivato sul balcone. Ape Pina ci ha insegnato che non ci sono limiti all’immaginazione, soprattutto quando il palazzo di fronte copre l’orizzonte e i tramonti.

Tutti i nostri racconti, uno al giorno, sono sulla pagina Facebook Storie dall’alveare (@storiedallalveare), e su Instagram (@ valentinamansone), insieme alla sigla, colonna sonora di questi strani giorni.

La bella notizia è che Ape Pina e tutti gli altri hanno deciso di restare con noi, anche dopo il lockdown. I nostri viaggi proseguono. Continueremo a raccontarli. Perché, come dice Cloe, la piccola di casa, a tutti i bambini sembrerà di essere più vicini.

 

IN CAMPAGNA A MONTEMAGNO TRA I “PIANTINI” DA ORTO

Francesco Migliore,

Laureando in Storia, 29 anni

 

Avevo letto della quarantena sui libri di storia. Non avrei mai immaginato di viverla a causa di un virus in apparenza lontano, gradualmente arrivato fino in Occidente. Il mio periodo di isolamento l’ho trascorso nelle colline del Ruchè, dove sono nato e cresciuto, nel comune di Montemagno; inizialmente ho approfittato del tempo a disposizione per riordinare la libreria radunando tutti i testi utili per la stesura della tesi di laurea. Ho avuto tempo anche per i lavori in campagna: la cura degli alberi da frutto, la preparazione dell’orto e la pulizia di un fazzoletto di terra dal gerbido, rimandata da tempo e finalmente realizzata sotto la decisa guida di mio padre.

Durante i lavori in campagna si percepisce un ritmo diverso, più lento, scandito dal campanile di Santo Stefano: l’impressione è quella di aver guadagnato del tempo. Mi insegnano a far nascere i “piantini” da mettere a dimora nell’orto dalle sementi, un lavoro bellissimo che in pochi hanno la fortuna e la perizia per fare. La natura ai miei occhi è la vincitrice di questa emergenza dove i contatti sono radi e i vicini sembrano essere scomparsi, soltanto le colline sono vive in assenza delle persone, gli spazi sembrano più grandi e io mi rendo conto della grande fortuna che ho nel vivere in campagna al contrario di chi dovrà trascorrere il tempo in un alloggio chiuso e senza verde.

Gli unici spostamenti a piedi sono per fare la spesa, da casa al paese sono quasi tre chilometri in mezzo a una valle di boschi, noccioleti e campi coltivati. Gli animali, con la complicità del silenzio, riprendono gradualmente a spostarsi di giorno negli spazi aperti dando l’opportunità a chi passa di vederli a pochi metri senza che si spaventino e corrano nella boscaglia.

Mi rendo conto che una quarantena descritta brevemente in questo modo possa sembrare una spensierata vacanza se confrontata con gli aggiornamenti giornalieri sullo stato di salute del nostro Paese, però è ciò che ho visto: una bellezza non scontata a cui dovremmo educare ed educarci per cercare di lenire il dolore dei lutti e la tristezza della distanza, o almeno provarci…

 

QUEI BUONI PROPOSITI LASCIATI A METÀ

Aldo Gamba,

Insegnante, giornalista, ricercatore, 74 anni

 

Il lockdown, ovvero le occasioni perdute. Accompagnata dall’ansia perdurante per il contagio, la notizia della chiusura in casa per un lungo periodo è giunta prevista e all’inizio per certi versi anche non del tutto sgradita (ma avremmo ben presto cambiato idea). Bisogna cogliere l’occasione, ci dicevano un po’ tutti, a partire dalla televisione, ci sarà il tempo per fare le cose che avremmo sempre voluto fare e che invece non riuscivamo a fare mai: leggere certi libri che avevamo messo da parte, ascoltare dischi, vedere quei film che avevamo registrato da tempo e che mai avremmo potuto vedere, fare certi lavoretti di casa che aspettavano da chissà quando.

E così anch’io mi sono messo di buona volontà, pur sempre con l’occhio al televisore, ai numeri dei contagiati, alle parole contrastanti degli esperti. Lasciamo stare per carità di patria i lavori di casa. La buona volontà è scemata presto, la concentrazione non c’è mai stata. In due mesi non ho sentito un disco (un po’ di musica l’ho comunque ascoltata in televisione, grazie alla quantità di opere liriche trasmesse ogni giorno da Rai 5).

Il tempo di vedere un film intero non l’ho trovato. Ho iniziato tanti libri, e devo averne smesso la metà o forse più. Anche perché mi sono messo in testa che era l’occasione per leggere certi grandi classici – se non ora quando? – che difficilmente in altri momenti sarei stato in grado di portare a termine: quelli di mille pagine fitte fitte, che ho rimesso in biblioteca dopo averne lette sì e no una ventina. Allora meglio rileggere, magari quei libri divorati nell’adolescenza e poi mai ripresi.

E qui è andata un po’ meglio Ma certo che stare in casa a leggere quando il mondo va sottosopra è tutt’altro che semplice, mentre si è subissati di notizie tragiche. E dopo aver ciondolato da una sedia all’altra, proprio perché non si può, viene una gran voglia di uscire, anche se non si sa dove andare, tanto che anche un’incursione con guanti e mascherina in un supermercato, di solito il concentrato della noia, diventa un momento di svago. Il risultato è che alla fine del lungo periodo di segregazione il mio bilancio per così dire culturale non è certo soddisfacente. I libri sono rimasti da leggere, i film da vedere, i dischi da ascoltare. Tra i progetti dell’inizio e i risultati finali c’è un bel divario, e non a mio favore.

 

UN PARCO GIOCHI CON PONTE TIBETANO

Toni Frizzarin,

Pensionato, Tigliole, 70 anni

 

Distanziamento sociale, e inviti perentori: “Io resto a casa”. Con me sfondano una porta aperta, da quando sono in pensione: io a casa ci sono sempre. Me la sono costruita sul bricco di Valperosa di Tigliole. È il mio posto del cuore e della vita. Con me il gruppo familiare: moglie, figlio, nuora e due nipotini, Anita e Dario. A parte mio figlio che lavora in un’azienda dell’agroalimentare, tutti siamo rimasti a casa. E

allora? Sono un tipo che non riesce a stare con le mani in mano. Ho preparato il terreno per l’orto, riparato le zanzariere, riordinato intorno casa, e perfino assecondata la moglie nei suoi continui “fai qui, fai là”. Ma ho capito che la questione si faceva seria e lunga. Il tempo di questa primavera è sempre stato buono e decido per un bel tavolo grande, solido, in mezzo al giardino, piantato nel terreno. Servirà per quando potremo nuovamente incontrarci in allegre tavolate con gli amici.

Ma al terzo tronco le due donne invece di decantare il mio operato, scuotono il capo accigliate. No, no il giardino non si tocca, ma cosa ti è passato per la testa! Potrei offendermi, ma mi consolo guardando i piccini che si rincorrono ignari. Idea! Ma nell’angolo sopra al giardino posso fare cosa voglio? Certo, mi rispondono con sufficienza le due donne. Come dice mia moglie, da piccolo non ho avuto i Lego, così sono diventato muratore, ho costruito la mia casa pezzo per pezzo, capacità ne ho, un po’ di attrezzatura per lavorare il legno anche.

Eccomi lanciato come progettista, costruttore, esecutore di un percorso sospeso con ponte tibetano, scala di corda, torretta, casetta ecc. Il risultato a giudicare dalla gioia dei miei nipoti è molto apprezzato. E in cima ci ho messo perfino il tricolore che garrisce al vento per ricordare questa stagione unica e tragica: i lutti, la sofferenza immensa, gli eroi del lavoro, le ansie per la ripartenza. Il castello resterà a ricordo del tempo passato insieme, che ha cancellato i ritmi frenetici di chi mi sta intorno, e sarò soddisfatto quando i miei nipotini, invitando gli amici nel loro “parco giochi” magari diranno “tutto questo lo ha fatto il nostro nonno”.

 

PEDALANDO IN GIARDINO HO SCRITTO UNA POESIA

Pinuccio Marra,

Impiegato tecnico e scrittore, 59 anni

 

In quel lunedì 9 marzo mi dissero che, essendo di Asti, non potevo più andare al lavoro a Torino, stentavo a crederci, noi in zona rossa, noi astigiani! E poi dopo pochi giorni tutta Italia divenne zona rossa. Così ci ritrovammo tutti paralizzati nelle nostre case, asserragliati come in un coprifuoco.

Per non farmi prendere dall’ansia, mi dedicai in primis a imbiancare le stanze e alle grandi pulizie di primavera con mia moglie. E poi passai al piccolo giardino potando la siepe, tagliando la prima erba del minuscolo prato e posizionando sdraio e tavolo, creando il nostro angolo dove ogni mattina con mia moglie ci siamo serviti il caffè. In famiglia ci siamo fatti compagnia in modo molto rilassato, senza avere l’ansia del tempo che passa, senza il dover subito correre via per qualche impegno, devo essere sincero è stata anche una bella sensazione.

E visto che sono un amante della bici e desideravo pedalare un po’, non mi sono arreso,ho montato la mia vecchia Bianchi su un’asta che la reggeva tra una scala e la recinzione del giardino. Ho fatto parecchi chilometri così, in compagnia della musica. E alla sera ho riletto la bozza del mio romanzo che dovrebbe uscire, spero a breve, e mi sono anche rimesso a dipingere. E poi ho sperimentato la videochiamata comunicando con amici e parenti, provando una strana sensazione, come facessimo tutti parte di un futuro che non è ancora arrivato ma che certamente dopo questa esperienza, non tarderà ad arrivare. A testimonianza di quei giorni ho scritto anche una poesia. Eccola.

In questi giorni /che non passano mai,

come se il tempo si fosse fermato,

si sta come in un limbo, prigionieri della paura,

come ai margini di un precipizio.

Ed è come camminare in un campo minato,

increduli d’essere in guerra contro un nemico invisibile,

in un mondo ormai statico.

Ti senti piccolo, impotente, /scopri la fragilità dell’essere umano

e torni all’essenziale, guardandoti dentro,

aggrappandoti ai ricordi /dei giorni lieti e spensierati.

E allora la tua casa /diventa la scuola dei tuoi figli,

l’ufficio, il cinema, la chiesa,

diventa la tua palestra, la sala concerti,

diventa il luogo dove realizzare i tuoi sogni.

E come fossi un monaco di clausura,

ti chiedi quale sia il senso della vita, /e vivi alla giornata,

con speranza e fede

e sogni di correre libero, di fare un tuffo

in un mare pulito, che ti rinnovi.

Sogni d’assaporare /un cono gelato o un buon caffè,

in quel bar all’angolo che era il tuo mondo!

 

SPERANZA E DOLORE SOTTO IL GLICINE

Paola Gho,

Ex insegnante, 70 anni

 

Sono fortunata, molto fortunata. Ad avere un giardino, un buen retiro protetto nel quartiere del Varrone, nel centro storico di Asti. In basso la piazzetta San Brunone, a pochi metri, salendo la stradina acciottolata, una fila di case che prospetta sulla stretta via Gabiani.

Dall’esterno, a vedere le facciate grigie e compatte senza neppure un balcone, nessuno lo sospetterebbe. Che al di là, con vista su Santa Caterina, Torre Rossa e Madonna del Portone, si aprano orti e giardini, si innalzino alberi d’alto fusto e si estendano prati e praticelli, verdissimi dopo le ultime piogge.

È un rettangolo sopraelevato che guarda l’ultimo tratto di corso Alfieri, prima di Porta Torino, dove un tempo si trovava la porta daziaria. “Terrapieno Calabiana”: così lo censisce il Catasto napoleonico, adibito a vergers et potagers (frutteti e orti o giardini). Ci sono ancora, risparmiati da avventure edilizie. Un privilegio.

E così, ho passato questo lungo lockdown dividendomi tra la morte e la vita. Senza poter fare a meno di angosciarmi per i numeri raccapriccianti che ogni giorno vedevo scorrere sullo schermo televisivo, per poi riacquistare speranza nel seguire i passi della vita, in questo caso della natura.

Prima osservando, giorno dopo giorno, lo schiudersi delle bulbose: narcisi soprattutto, qualche giacinto odoroso e qualche tulipano. Sono sbocciati indipendentemente da me quei bulbi, protetti da una spanna di terreno. Poi il lento cammino del glicine: rami spogli e nodosi, grappoli grigioverdi, infine esplosione di viola a formare un denso pergolato. E ronzare di vespe, bombi, api: un gran lavoro di impollinazione. Meno male.

La natura fa ancora il suo corso, lo faremo anche noi umani? Avrei voluto condividere con altri questa gioiosa contemplazione. Ho pensato agli anziani sofferenti nei loro letti – in terapia intensiva, supposto che ce li abbiano messi, o in certe Case di riposo, indifesi – e a quanto sarebbero stati bene nel mio giardino. Sarà perché non ho figli, ma a me la sorte dei vecchi commuove e sconvolge più che quella dei bambini privati dei giochi all’aperto. Come il loro pianto.

 

HO DATO CONSIGLI SUL TAGLIO DEI CAPELLI

Manuel Costa

Barbiere e parrucchiere, 23 anni

Dopo oltre due mesi di fermo con il lavoro, finalmente dal 18 maggio posso riacconciare le folte chiome di tutti quei clienti che, durante questa lunga quarantena, hanno resistito, sopportato e visto crescere inesorabilmente i loro capelli.

In questo periodo ho visto sui social centinaia e centinaia di nuovi look e stili di capelli: da chi si è rasato completamente a zero a chi li ha aggiustati in casa con forbici e pettine, con la speranza di poter rivedere il proprio barbiere. Anche molte mogli o mamme si sono improvvisate parrucchiere.

Ho ricevuto molte chiamate da parte di clienti per dare loro qualche consiglio. Il mio lavoro si traduce nel contatto con il cliente. Dalla stretta di mano, tra chiacchiere e risate, al sentirsi coccolati. Noi nella bottega di famiglia di via Massimo d’Azeglio siamo ripartiti garantendo a tutti la sicurezza e il rispetto delle norme. Le chiacchiere sono rimaste, per il resto ci si adatta.

Non è un lavoro di prima necessità, ma alla lunga lo diventa e tutti hanno piacere di sentirsi bene con se stessi e con gli altri. Con la speranza di tornare più forti di prima per poter anche riassaporare i veri “5 minuti dal barbiere”, auguro il meglio a tutti.

 

ABBIAMO REAGITO PIANTANDO UNA VIGNA

Raffaella Bologna

Imprenditrice del settore enologico, Donna del vino, Rocchetta Tanaro 51 anni?

 

All’inizio di marzo, da Braida, tutto procedeva come sempre: programmi di fiere nazionali ed estere, celebrazioni, l’agenda delle visite e delle degustazioni piena fino all’estate. Fino a metà mese avevamo anche in programma di accogliere le enoappassionate per la festa dedicata a “Donne Vino e Ambiente” dell’Associazione Le Donne del Vino.

La quarantena è arrivata all’improvviso, del tutto inattesa, sul momento perfino incredibile. In azienda, come a casa, ho sin da subito preso le misure utili e quelle prescritte contro il covid-19: aver sposato un medico, l’austriaco Norbert Reinisch, mi ha aiutato a essere reattiva fin dall’inizio rispetto alla pandemia. Mi sono tornati alla mente i ricordi del Premio Giacomo Bologna-Qualità della Vita che nel 2004 assegnammo alla famiglia del medico e microbiologo italiano Carlo Urbani, il primo a identificare e classificare la Sars (Sindrome Respiratoria Acuta Grave) o polmonite atipica, la malattia al centro dell’epidemia esplosa in Estremo Oriente tra il 2002 e il 2003, che provocò 774 vittime accertate, tra cui lo stesso Urbani.

Man mano che passavano i giorni, i numeri di marzo salivano ed erano via via più desolanti: contagi, decessi. Un giorno i numeri sono diventate facce note, con la morte per coronavirus di un amico… Il senso di impotenza mi ha fatto piangere. Ma le lacrime si sono presto trasformate in voglia di fare, e la voglia di fare mi ha dato forza. Come tutti gli agricoltori convivo da sempre con l’incertezza. L’incertezza del raccolto, prima di tutto: basta una gelata o una grandinata e il lavoro agricolo è messo in discussione.

In questo caso, la sosta forzata di tutte le attività e lo stop agli spostamenti ci hanno messo in seria difficoltà. La mia fortuna è stata, ancora una volta, quella di lavorare a contatto con la natura. Insieme a mio fratello Giuseppe abbiamo lanciato il cuore oltre l’ostacolo, e proprio nei giorni neri della pandemia abbiamo piantato una vigna. Piantare una vigna è un gesto antico, un segno di coraggio e speranza: significa scommettere ancora una volta sulla terra, coltivare il futuro.

Noi – naturalmente – abbiamo piantato barbera a Rocchetta Tanaro, accanto all’antica cascina San Bernardo che fu dei monaci benedettini: accoglieva i pellegrini sulla via Francigena. Proprio nella cascina di San Bernardo sta nascendo il nostro Wine Resort. Ideato già da anni con l’obiettivo di un turismo lento, raccolto, profondamente “esperienziale”.

Sette camere, spazi di degustazione con vista sulle vigne, immersi nella natura e nel silenzio. Si sarebbe dovuto inaugurare a metà aprile, con il glicine in fiore e gli ospiti americani che avevano prenotato da tempo. Abbiamo spostato tutto all’autunno prossimo, speriamo, tra i profumi della vendemmia e quelli del tartufo bianco e della bagna cauda. Non è rassicurante? Torneranno quei profumi.

Tornerà l’arte, la bellezza. Ad Astigiani e agli astigiani dico: vi aspetto appena possibile per condividere un calice della nostra Barbera d’Asti. E mai come ora: “Alla salute!”.

 

IL VUOTO IN STAZIONE SENZA STUDENTI E PENDOLARI

Amalia Maccotta,

Edicolante della stazione di Asti, 64 anni

 

Che trasformazione! Nel giro di nulla, la stazione ferroviaria di Asti, che, dalla mia postazione all’interno dell’edicola, vedevo tutti i giorni affollata e piena di voci e rumori, è diventata un deserto. Il primo grosso cambiamento è arrivato con la chiusura delle scuole: il vociare e le risate dei ragazzi sono stati sostituiti da un pesante silenzio.

Mi mancano molto i miei amici studenti, ormai parecchi li conosco per nome e c’era una sorta di rituale nel loro passaggio quotidiano carico di allegria e confusione. Man mano che le attività chiudevano, fino alla dichiarazione di zona rossa, con il divieto di lasciare la propria residenza e spostarsi da un comune all’altro, il senso di vuoto nell’atrio e sui binari cresceva sempre di più. Niente più pendolari, da e per Torino, Genova o Alessandria, niente più corse per non perdere il treno.

In quei giorni anchela biglietteria ha chiuso gli sportelli e sono diminuite le corse dei treni che ormai transitavano in gran parte vuoti mentre l’altoparlante dava annunci al vuoto. Le edicole sono rimaste aperte, considerate presìdi indispensabili per l’informazione, ma in stazione sono stati giorni e settimane di solitudine. Ed è proprio questo senso di vuoto che traduce il dramma. Mi è ancora difficile dare un significato a tutto questo, è troppo presto, ma so che quel silenzio che mi ha tanto turbata ha molto da dire, l’ho sentito nel canto degli uccelli, l’ho percepito nel profumo dell’aria e l’ho vissuto nel recuperare dei ritmi più umani che sicuramente mi hanno permesso di fermarmi e ascoltare fuori e dentro di me.

 

ANNO BISESTO IO MICA CI CREDEVO

Paride Candelaresi

Tabaccaio, consigliere comunale di Asti, 35 anni

 

29 febbraio, anno bisesto, anno funesto, ma mica sarà vero? Siamo nel 2020 come si fa a credere ancora a queste dicerie. Pochi giorni e la tv e i giornali stilano numeri di contagiati, morti, calcoli, stime come fossero numeri della lotteria. Mangio da solo – sì, da solo, perché il virus separa la vita dalla morte, ma anche i vivi dagli altri vivi – spengo la tv e scivolo sul balcone; guardo di sotto e vedo piazza Vittorio Veneto deserta, corso Dante desolato, il Bosco dei Partigiani con il cancello d’ingresso serrato. Rientro in casa nel silenzio assoluto, mi siedo e scrivo.

Caro diario, io non ti ho mai scritto perché una storia da raccontare non ce l’ho mai avuta. Sognavo grandi cose, ma ne ho costruite di piccole; sognavo di essere il Signor Chissachì e invece? Eccomi qui a fare il tabaccaio. Ti odiavo perché mi inchiodavi alla sedia e alle tue pagine a fare i conti con i miei perché; ma ora fuori c’è il virus trasparente che si nasconde ovunque.

Caro diario, ho sorriso in questi giorni, anche quando avevo paura; ho aperto il mio negozio nel cuore di San Rocco e ho aspettato i primi, pochissimi, clienti arrivare. Ho venduto quotidiani dai titoli spaventosi e stampato tante (troppe) volte l’autocertificazione: quel pezzo di carta che divide il cittadino dalla libertà. È entrato un uomo, un mio cliente: imbarazzato mi ha rivelato di essere in difficoltà; con lo sguardo basso mi ha chiesto i soldi per fare la spesa. Glieli ho allungati con discrezione: lui è uno di quelli poveri, di quelli che sono poveri per davvero, ma che i soldi te li riportano sempre.

Caro diario, io sono un consigliere comunale e ho risposto alle chiamate dei cittadini confusi: si aspettavano fossi preparato e che li rassicurassi, ma le risposte in tasca non le avevo. Oggi non so ancora echeggiare quelle tre parole come fanno tutti; perché anche se sorrido, io non lo so se “andrà tutto bene”. Non dico di non averci provato, semplicemente non ci riesco. Dai pericoli siamo tutti bravi a fuggire, ma la vita diventa interessante quando cominciamo ad affrontarli.

 

IO, LA CAMPAGNA E IL GIRO DI DO

Vittoria Briccarello

Agente di assicurazioni

 

La quarantena in campagna è un privilegio. Per almeno due motivi differenti: il primo è che la vita in campagna è di per sè già un privilegio, un’acquisizione di spazio che va oltre alla proprietà singola e quindi amplia la libertà di movimento nei boschi, nei campi, lungo le linee immaginarie dei terreni di antichi mezzadri. Il secondo è che si rientra a far parte di quella lunga tradizione di simposi e fughe dalle città durante le grandi e cupe epidemie della storia, quali la peste del Boccaccio e il colera di Marquez nel Caribe.

A gamba tesa quindi ho trascorso la prima pandemia della mia storia inserendomi in una stimabile storia di fughe bucoliche, che hanno causato in primis il riaprirsi dei chakra del gusto, tra fornelli, ricette, e erbe aromatiche; in secundis il realizzare uno dei dieci grandi obiettivi che non si ha mai tempo o talento di raggiungere: imparare a strimpellare la chitarra da un umile giro di Do. Tra la paura, le insicurezze e la nostalgia degli abbracci, ho provato a seguire Voltaire, concentrandomi a “coltivare il mio giardino”.

 

A PARIGI TRA ASTROPARTICELLE E UOVA DI GALLINA

Elena Pinetti

Ricercatrice universitaria a Torino e alla Sorbona di Parigi, 25 anni

 

Scrivo queste righe da una città speciale: Parigi. Sono arrivata nella capitale francese l’11 gennaio per svolgere il mio dottorato in co-tutela con l’Università Sorbona. Ho portato con me due valigie e l’entusiasmo tipico di una giovane ricercatrice. L’obiettivo di questa nuova avventura era studiare delle particelle invisibili di Materia Oscura nel nostro Universo a partire dai raggi X misurati da un telescopio spaziale, il genere di cose di cui si occupa una fisica teorica astroparticellare.

Mai avrei immaginato che di lì a qualche mese Parigi sarebbe diventata lo sfondo della mia quarantena. Ho scelto di rimanere qui perché il posto in cui mi trovo è un luogo incantevole. Si tratta di uno studentato femminile fondato dall’imperatrice Eugenia Napoleone nel 1856. Se dovessi indicare un simbolo per la mia quarantena, sceglierei sicuramente Virginie, la gallina che ha tenuto compagnia a noi “giovani principesse del castello di Napoleone”, come ci chiama il responsabile della struttura.

Durante i giorni di quarantena, io e Alexandra, un’altra ragazza dello studentato, ci siamo occupate di nutrire la bella Virginie: abbiamo scoperto che oltre al grano, Virginie ama molto il panettone. In cambio delle nostre coccole, lei ci ricambiava con le sue uova. Per due mesi, da metà marzo a metà maggio, ho fatto vita di comunità con le ragazze che, come me, hanno scelto di rimanere a Parigi.

Ricordo il mese di marzo, quando ci ritrovavamo tutte le sere a cena insieme e leggevamo il numero dei contagi in Italia sperando che nessuno dei nostri famigliari e delle persone a noi care stessero male. Non mi sono abbattuta. Ho approfittato del tempo a disposizione per realizzare un video divulgativo intitolato “La Materia Oscura: come ricercare la più sfuggente forma della materia”, che ho pubblicato su YouTube, un supporto agli insegnanti delle scuole superiori per la didattica a distanza.

 

LA MIA QUARANTENA

Stefano Porro in arte Pedro,

20 anni, frequenta la Libera Accademia d’arte Novalia

ALLA SCOPERTA DELLA DIDATTICA A DISTANZA

Chiara Cerrato

Insegnante e consigliera di Parità della Provincia di Asti, 53 anni

 

Smart (working), Multi (tasking), Dad e quant’altro. Non lo sapevo, non lo sapevamo. Era il 21 febbraio. Contenti, sia noi prof che gli alunni, di quel breve stacco dagli impegni scolastici per le vacanze di Carnevale, abbiamo dato compiti, preso impegni, confermato calendari, programmato incontri e sospirato momenti di relax.

E invece è stato il nostro ultimo vero giorno di scuola, quello che di solito accade a giugno: saluti, festicciole, organizzazione affinché non si esageri nei lazzi e schiamazzi, caffè con i colleghi, buoni propositi e arrivederci…

Niente. Questo è quanto più mi ha colpito. Fine. Di punto in bianco, quando non te lo immagini e non te lo aspetti. L’inizio della Dad, la famosa, o famigerata, didattica a distanza, è stata un po’ un “ArmiamoCI e partiTE”: il Ministero ha dato qualche indicazione e ogni scuola si è attrezzata. Un po’ come la mitica Armata Brancaleone ci siamo ritrovati da un giorno all’altro ad affrontare un diverso modo di insegnare e a riformulare un’idea di scuola senza la presenza, la socializzazione, il vis à vis .A cambiare anche i nostri orari: lavorare da casa, questo smartworking, lavoro agile per dirlo in buon italiano, è tuttaun’altra cosa.

Se si chiede a un docente di raccontare questa esperienza, sicuramente ciascuno la vedrà a modo suo… io posso raccontare l’esperienza vissuta nella mia scuola superiore (l’Artom) e di riflesso, ma come mamma in questo caso, in quella di mia figlia Martina, maturanda al Liceo Monti. Se la Dad è fondamentale per portare a termine questo anno scolastico, non si può non rivolgere particolare attenzione ai maturandi, i più colpiti da questa situazione. Sono stanchi e preoccupati, stanno affrontando con totale incertezza un evento importante che segna il passaggio all’età adulta. È quasi un rito la maturità; chi di noi non si ricorda la sua “notte prima degli esami”.

Questa solitudine fisica delle persone e dei luoghi di riferimento (non ci credono neanche loro, ma hanno detto più volte che sentono la mancanza della scuola), il doversi costruire la capacità di attendere, di adeguarsi, di riorganizzarsi ha appesantito, come un macigno, questo momento che dovrebbe essere coinvolgente ed entusiasmante. Se lo meritano, non il sei politico, ma l’otto filosofico.

Da prof: il mio tempo di lavoro si è dilatato e prolungato perdendo quella rigidità che l’orario scolastico impone. Le ore di lezione frontale ora transitano per meet, weschool, skype, e vedere tanti puntini colorati (tutti addestrati in men che non si dica a mantenere videocamera e microfono spenti per migliorare la connessione) invece dei visi fa sicuramente effetto. Noi dell’Artom abbiamo anche cercato di essere utili mettendo al servizio della comunità il laboratorio di chimica della nostra scuola e prodotto “Artomina”, un igienizzante composto secondo le indicazioni dell’Oms.

 

SUL BRICCO DI REPERGO LA MIA CALIFORNIA

Gianni Fassio,

Ex ristoratore a San Francisco in California, 80 anni

 

Ho trascorso il lockdown con mia moglie Jette nella nostra casa a Repergo di Isola d’Asti, sul bricco dove già vivevano i mei nonni.

Durante il ritiro di questi mesi, circondato dal verde e dal silenzio, ho riflettuto sul passato, sul modo in cui i miei avi avevano vissuto la loro vita, in quella casa, dove sono tornato dopo i decenni intensi vissuti in America, a San Francisco come patron del ristorante Palio d’Asti. Mio Nonno, Davide Giovanni Fassio (conosciuto in paese con il soprannome di Gioanin Rivoira) è nato nel 1876 e fino a quando non si è sposato, nel 1897, viveva sulla collina chiamata Rivoira, estremamente isolata.

Durante quel periodo furono inventati il telefono, la lampadina, la radio, l’automobile, la macchina da presa e il fonografo, ma non erano riusciti a raggiungere le zone rurali. Si riscaldava la casa con legna proveniente dai boschi circostanti, l’acqua proveniva dal pozzo, il “cavallo di San Francesco”, cioè camminare, era l’unico mezzo di trasporto e non c’era alcun uso di elettricità.

L’intrattenimento consisteva nel cantare, ballare, suonare strumenti, cucire e leggere. I servizi igienici erano all’esterno della casa e la carta igienica non esisteva. I ristoranti erano una novità e si trovavano solo nelle grandi città. Si faceva festa in casa con tutti i familiari e chi veniva partecipava alla preparazione. Per mio nonno andare in città, cioè a Isola, voleva dire camminare trenta minuti a un buon ritmo; gli anziani ci impiegavano molto di più, perciò si andava solo per necessità.

Oggi le persone si lamentano di dover restare in isolamento ma, se ci pensiamo bene, quello che ci è stato richiesto per qualche mese è ciò che hanno fatto i nostri nonni, per anni o per tutta la vita. Ci siamo così abituati ad alcune comodità da ritenere che siano una necessità assoluta mentre in realtà non lo sono.

Chi ha potuto vivere il lockdown in campagna ha superato meglio questa condizione, né io né i miei vicini ci siamo lamentati. Parlando invece con persone che abitano in città ho sentito tutta la loro sofferenza. Ci sono oltre 100 cascine libere nei dintorni di Isola; sono certo che gli abitanti della città potrebbero acquistarle e lì creare il loro piccolo paradiso.

 

AUTOCERTIFICAZIONE E DINTORNI

Barbara Mogni,

Designer, Asti, 54 anni Autocertificazione italiana.

 

Avrei voluto leggerne qualcuna delle milionate di autocertificazioni compilate in questi giorni di quarantena dagli italiani. Penso ci sarebbe materiale per farne libri, documentari, serie per Netflix e copioni da Oscar per commedie davvero all’italiana. Ma questo gruppo di tecnici (Semiologi? Letterati? Strateghi? Geni della punteggiatura? Poliziotti in crisi di identità?) ) ha pensato che stava progettando un’autocertificazione per il popolo più creativo e bugiardo dell’universo?

Io credo di no. E nonostante tutto di questa pandemia l’autocertificazione sarà una delle cose che lascerà una traccia importante, soprattutto su di me… perché io si! che sono italiana ma faccio parte di quella fetta di italiani che se dico una bugia il poliziotto che mi legge l’autocertificazione malandrina se ne accorge subito. Per cui io, per ogni spostamento (e per tenere a bada la mia coscienza) devo avere in tasca sempre l’autocertificazione compilata per benino con la carta d’identità vicino, pronta per un controllo. Ma esistono variabili e possibili contrattempi per creare ansia, anche per una sciocchezza come l’avere o il non avere l’autocertificazione.

Del tipo: • scarichi il pdf, lanci la stampa ma la tua stampante ti dice che sta terminando l’inchiostro (ed è domenica e anche il negozio che vende le cartucce sotto casa tua è chiuso, ovviamente) • scarichi il pdf, lo stampi, ci metti mezz’oretta per compilarlo (perché sbagli almeno 3 volte il tuo codice fiscale) e poi un tuo amico su whatsapp ti manda la foto della nuova autocertificazione uscita bella fresca una quindicina di minuti prima • scarichi il pdf, lo stampi e poi scrivi che devi portare il cane a fare la pipì e invece devi andare a fare la spesa (e allora strappi e ricominci).

Liste lunghe di intoppi per autocertificazione difficoltosa (anche qui, ricco materiale per progetti letterari e cinematografici). Che già abbiamo fatto dei passi avanti, in quanto a fiducia intendo. Perché adesso possiamo omettere i nomi e i cognomi dei congiunti che andiamo a visitare! Questa è una conquista pazzesca! (Direi che l’argomento #congiunti posso anche non affrontarlo perché ho la sensazione che in questi giorni sia il sostantivo più citato, dopo #lievito, #jogging e #ildiscorsodiConte) Anche se… è vero, l’autocertificazione non dobbiamo averla per forza con noi perché chi ci stoppa per un controllo potrebbe farcene compilare una lì, sul posto, all’istante. Ma vuoi mettere la sensazione di pensare, al momento del controllo: tiè! beccati la mia autocertificazione stampata e compilata per benino.

 

AMORE TRA PISA E ASTI E UN PENSIERO A NOÈ

Domenico Coviello

Giornalista, ricercatore, Pisa, 48 anni

 

Sono pisano e ho un “affetto stabile” fuori dalla regione Toscana, ad Asti. La mia compagna l’ho vista solo in video per settimane, ci eravamo come smaterializzati. Abbiamo potuto riabbracciarci solo il 6 giugno, quando sono venuto in questo vostro Piemonte, così struggente e bellissimo.

Vivo a Pisa in un loft con finestroni a tetto. Fuori passa il “diluvio” del virus. Leggo la storia biblica di Noè. Un uomo che scommette sul domani. Noè sa che il mondo di prima è finito per sempre ma guarda al futuro. Passato il diluvio c’è da rifarlo, il mondo. Più dolce, più giusto, più fraterno.

 

I FIORI DELL’INFERMIERA DEL TURNO DI NOTTE

Liliana Pregno,

Vivaista, Asti

Quella mattina di fine marzo me la ricordo. Riaprivamo le nostre serre di corso Casale dopo più di 15 giorni di chiusura. Non era mai successo nella nostra storia, ma l’emergenza Covid 19 ha colpito anche noi vivaisti, proprio all’inizio della primavera.

Chi viene in serra a prendere fiori o pianticelle da giardino o da balcone è un ottimista, pensa al futuro, ma in quei giorni di ottimismo in giro ce n’era davvero poco. Quella mattina presto ecco la prima cliente, appena aperti.

Era un’infermiera che aveva staccato dal turno di notte in ospedale. Mi ha chiesto di poter girare un po’ per le serre dove c’erano i vasi fioriti. Dopo tanti giorni ho bisogno di colori e di profumi, mi ha detto. Ci siamo guardate, non ha aggiunto altro. Sono una che non si commuove facilmente ma quella volta…

 

RICORDO IL METANOLO RIALZEREMO LA TESTA

Michele Chiarlo

Imprenditore vinicolo, Calamandrana, 85 anni

 

Ho girato il mondo, mantenendo sempre il mio baricentro a Calamandrana. Quando si sono avute le prime avvisaglie del pericolo contagio, con i miei figli, abbiamo deciso di adottare tutte le misure di sicurezza necessarie in azienda e nei vigneti. All’inizio tutti pensavamo fosse una cosa che riguardasse solo la Cina.

Poi all’8 marzo è toccato anche a tutta l’Italia mettersi in quarantena. I nostri amici ristoratori hanno dovuto chiudere e noi, che siamo nelle loro carte dei vini, ci siamo subito accorti del blocco. I nostri importatori americani ci mandavano mail di solidarietà, ma per fortuna confermavano gli ordini. Anche loro pensavano che fosse una cosa che dalla Cina era passata all’Europa. Però poi il virus è arrivato anche negli Usa e tutto si è fermato.

Sono andato con la memoria alla primavera del1986 quando scoppiò lo scandalo del vino al metanolo. A quel tempo ero il presidente del Consorzio della Barbera d’Asti e abbiamo dovuto resistere alla bufera mediatica in Italia e all’estero. Ma poi proprio da quella bufera le aziende serie sono uscite rinforzate e consumatori hanno accresciuto la consapevolezza che il vino di qualità ha dei costi.

Durante il metanolo eravamo noi sotto schiaffo, con il Covid 19 è tutto il mondo che sta soffrendo. Sarà molto dura riprenderci, ci vorranno passione e impegno. Ho compiuto 85 anni: mi hanno detto di contare le vendemmie che sono un po’ meno, ma poi mica troppo. Dalla Corea del Sud è arrivato ai primi di maggio un nuovo ordine dei nostri vini. Ecco, è il segnale che possiamo e dobbiamo ricominciare.

 

IL RICETTARIO DI FAMIGLIA DIVENTA UN EDUCATIONAL SU FB

Pierottavio Daniele,

manager culturale, 41 anni

 

Una bella botta questa quarantena! Quarantenne, manager culturale, papà di una bimba di due anni e mezzo, una compagna adorabile, una mamma arzilla, un’abitazione in centro di Asti e una cascina rilassante a Calamandrana con tanto di vigneti, orto, cavallo e quattro cagnolini.

In questo quadro piuttosto variopinto, ritrovarsi di colpo immobili e costretti a sospendere la propria attività professionale per dedicarsi completamente alla famiglia e alle cose di casa non è stata per niente una passeggiata. Devo ammettere che avere una bimba piccola con un bel carattere ricco di entusiasmo, mi ha dato una grossa mano nel dimenticare quasi completamente la scocciatura del dover stare forzatamente in casa per un periodo piuttosto lungo.

La definirei quasi una vacanza anticipata e inaspettata: una sorpresa, anche se costellata da una pioggia di incertezze scandite dalle comunicazioniquotidiane preoccupanti dei media. Io, Lucilla e Tilde, ci siamo divertiti un sacco; per prima cosa abbiamo tirato fuori dal cassetto i ricettari di famiglia e ci siamo cimentati nella preparazione di piatti semplici e tradizionali per poi mangiarceli con grande gusto, addirittura di alcuni abbiamo filmato la preparazione e pubblicato come educational su Facebook. Ad accompagnare bagna cauda, bagnèt con bolliti, agnolotti, friciule, bunèt e robiole di Roccaverano, non potevano mancare degli ottimi vini, pertanto ci siamo fatti recapitare delle buone Barbere d’Asti da cantine della zona e abbiamo ricercato gusti d’altrove acquistando online vini forestieri.

Oltre a cucinare, mangiare e a bere, abbiamo lavorato online, ma soprattutto giocato con Tilde, trasformando il giardino in un autentico parco giochi, immaginando che tutto sommato dover passare del tempo tutti insieme appassionatamente in una fase delle nostre vite, così bisognosa di tempo da trascorrere insieme, si rivelasse un gran colpo di fortuna, camuffando un po’ le angosce di un periodo faticoso e complesso. Che sarà difficile dimenticare .

 

HO FINALMENTE FATTO IL SUPER PAPÀ

Riccardo Rota

Medico odontoiatra, Asti, 34 anni

 

Questo periodo mi ha restituito un bene prezioso, il tempo, bene ormai raro in una vita frenetica come la nostra. In ambito lavorativo lo stallo economico 81 è stato controbilanciato dal tempo per poter riorganizzare e controllare in maniera radicale tutti i processi e le burocrazie relative al mio studio dentistico.

Ho ritrovato il tempo per studiare e leggere parte di quelle pile di libri acquistati e non ancora letti. Ho fatto un sacco di esercizio fisico grazie ai ragazzi della palestra che ci pubblicavano assiduamente il workout quotidiano. Ma ovviamente il meglio l’ho trovato nella mia splendida famiglia. Finalmente tanto tempo da trascorrere con mia moglie e i nostri tre fantastici bambini, libero dai ritmi pressanti del lavoro e dagli impegni calendarizzati. Non tempo sbocconcellato ma giornate intere, senza fretta, per dedicarsi a tutte quelle attività che, avendo la fortuna di vivere in campagna, spesso ci si trova a dover eseguire con l’acqua alla gola.

Giorgio 5 anni, Filippo 3 e Pietro quasi 2, hanno partecipato entusiasti a preparare l’orto, chi rastrellando chi semplicemente rotolandosi nella morbida terra appena fresata. E poi tutti insieme a dare l’impregnante a una vecchia botte sotto il portico o a spingere il tosaerba divertendoci a portare l’erba alle nostre galline, chi con timore chi con un bastone pronto a difendersi dal gallo!

E di nuovo tutti insieme con le mani in pasta, tra pizze, torte e pasta fresca, constatando come qualche uovo e qualche pisacan possano risolvere un pasto senza nulla invidiare alle code ai supermercati. Ho anche appeso ben cinque quadri a mia moglie! L’unico tempo che ci è mancato è stato quello per annoiarci. Alla ripresa del lavoro, Giorgio mi dice quando rincaso la sera: “Papà ma perché sei arrivato così tardi? Tu devi stare con noi!”. E io: “Caro Giorgio, papà ha ripreso a lavorare”. E Giorgio: “Ma papà, il tuo lavoro è giocare con noi!”.

 

LO SMART WORKING IN PIGIAMA A METÀ

Elisabetta Testa

Giornalista, 22 anni

 

Presto che è tardi! Sta per iniziare una nuova giornata e ho un sacco di cose da fare. Metto la sveglia alle 7.30, mi piace prepararmi con calma e dialogare con il silenzio di una città ancora a riposo. Colazione, doccia, trucco, vestito e sono pronta.

Oggi però c’è qualcosa di diverso, perché non devo aprire la porta di casa, non devo andare a quella conferenza stampa in Comune e non devo vedere i miei colleghi della “Voce di Asti on line” per il nostro brainstorming. Da oggi il mio ufficio diventa camera mia e sono sola. Sono entrata ufficialmente nel famigerato smart working.

Mentireia me stessa se scrivessi di aver vissuto bene questi due mesi di quarantena: la mente era annebbiata, il corpo era stanco, pur non avendo fatto alcuna fatica fisica e il lavoro consistesse solo nel dare brutte notizie a chi sperava di leggere altro. Le vittime del Coronavirus all’inizio avevano un’identità, un nome, un cognome, mentre con il passare dei giorni sono diventati numeri. Numeri che da giornalista avevo il dovere di riportare, ma che ogni sera si traducevano in un pugno nello stomaco.

Questa quarantena mi ha insegnato a fare i conti con me stessa, ad ascoltarmi e a non averne paura. Questa quarantena mi ha insegnato che le lacrime non sono un segno di debolezza, ma di forza. Questa quarantena mi ha ricordato che cosa si prova a fare bene il proprio lavoro, nonostante tutto.

Ho ritrovato anche il tempo da dedicare alla lettura, alla cucina e alla cura di me stessa. Ho imparato a usare nuove piattaforme digitali, a vestirmi di tutto punto dal collo ai fianchi, restando però con i pantaloni del pigiama, non immortalati dall’obiettivo della webcam. Ho persino cantato Sei bellissima sul balcone, dopo aver sentito la musica provenire dall’altra parte della strada.

 

UN NIDO DI TORTORE CHE DIVENTA FAMIGLIA

Manuela Caracciolo

giornalista, scrittrice, 39 anni

Durante la quarantena approfittando del tempo a disposizione mi sono iscritta a qualsiasi risorsa online gratuita disponibile.

Tra webinar sul marketing, zoom di yoga, training di meditazione e corsi di formazioni vari ho occupato il mio tempo nel mio piccolo appartamento che affaccia, grazie al cielo, sul verde.

Un giorno, tra una call skype e una riunione Zoom ho scoperto che in balcone, sopra la mia testa, tra il muro e il condizionatore si era formato un nido di rametti. In altri anni con la scopa lo rimuovevo per evitare assembramenti di piccioni che avrebbero potuto sporcare il pavimento. Ma stavolta no. Mi sono fermata a osservare. E oltre l’intrico di rami intrecciati con pazienza, ho scorto una tortora beige.

Occhi neri e tondi, perplessi, interrogativi. Ho pensato che stesse costruendo uno spazio per sé e per i venturi piccoli, per proteggersi. E non ho avuto il coraggio di distruggere il suo piccolo mondo. L’ho battezzata Bianca, come una cara amica in stage a New York di cui ho seguito le avventure per il rientro in Italia dai suoi genitori.

Abbiamo convissuto. Ha covato a lungo e ogni tanto planava vicino alla mia testa quando usciva a cercare cibo. Per motivi diversi siamo legati alla nostra casa, ci teniamo compagnia e rispettiamo le distanze. Nei giorni di pioggia si appollaia sul davanzale e guarda dentro. L’ultima volta erano in due. Mi è sembrato il maschio.

L’ho chiamato Enzo. Può considerarsi un congiunto? Poi finalmente, una mattina ho visto sbucare dal nido una testolina nuova. La famiglia si è allargata. Ora siamo in attesa che la situazione si sblocchi. Le tortore volano e ritornano. Ci teniamo compagnia, credo ormai di far parte anch’io della famiglia di Bianca.

 

IL SILENZIO DEGLI ACQUARI

Giorgio Giuliano

Contitolare Asti Acquari, 60 anni

 

Ogni giorno, con mia moglie abbiamo percorso la strada da Tigliole ad Asti e viceversa per non chiudere il nostro negozio “Asti Acquari” che gestiamo da trentun’anni in corso Torino. Vendendo anche mangimi era possibile tenere aperto per specifiche necessità.

Noi abbiamo una clientela molto particolare di appassionati acquariofili e inoltre dobbiamo mantenere vivi i pesci che abbiamo in negozio. Non è stata una scelta commerciale: un giorno ricordo che abbiamo battuto un solo scontrino da 3,40 euro.

Gli acquari sono dei colorati microambienti vivi e possono aver bisogno di interventi urgenti: una pompa che si rompe, una luce bruciata, i filtri da cambiare, oltre al cibo per i vari tipi di pesci. A ben pensarci al silenzio di quei giorni noi siamo abituati. Da noi il solo rumore è il gorgoglìo dell’acqua nelle vaschette. Ci ha accompagnato, come sempre.

 

MIO NONNO MORTO DI SPAGNOLA E IL MURO DI BERLINO

Luigi Florio,

Avvocato, 67 anni

 

Ho vissuto l’arrivo del Coronavirus con autentico terrore. Un’altra pandemia, la famigerata “spagnola”, un secolo fa stroncò, a soli 34 anni, la vita di mio nonno paterno Luigi, come me che ne porto il nome (sulla sua storia di pioniere dell’industria motociclistica si veda Astigiani n. 10 del dicembre 2014).

In casa si è sempre parlato poco di quella tragica vicenda. Nei giorni della mia forzata clausura domestica, con lo studio legale chiuso e i tribunali chiusi per disposizione governativa, ho pertanto cercato di saperne di più su quella lontana pandemia, per meglio capire come quella tragedia familiare potesse essersi svolta.

Ho così appurato, navigando su internet, che il decorso della malattia era spaventoso: rendeva blu il volto dei contagiati per mancanza di ossigeno e purulenti i loro bronchi per la massiccia presenza di liquido infetto.

Memore di quel tragico precedente familiare, ho cercato di rispettare e far rispettare nel modo più scrupoloso le norme anticontagio, anche a costo di apparire impietoso agli occhi di Lorenzo e Enea, i miei due figli di 14 e 12 anni.

Da casa naturalmente ho fatto lo smart working, ma essendo il lavoro diminuito drasticamente, tempo ne è rimasto, e non poco. Oltre alla lettura, o meglio rilettura di qualche buon libro (raccomando Il contesto di Leonardo Sciascia, più che mai attuale nell’Italia di oggi) e alla cura del giardino di casa insieme ai ragazzi (la semina del prato ci ha dato grandi soddisfazioni), sono riuscito a dedicarmi a un “dovere” che rimandavo da sempre: estrarre dal grande cassetto della mia scrivania documenti e oggetti immagazzinati per decenni e dividere le cose da buttare da quelle da conservare.

Ne è venuto fuori di tutto! Il pezzo forte, ovviamente da conservare, è stato niente meno che un frammento del Muro di Berlino; pensavo di averlo irrimediabilmente perduto poco dopo averlo acquistato nell’estate del 1990 proprio a Berlino, dove l’imponente manufatto, che per trent’anni aveva simbolicamente diviso il mondo comunista dall’Occidente libero, era stato abbattuto qualche mese prima. E invece era finito lì, nell’onnivoro cassetto.

Quei pochi centimetri quadrati di cemento, colorato dai residui di scritte e murales e chiusi in una busta di plastica, mi hanno stimolato mille pensieri, emozioni, ricordi; ma anche timori. Sì, timori. Perché se i frammenti del Muro rappresentano indubbiamente un simbolo di libertà ritrovata, oggi, in tempi di restrizioni delle libertà personali per ragioni di salute, con tanti esempi al mondo di presunti efficientismi autoritari spacciati per antidoto alle “lungaggini” democratiche, c’è da chiedersi se il futuro che ci attende riserverà alla libertà la stessa importanza che le abbiamo attribuito fino ad ora. Sul punto mi sono scoperto insolitamente pessimista.

A tirarmi un po’ su è stata però la telefonata dei miei cugini di Zurigo, anche loro alle prese con il lockdown; mi hanno comunicato che gli sono bastate cinque ore (dalla richiesta) per ricevere sul conto corrente della loro impresa un finanziamento a tasso zero per circa mezzo milione di franchi. Bella notizia. Se infatti la Svizzera, tra i primi Paesi al mondo per libertà democratiche, si piazza ai primi posti pure per efficienza, forse non tutto è perduto.

 

SONO STATO ANCH’IO #INPUNTADICIABATTE

Gianfranco Mogliotti

Impiegato Gaia servizi, vicepresidente cantina, 49 anni

 

Quarantena? E chi si sarebbe mai sognato che un giorno l’avrei vissuta, insieme ad altri sessanta milioni di italiani e tutti gli altri nel mondo. Non ho avuto difficoltà a fare mie, e seguire rigidamente, le regole che ci sono state date.

Certo è stata dura. Ho avuto un inatteso surplus di momenti da dedicarmi. Tutti per me. In casa, immancabili le letture, tante, diverse, spesso lontane: ho risfogliato Le Tigri di Mompracem (Salgari) e L’ultima domenica (Figini), passando per il capitolo dedicato alla peste in Milano de I promesssi sposi, senza dimenticare di riaprire In Asia di Terzani. Film e tv non mi hanno coinvolto. Una bella sorpresa, è stata la chance che mi ha dato Fabrizio Cestari di Astigov, di entrare nel progetto #inpuntadiciabatte.

Ho partecipato leggendo pagine del mio romanzo L’inquilina dell’attico. Facevo pezzi di un paio di minuti che, per realizzarli, mi impegnavo anche due ore. Vivendo da oltre 30 anni sulla collina che porta da Rocchetta Tanaro a Masio, uno dei piaceri che ho riscoperto è stato raggiungere la chiesetta vicino alla Cantina sociale. Una “passeggiata” di dieci minuti nel silenzio. Solo la voce della natura tra cinguettìi, frasche di olmi, querce e tigli mossi dal vento. Una volta arrivato al Post dal vin, trovavo ad aspettarmi l’amico Sandro, cantiniere musicista e attore ne La Baudetta.

Mi aspettava pronto a darmi il benvenuto con un calice di Barbera. Un po’ come se fosse stata una borraccia per un ciclista in fuga. Quasi sempre sul piazzale della Cantina arrivano Celeste di 86 anni, di cui tanti vissuti in Argentina, e Franco, pensionato Fiat, grande Cuore granata. Sono un po’ tristi perché il Covid 19 gli ha rubato la possibilità di fare le festa in collina. Era già tutto organizzato. Anche stavolta avrebbero suonato i Controcorrente della Rocchetta. Qui conoscono ogni filare di vigna, sono vedette della collina e della sua vita. Con loro provo a parlare in dialetto, anche se ogni tanto devo stare attento a non storpiare le parole.

Mi conoscono da quando mi chiamavano bel ratìn. «Gian, salitmi tu pari e dij che ‘dmàn a vagh a scarsulé ‘l vi», mi saluta Franco. Davanti a me l’arco alpino col Rosa in mezzo. Alla destra la pianura che guarda Alessandria e alla sinistra l’Astigiano, con il Tanaro che la taglia e che passa proprio ai piedi della mia collina dove c’è la Bellaria. Qui la pandemia la teniamo lontana.

 

AL SUPERMERCATO IN SILENZIO: CHI E’ L’ULTIMO?

Enrico Panirossi,

giornalista, 40 anni

 

La città si era coperta di polvere, proprio come un oggetto abbandonato da molto tempo. Distinguere un giorno dall’altro diventava sempre più difficile per via di quella luce sempre uguale, di un giallo pallido.

Asti attraversava la sua quarantena durante la più grave siccità degli ultimi sessant’anni. Uscivo di casa per andare al supermercato ed ero catapultato in una sequenza di Sergio Leone. Per strada, solo pochi passanti che si affrettavano a rientrare nelle loro case. I decreti erano chiari: non andare in giro senza una valida ragione. Di rado si incrociava lo sguardo con qualcuno; se accadeva, era uno scrutarsi a vicenda per indovinare chi respirasse dietro la mascherina. Cosa lo portava fuori? Sarà stato positivo? Si sarà domandato se fossi io quello positivo? Sarà uno di quegli ottusi che condividono bufale sui social?

Sulle vetrine erano rimasti avvisi di negozianti che dicevano, più o meno, tutti la stessa cosa: riapriremo presto. Ottimisti. Le uniche porte rimaste aperte erano quelle di tabaccai, edicole, negozi di telefonia e alimentari. E ovviamente, quelle dei supermercati. La piccola folla che si raccoglieva di fronte all’ingresso era un segno di vita in netto contrasto con le strade deserte attraversate per arrivare fin lì. Di formare una fila, neanche a parlarne. La gente aspettava sparpagliata in strada, facendosi da parte al passaggio delle rare auto.

Chi si aggiungeva alla coda domandava chi fosse l’ultimo. L’ultimo rispondeva ‘Sono io’. Tutti gli altri fingevano indifferenza, ma in realtà attendevano con i sensi acuti che l’ultimo e il penultimo dichiarassero forte e chiaro i rispettivi ruoli, senza sgarrare. Morricone avrebbe musicato la scena con un carillon. Tra le corsie mettevo insieme più velocemente possibile una spesa senza fronzoli e senza concessioni. La valida ragione per uscire da casa stava tutta in quei due borsoni gialli.

Di nuovo in strada, la polvere, le auto ferme negli stessi stalli da chissà quanto tempo, gli sguardi sospettosi. Ogni passo era prezioso per riempirsi gli occhi il più possibile con scorci di città che non fossero il solito pugno di palazzi fuori dalla finestra di casa. Il rito della spesa ha scandito la mia quarantena: una volta alla settimana per otto settimane. Alla fine, la pioggia è arrivata a lavare via tutta quella polvere. Ora mi piacerebbe vedere i titoli di coda su questo western. Ma ho paura che sia soltanto la fine del primo tempo.

 

IL CINESE IN FILA COME UN PALOMBARO

Loredana Borio

Commessa supermercato, Asti

Lavoro al Carrefour di piazza Alfieri da oltre vent’anni e mai avrei immaginato di vivere una situazione cosi allucinante. Di noi lavoratori dei supermercati si è parlato poco, ma siamo stati esposti in prima linea, spesso indifesi e senza protezioni, a contrastare l’iniziale psicosi collettiva. Come altri negozi, infatti, siamo rimasti presto sprovvisti di gel, alcool, amuchina e carta igienica.

Nei giorni del lockdown abbiamo triplicato il lavoro e ricordo con stupore l’inconsueta fila di persone in coda, pazienti sotto i portici, compreso un cinese con una maschera da palombaro. Questa esperienza ha modificato la nostra organizzazione lavorativa, ma adesso abbiamo vetri di schermo alle casse, guanti, mascherine e, forse, meno timori.

 

HO SCRITTO UN LIBRO CON LUCIANO LIGABUE

Massimo Cotto Giornalista,

esperto di musica, conduttore radiofonico, 58 anni

 

Primo weekend di marzo. Siamo a Correggio, provincia di Reggio Emilia, in un posto chiamato Ca’ di Pom. Pieno centro. Vorrei dire che il nastro del registratore scorre, in realtà sto usando per la prima volta un aggeggio digitale, ultra sofisticato, e ho il terrore che non stia registrando niente. Luciano Ligabue parla e parla. Si racconta. Dobbiamo scrivere la sua prima autobiografia.

Finiamo verso ora di cena. Io devo tornare a casa, perché la mattina ho la sveglia come sempre alle 4 del mattino. Il giorno dopo Asti diventa zona rossa. Qualche giorno più tardi inizia il lockdown in tutt’Italia. Io e Ligabue ci troviamo dunque a un bivio: rimandare l’uscita del libro o lavorare ognuno per conto suo, da casa. Scegliamo la seconda via.

Il libro che uscirà in ottobre sarà quindi il primo libro della mia vita a essere stato scritto in quarantena, io da una parte e l’artista dall’altra. Lontani centinaia di chilometri, vicini solo nell’obiettivo. Difficile e meno gratificante, perché mancano l’interazione piena, le risate, le cene, le prese in giro. Ma, a suo modo, bellissimo. Partono giornate folli, ore e ore a lavorare ognuno alla sua parte.

Poi, prima di cena, ognuno spedisce quello che ha scritto all’altro, per confrontare, limare, correggere, aggiustare. Sono giornate strane, ore infinite come costellazioni e onde, come cantava De Andrè. Solo passaggi e passaggi, passaggi di tempo. A scrivere in modo febbrile, senza fermarci mai.

Dopo 35 giorni la prima stesura è finita. Impensabile, in altre circostanze. Ligabue mi dice: «Ora dovremmo rileggerlo. E ci dovessimo accorgere che fa schifo?». Gli rispondo: «Beh, nessun problema, il lockdown non è finito. Facciamo sempre in tempo a riscrivere tutto da capo». Per me, la quarantena è stata scandita da questi ritmi: al mattino il programma su Virgin da casa, nel mio studio mobile.

Poi, dopo il secondo caffè delle 9, chino sul libro con Luciano. In mezzo, prima e durante, tanta bellezza, quella che vediamo tutti i giorni e di cui spesso non ci accorgiamo, così presi a correre, dove chissà. E adesso che siamo fuori, che speriamo sia finita (per sempre), provo a tenerla stretta, quella bellezza. E a metterla in tasca per non farla ammalare.

 

LA FAME DI ANGELA E GLI ALBERI DA POTARE

Mirella Torta,

Insegnante in pensione, 64 anni

 

I miei nonni materni abitavano a Domodossola. Nonna Romilda originaria di Varzo, un paesino in valle Divedro, nonno Giuseppe originario di Asti, sposato con Romilda e trapiantato in Val d’Ossola. Sarta da uomo lei. Ferroviere lui presso la Vigezzina, ferrovia privata da sempre, che ancoraoggi conduce da Domodossola a Locarno, in Svizzera. Nonno Pinot macchinista, durante la guerra percorreva quel tratto in condizioni difficili, spesso accompagnato da gendarmi tedeschi con armi puntate, costretto, sotto le bombe, a non fermarsi alle stazioni intermedie, a fare ciò che imponeva la guerra su quel fronte.

Il cibo in quegli anni e in quelle zone era difficile da reperire. Pinot recuperava tutto quello che poteva dai contadini che sul percorso salivano sul treno: salame, burro, qualche uovo e farina quanta più possibile per le figlie Angela, mia mamma, 11 anni nel 1944, e Franca nata proprio in quell’anno. Mancava tutto, ma mancava soprattutto il pane e ancor di più quello bianco disponibile poche volte l’anno.

Pasqua del 1944: Angela viene incaricata di andare a ritirare al forno il pane bianco, razionato con tessera. Affamata, si siede su una panchina e comincia a mangiarne. Torna a casa con due misere pagnottine rimaste e viene ripresa aspramente. Mi sono ricordata di quell’aneddoto oggi, quando ho dovuto fare con attenzione la lista della spesa per una settimana. Molto più fortunata io. Ho assai di più di quel che serve. Ma triste, attonita di fronte al fatto che anche i nostri figli stanno sperimentando tutto ciò: limitazioni, divieti nella propria vita personale, la vigilanza per le strade e un’idea di futuro che si è bloccata. Abito a San Carlo di Tigliole. Zappo spesso nell’orto, taglio erba, semino.

Osservo gli alberi da frutto ricchi di fiori. Ho potato con Renzo il frutteto della memoria a San Lorenzo, era il 6 marzo e ci si poteva ancora frequentare… e mentre potavamo insieme consideravamo: «quanta frutta avremo…», «questo ramo lo lasciamo per l’anno prossimo, quando dovremo sfruttare la sua resa fruttifera». E insieme pensavamo al prossimo autunno, ai trattamenti, alla futura primavera con la saggezza o la follia, fate voi, di chi sta davanti a una pianta da frutto da potare. E poi… poi mi paralizzo, ogni tanto, improvvisamente, mentre sto facendo ciò che ho sempre fatto. E penso al pane bianco, ad Angela e alla sua fame.

 

È ARRIVATO NICOLÒ VIVA LA VITA

Marinella Gavazza

Ex insegnante, 63 anni

Era sabato 7 di marzo, giorno del mio compleanno, avevo trascorso una giornata serena girovagando per le Langhe per scoprire le panchine giganti posizionate in posti suggestivi e panoramici. In serata avrei festeggiato con la mia famiglia. Ma mi sentivo inquieta. Durante i brindisi sentimmo che Asti era stata inserita tra le 14 province in zona rossa e la preoccupazione aumentò.

Le notizie, che arrivavano di giorno in giorno, ci resero sempre più apprensivi. Cominciai a dedicarmi alla casa, mettendo in ordine armadi e cassetti, poi ci siamo occupati dell’orto e del giardino; cercavo di leggere libri per non pensare alla preoccupazione più grande: verso metà marzo mia figlia avrebbe partorito il mio primo nipote. La paura e l’ansia crescevano. Il silenzio irreale rendeva più assordante il suono delle sirene delle ambulanze che si sovrapponevano ai rintocchi delle campane.

Camminavo avanti indietro: orto, giardino, cortile. Volevo stancarmi per riuscire a prendere sonno di notte. Arrivarono le idi di marzo, ma anche i segnali del travaglio imminente di mia figlia Ilaria. Intanto le notizie riguardo la situazione dell’ospedale di Asti erano sempre più spaventose. La mia angoscia aumentava e il mio sonno diminuiva. Ma poi di primo mattino del giorno 17 marzo è arrivato LUI, Nicolò, un fagottino di 3,550 kg. La sua prima foto, mandata sul telefonino, mi annunciava la speranza di un nuovo futuro e l’ansia, l’inquietudine, la paura si sono trasformate in gioia, tenerezza e amore. Ho potuto vederlo solo dopo una settimana. Io e Paolo avevamo gli occhi lucidi. Nicolò è un germoglio con due bisnonni: Mario e Giovanni di 96 e 92 anni. Viva la vita.

ELOGIO DELLA RILETTURA E DEL “MIO” JAZZ

Armando Brignolo

Giornalista, 83 anni

 

Durante il forzato ritiro ho fatto le cose che faccio normalmente, senza annoiarmi o sciorinare lamentele. Non ho perso il contatto con la gente, gli amici e ho cercato di mantenermi informato. Non ho mai pensato che qualcuno mi stava togliendo la libertà. Ho solo rispettato delle regole. Certo, mi sono mancate tante cose: i colori e i profumi della campagna (io abito in città), non ho potuto guardare negli occhi i miei interlocutori, stringere mani, sgranchirmi le gambe, ma non ho mai smesso di sentirmi parte della collettività. Inoltre, ho continuato a scrivere gli articoli per La Stampa, attingendo le notizie e intervistando al telefono.

Ma soprattutto mi sono immerso nella rilettura dei libri che hanno influito sulla mia formazione, oltre a quelli d’attualità. Rileggere è bello e utile. Tanto è vero che Guido Ceronetti aveva scritto un Elogio della rilettura. Ogni volta che rileggiamo un testo scopriamo qualche cosa di nuovo, che ci era sfuggito alla prima lettura e, quindi, aggiungiamo qualche cosa al nostro bagaglio culturale. È come rivedere un film: ogni volta scopri un particolare, una frase, una parte del significato che non avevi colto prima. Un’altra delle “solite cose” è stata quella di ascoltare tanta musica jazz. Per capire il jazz bisogna conoscerne la storia. Perché il jazz non è una musica come tutte le altre. È come un libro di storia. Fa parte dell’autobiografia di un popolo che, deportato e spogliato della sua cultura, ha dovuto inventarsene un’altra, per mantenere vivo il ricordo delle proprie origini.

E poi, diciamola tutta: il jazz è una musica democratica che si basa sull’improvvisazione. In un brano ognuno ci mette del suo; nell’assolo crea variando sul tema, tenendo conto (anche in questo caso) delle regole che impongono coerenza, rispetto dello standard, affinché la musica non si trasformi in rumore. Restando a casa ho avuto più tempo per approfondire le ricerche sugli argomanti che mi appassionano e riprendere le matite colorate per schizzare qualche disegno. Qualcuno mi ha detto di aver riordinato la propria libreria. Io non l’ho fatto. I miei cinquemila libri sono già tutti catalogati e ordinati. Ah, stavo dimenticando che mi sono anche preso cura degli alberelli, che tingono il mio terrazzo di un bel verde.

 

I CAPRIOLI LUNGO IL BORBORE

Chicco Rissone,

pensionato Enel, 64 anni

 

Un anno fa ci siamo trasferiti dalla zona Nord di Asti alla zona Sud Ovest, proprio davanti al parco giochi lungo il Borbore, che nelle settimane di quarantena praticamente deserto, si è trasformato in un’oasi naturale che ha riservato molte sorprese. Abbiamo visto i caprioli correre liberi, leprotti selvatici saltellare qua e là, alcune specie di uccelli (mai visti in città) socializzare con le anatre residenti e con le pacifiche nutrie. Le passeggiate sui margini del torrente, percorrendo a piedi anche tratti della vecchia ferrovia abbandonata che da Asti portava a Chivasso, ci hanno permesso di “sgambare” per chilometri senza allontanarci da quei famigerati 200 metri da casa.

Nelle giornate di maltempo e la sera ho dedicato il mio tempo a riversare in digitale vecchie pellicole 8mm di mio padre Alberto: un lavoro che mi ero ripromesso di fare arrivato alla pensione e poi sempre rimandato. Fantastico rivedere i miei genitori, nonni e fratelli negli Anni 60. Ci sono anche le gare di judo e karate, le partenze di Cristina per i campionati del mondo ecc. Siccome a quel tempo le pellicole si portavano a sviluppare, mio padre per finire il metraggio ha ripreso anche molti scorci di Asti, in particolare il Duomo in tutte le stagioni.

E poi la musica, tanta e di buona qualità. Scorpacciate di rock progressive che ha accompagnato la mia vita negli Anni 70 e la musica country, la mia passione. Il nuovo appartamento fortunatamente è abbastanza grande e ci siamo divisi le stanze per le attività individuali, Giuliana, la mia dolce metà, occupata con i suoi studenti e la didattica a distanza, Cristiano, il secondogenito, chiuso in camera costantemente collegato con le lezioni on line del Politecnico di Torino. Poi la videochiamata serale con Marco, il nostro primogenito, medico specializzando in ospedale a Pavia, che non vediamo da due mesi ma sappiamo essere in ottima salute.

Non posso dire che la quarantena sia stata traumatica. Qualche disagio è stato inevitabile ma, tutto sommato, sopportabile. Credo che questa esperienza cambierà la nostra esistenza negli anni a venire e non sono certo che sarà peggio di quanto fosse prima della pandemia. Buona vita a tutti noi.

 

DIARIO DI BORDO DI UN PRESIDE

Franco Calcagno

Preside Istituto Tecnico Artom e Istituto Castigliano, 62 anni

 

Era il 21 febbraio, un venerdì, e si iniziava a parlare seriamente di un virus proveniente dalla Cina. Sulle prime non ho dato molto importanza alla faccenda. Poi l’ansia cresce: decine di telefonate a colleghi, assessori, sindaci, per capire. Si chiude, si apre… che si fa? Ecco, “il che si fa” è la chiave di lettura di questi tre mesi. Per me, per gli studenti, per le famiglie e per i docenti.

Insomma un gran caos. Impreparati! Ho passato giorni interi a scrivere mail e a telefonare. Che si fa? Sospensione delle attività… tutti a casa… per un giorno, una settimana, un mese? La scuola svuotata. Solo qualche bidello e qualche assistente, in giro un silenzio irreale. Marzo. La prima settimana è passata ancora senza capire. Si aspetta. Poi diventa chiaro: non si rientra… Che si fa? Si riparte, come un bravo esercito si organizza la controffensiva, e qui viene il bello.

Sì, il bello, stupendo, sorprendente momento. I docenti, tutti, si attivano, vogliono fare, propongono, desiderano incontrare i ragazzi. Chi non era informatizzato nel giro di una settimana lo diventa e dalla metà di marzo è un fiorire di DaD, mail, meet, class room, calendar condivisi. Il mondo della scuola si è mosso come mai aveva fatto prima. Lezioni a distanza, si fa a gara per fare, imparare, scrivere, connettersi. Devo frenare e coordinare i docenti per evitare un eccesso di attività. Ma verso fine marzo un altro sottile “nemico” si avvicina, silenzioso: i gruppi di Whatsapp. Si moltiplicano, arrivano decine, centinaia di messaggi, ciao, grazie, a riciao e a rigrazie. Basta! Aiuto! Lo chiamano agile, è il nuovo lavoro che avanza.

Da casa non avevamo mai provato, non facciamoci impressionare, non è per nulla agile. Ti toglie tutto, il tempo, il piacere di un caffè con il collega, il pettegolezzo, la campanella di fine lezione, il voto, le interrogazioni, le prove in classe. Quel sottile piacere perverso e condiviso con i ragazzi della tensione prima della prova. Il virus ci ha tolto molto di più che qualche ora di lezione. Ci ha tolto un pezzo di vita sociale. Lo rivogliamo indietro! Aprile. La “grande rivelazione” da Roma: tutti promossi! Un sospiro di sollievo attraversa il Bel Paese. Milioni di studenti si sentono in vacanza e i docenti restano sorpresi (meglio non scrivere quel che pensano e dicono). Alcuni studenti si allenano per le olimpiadi del divano e del “far nulla”, moltissimi capiscono e s’impegnano ugualmente. Meno male!

Fine Aprile. I primi resoconti, i primi voti di questo strano periodo. Ci inventiamo una serie di strumenti informatici per sopperire a tutto quello che non avevamo più: le assenze, i voti in presenza, le note sul registro. Ehi che bello far lezione con la possibilità di escludere il microfono di chi disturba! Potessimo farlo in classe.

Primi giorni di maggio. Siamo stanchi. Abbiamo passato le vacanze di Pasqua. Passo le giornate in ufficio preparando documenti. Mi sono chiesto come poter raccogliere le esigenze dei ragazzi e dei docenti e allora con qualche “form” (questionario on line), le risposte arrivavano numerose e tutte serie, nessun commento fuori posto, anche da coloro che a scuola erano nel mio ufficio più che in classe (sapete come funziona!?… ti mando dal Preside!!! ecco appunto). Qualche criticità con i voti è emersa, qualche presunta ingiustizia, qualche segnalazione da parte di studenti e famiglie. Basta parlare, spiegare, ragionare, argomentare e le cose giuste si capiscono. Le ingiuste si cambiano.

Fine maggio. Siamo agli sgoccioli di un anno scolastico pazzo e scombinato. Fra poco gli scrutini finali. Senza bocciature, ma se ci sono, i 5 o i 4 restano in pagella. Forse riesco a organizzare un saluto almeno per i maturandi. Loro si allontanano dalla nostra comunità e li ritroveremo grandi fra qualche anno magari con i figli a iscriversi in prima classe. Intanto dobbiamo chiudere un progetto di cittadinanza attiva che ha avuto buoni riscontri. Un convegno in pillole, 60 minuti per relatore su varie tematiche, dalla pubblica amministrazione alla green economy.

Decine di partecipanti e non solo studenti. Siamo a giugno. Il mese delle pagelle, dei resoconti, degli esami. Dobbiamo pensare alla sicurezza, a preparare il colloquio, le aule. Il gel lo abbiamo fatto noi in laboratorio, l’abbiamo chiamato “Artomina”, i bidelli igienizzano di continuo e si misurano le distanze fra i banchi. Devo pensare a settembre, far tesoro dell’esperienza passata, tenere il buono, modificare il meno buono. Organizzare gli spazi per accogliere i ragazzi e i docenti in sicurezza e serenità. Acquistare i PC che mancano e cambiare le videocamere più vecchie. Più banchi e sedie nuovi. Così ripartiremo.

 

LE VISITE AL TELEFONO DEL MEDICO DI BASE

Irene Novarese

Medico di base del distretto di Montechiaro

 

Purtroppo ho avuto un decesso a causa del Covid 19 tra le mie pazienti e molti sono risultati i positivi, soprattutto quelli che erano ospiti delle Case di riposo. Subito abbiamo rassicurato i nostri pazienti dicendo loro: si tratta di una banale influenza, il focolaio è in Oriente, sono a rischio di contagio solo le persone provenienti da quelle aree. Ma ben presto ci si è ricreduti: i dati sempre più allarmanti dell’Istituto Superiore di Sanità e dell’Organizzazione mondiale della Sanità e le notizie dei media ci hanno indotto a modificare i nostri messaggi e il nostro modo di intervenire.

Sono state imposte nuove regole: accesso all’ambulatorio solo su appuntamento, in sala d’attesa non più di due persone ben distanziate, prescrizione di farmaci on line o utilizzando le buche da lettere degli ambulatori. Per i miei pazienti, la maggior parte anziani, non è stato facile adattarsi. Loro sono abituati ad andare dal dutur senza troppi preavvisi. Ci hanno detto di segnalare i pazienti con tosse e febbre alle unità che dovevano gestire le visita a domicilio per l’esecuzione del tampone. Ci sono state molte difficoltà e ritardi nell’ottenere l’intervento di questi servizi preposti, ma in seguito c’è stata più efficienza e collaborazione.

Inizialmente noi medici di base, che abbiamo un ruolo fondamentale nel monitoraggio di ogni epidemia, ci siamo sentiti tagliati fuori, senza strumenti e senza reali protezioni individuali. Abbiamo mantenuto un contatto telefonico con i pazienti malati e mai come in questo periodo siamo stati costantemente al telefono. Abbiamo imparato a visitare anche così, conoscendo già i nostri pazienti, dando loro consigli, tranquillizzandoli. Come in ogni contesto il ritorno alla normalità sarà lento e prudente, ma è necessario ricominciare a svolgere l’attività clinica e prescrivere i controlli strumentali soprattutto sui pazienti con patologie croniche, che per oltre due mesi non hanno potuto accedere allo specialista. Un’insidia per il futuro della medicina del territorio è l’alta età media dei medici di medicina generale che comporterà entro cinque anni il pensionamento di gran parte di essi (compresa la sottoscritta) con rischio di indebolimento dell’assistenza. Speriamo e confidiamo che la parte pubblica incentivi in tutti i modi l’ingresso nella nostra professione di giovani e che la “lezione” del Coronavirus non sia dimenticata.

 

CACCIA GROSSA ALL’AMUCHINA

Patrizia Masseroni

Farmacista, Asti,

 

Altro che “restate a casa”. Noi, come tutte le altre farmacie, non abbiamo mai chiuso. Siamo stati considerati servizi essenziali e lo siamo, soprattutto in circostanze come questa. I nostri telefoni non hanno mai smesso di suonare: avete mascherine? avete guanti? alcol? amuchina, gel e via disiffettando. Nelle prime settimane abbiamo dovuto rispondere più no che sì. È stata una caccia ai rifornimenti con la cassetta di posta elettronica della farmacia che più passavano i giorni e più era invasada mail di sedicenti ditte specializzate pronte a venderci qualunque cosa a prezzi da speculazione.

Non è stato facile stare tutti i giorni per otto ore e passa, a turno, dietro il bancone protetti dal plexiglass con mascherina, guanti e occhiali, con l’ozonizzatore acceso ogni notte per sanificare i locali. Non c’era la voglia di scherzare, di scambiare due parole con i clienti più affezionati. Il relax a casa tra il verde, tra un turno e l’altro, è diventato ancora più prezioso. Per la prima volta, oltre al giardino, in famiglia abbiamo piantato un rettangolo di orto. E ho scoperto che i fiori di zucchina sono belli come quelli delle ortensie.

 

130 PASSI IN CORTILE PER VENTI VOLTE AL GIORNO

Piero Fassi

Presidente onorario Associazione ristoratori astigiani, 82 anni

 

Questa quarantena suo malgrado ci insegnerà tante cose, ci cambierà il modo di pensare la vita. Io e Pina in questi 60 anni che viviamo sotto lo stesso tetto, ora , da “prigionieri forzati” in casa nostra, stiamo capendo il valore di essa. Eravamo a casa per 42 anni da ristoratori, solo dalla mezzanotte inoltrata alle 6,30 del mattino. Oggi, per 24 ore senza uscire, ci aiuta il pensiero di quanto abbiamo desiderato tante volte: starsene in casa per due giorni senza telefono, senza appuntamenti, senza gli occhi puntati sull’orologio, senza usare l’auto. Quando potremo di nuovo uscire, rimpiangeremo un po’, nostro malgrado, questa forzata clausura.

In queste giornate di ritiro grazie alla primavera curiamo il giardino, un po’ di televisione (ma non tanta), leggiamo giornali, ci scambiamo pareri. Abbiamo un grande cortile: girando in tondo ho contato 130 passi. Faccio 20 giri al giorno e mi mette la coscienza a posto per la glicemia. Pina per pranzo mi sorprende con buoni piatti che mi ricordano con nostalgia quelli dei menu del nostro ristorante Gener Neuv che l’hanno reso famoso a mezzo mondo (ma non succede tutti i giorni). Io occupo tanto tempo al computer, scrivo e disegno. Continuo a scrivere ricordi di vita vissuta con considerazioni sull’attuale situazione, abbozzando un mio secondo libro Cartoline.

Al riguardo penso che sarebbe bello in questi giorni che ci costringono a casa, che genitori e nonni insieme, tra le mura domestiche, diventassero protagonisti nel raccontare fatti del loro passato ai figli o ai nipoti. Quanto si verrebbe conoscere e imparare dalle anziane esperienze! I giovani conoscerebbero fatti della loro famiglia che difficilmente potranno conoscere da altre fonti, raccontati magari un po’ in dialetto. Per il resto, questo momento così tragico ci insegnerà ad accontentarci di non più mangiare una torta intera, ma apprezzarne solo una sottile fetta. Accontentarci di un viaggio a vedere Torino o altre città vicine. Passeggiare e conoscere a fondo la propria. Quando ci allenteranno il guinzaglio, dovremo correre più di prima. Rimpiangendo (ripeto) un pochino questa forzata prigionia.

 

LA RESILIENZA AIUTA A STARE A GALLA

Ezio Cissello

medico ortopedico, 66 anni

 

Difficile descrivere sensazioni, esprimere considerazioni in merito a una situazione sulla quale tutto è già stato scritto. All’inizio mi son sentito pervaso dalla novità, anche se grottesca, permeata, perché no, dall’entusiasmo e dalla commozione dell’‘’Andrà tutto bene”.

Mi sono organizzato la giornata: ho messo la bici sui rulli, ho intensificato gli esercizi con il sax, ho sistemato i libri che da tempo prendevano polvere nella mia libreria, ho dedicato all’informazione più tempo del solito, ho addirittura sentito conoscenti che in tempi normali non avrei contattato. Saltuariamente sono uscito per lavoro. Con il passar del tempo tutto ciò ha perso valore e ho dovuto intensificare gli sforzi per stare a galla, ho compreso meglio il significato della “resilienza”: la capacità del salice di piegarsi alla tormenta senza cedere, il restituire l’energia di ciò che ti attacca trasformandola magari in entusiasmo e ottimismo da regalare a chi ritieni più fragile.

Non so come ne usciremo, non penso meglio di prima. Credo poco nella nostra memoria storica che, sola, potrebbe evitare di farci ricadere negli stessi errori. In ogni caso non esaltiamoci: il mondo continuerà nonostante noi.

 

FINITI PER DUE VOLTE VICINI AL VIRUS

Laura Mengozzi

Insegnante in pensione, 70 anni

 

Il virus, per ora, non ci ha voluti. Per ben due volte mio marito ed io abbiamo rischiato un incontro ravvicinato con il virus. Il 19 febbraio siamo stati a Milano per una visita di controllo in ospedale: treno, taxi, stazione centrale, bar, tutto affollato: nella normalità. Il giorno dopo, 20 febbraio, è scoppiato il caso Lombardia. Secondo rischio: il 5 marzo sono venuta a contatto con un malato. Ho contattato l’Asl, mi hanno detto di stare tranquilla in casa, che mi avrebbero monitorata telefonicamente: ha febbre, tosse, è stanca? No. Ci risentiamo domani. Per fortuna è andato tutto bene. Poi in casa con l’ossessione di disinfettare sempre tutto, in attesa di tempi migliori.

 

IL BUEN RETIRO NEL PAESINO LIGURE

Betti Zambruno

Cantante Alessandrina d’origine, astigiana da trentasei anni.

 

Anche mio marito è “foresto”, piacentino ma ormai di casa in questo Monferrato dove non smette di stupirsi per vigne e colline. Arriva la pandemia e noi ci ritroviamo non ad Asti, non ad Alessandria, non a Piacenza, dove si articola la nostra vita abituale ma in un nuovo luogo della nostra esistenza: “ai confini dell’Impero” come definisce un nostro amico ligure l’Imperiese.

Eravamo là, nel nostro buen retiro, sulle colline di Civezza, un paese antico che si allunga come un gregge su una roccia a guardare il mare. E noi con lui. Non potevamo tornare ad Asti (o non volevamo?). Da un giorno all’altro l’autostrada che vedo, lontana, dal balcone si è svuotata. Solo camion, uno ogni tanto. Vicini solidali e simpatici, parole e canti dai balconi.

A piedi, dalla mia casa alla farmacia, a recuperare i farmaci necessari che arrivavano prescritti via mail. A piedi, dalla mia casa alla bottega dove la Simona mascherata mi ha fatto conoscere il suo olio, la stroscia (la torta di Pietrabruna); dove trovavo carciofi croccanti e profumatissimi e zucchine di un verde chiarissimo. In auto, nel comune confinante, per andare al supermercato: e lì qualche bel pescetto ogni tanto lo pescavi. Ma al mare no.

Non si poteva più andare. La splendida pista ciclabile deserta. Lei sì che poteva colloquiare in santa pace col mare che la lambisce. Poi l’apertura graduale. E di nuovo il mare vicino, le esplorazioni in mezzo a ulivi, pini e ginestre. Poi il ritorno ad Asti, a recuperare la normalità, le incombenze domestiche e burocratiche; a ripensare le ansie e le preoccupazioni che, pur guardando il mare, ho provato per chi era distante, per chi non c’è più.

 

L’ABBRACCIO VIETATO A MIO PADRE

Giovanna Quaglia

Segreteria di staff, Regione Piemonte

 

Martedì 3 marzo ore 21 Prefettura di Torino: si sta decidendo di rinviare la partita Juve-Milan perché non si potrebbero garantire le misure di sicurezza anti Covid. Da casa mi chiamano perché papà sta male. In un attimo la mia vita come quella di tutti entra in questo tunnel fatto di quarantena, mascherine, distanziamento sociale. E quello che prima era naturale, un sorriso, un abbraccio, una stretta di mano diventano gesti proibiti. La mia vita travolta dalla malattia di mio papà e tutti travolti dalla quarantena del Paese. Ho il ricordo della carezza e della consolazione che è stata la primavera, giornate calde dolci con la vigna e i peschi che sbocciavano.

Ognuno di noi ha trovato le priorità nella sua vita: le mie sono un prato, il mio bosco, il mio amore e il mio cane. MALAINFORMAZIONE MEGLIO KONA Mario Alfani Ex presidente Ordine dei medici di Asti, 72 anni Per fortuna c’era Kona. È la nostra cucciola di pastore svizzero, 10 mesi, 35 chili di argento vivo e muscoli guizzanti: al suo non sempre agevole controllo devo qualche chilo in meno e parecchie boccate d’aria in più. Avere un cane è stato una risorsa preziosa in una quarantena lunga e noiosa, appesantita spesso da imposizioni davvero poco convincenti e annegata nell’immancabile magma di retorica e di melassa: che ci faccia diventare migliori non credo proprio, che all’alba vinceremo ho altrettanti dubbi, che andrà tutto bene non ce la faccio a condividerlo.

Magari sarà così per qualcuno, sicuramente non per tutti, e temo di non sbagliare. Inattività forzata, logorante; da pensionato ovvia disponibilità a rientrare in ospedale nel periodo in cui c’era più bisogno, ma di cardiologi pare non ci sia stata necessità. Mi son detto: non è così difficile far passare il tempo: qualcosa da fare si trova sempre. All’inizio pensavo, se non altro, di sfruttare l’occasione per affrontare certe cose sospese da sempre nel limbo nebuloso del “poi ci penserò”: prendo atto che dovrò pensarci ancora, si vede che non era il momento.

Ho inventato e ricostituito settori di libreria, girato, spostato e rispostato blocchi di libri, riesumato opere dimenticate così vetuste da essere tornate nuovamente leggibili. E poi vecchi testi di medicina, datati e pateticamente obsoleti, ormai assurti al rango di “libri souvenir” che fanno parte della mia storia personale, non posso seppellirli in un sottotetto e quindi restano lì a tenere posto. Non ho concluso granché, ma un po’ di tempo non è passato poi così male. Così pure nelle incursioni nel mare di fotografie, lì da sempre, con l’intento di finalmente classificarle e ordinarle. E per le foto peggio ancora che con i libri: le tiro fuori e senza riguardo mi travolge la gradevole torma di ricordi, di sensazioni, di storie, quelle reali e anche le altre.

Il tempo è lungo ma passa veloce, anche il mucchio di foto è ancora lì quasi come prima, ma ho deciso che va bene lo stesso. TV, giornali, social: quanto tempo ho sprecato! Ne ha fatto le spese la credibilità che riservavo alla scienza, perlomeno a una certa scienza che in questa circostanza si è riservata la parte di vittima entusiasta di strumentalizzazione politica e di interessi estranei: alla ribalta evidenti narcisismi, troppi che sanno tutto di tutto e che quindi non dicono niente, bombardamento a tappeto di dati e di notizie che dimostrano tutto e il contrario di tutto, criminalizzazione preventiva di chi si azzardasse a dubitare, proposizione di esempi edificanti tipo persone che cantano sul balcone ecc. In definitiva, mentre se ne andava la parte più bella della primavera, si è passato il tempo ad aspettare che finisse il tempo di aspettare.

 

CANTANDO “AZZURRO” SUL TERRAZZO

Ezio Mosso

Ex direttore Cassa Edile e giornalista, 71 anni

 

Mai avrei pensato di dover affrontare, non la guerra del bisnonno in Libia, dei nonni sull’Adamello e a Vittorio Veneto, di papà in Jugoslavia e nei lager nazisti, ma una nemica più subdola e invisibile, silenziosamente mortifera come la pandemia. Stavolta a morire sono soprattutto gli anziani e non i soldati. Giovedì 5 marzo sono a Malpensa ad attendere mio figlio dal Kenia: l’aeroporto è già spettrale e deserto e Jacopo mi conferma che il suo è l’ultimo volo diretto da Mombasa.

Poi inizia la clausura, io con mia moglie in centro ad Asti, lui con la sua e i cani in campagna, in contatto come tutti gli italiani solo grazie ai video. Giornate uguali e per fortuna non da depressione grazie all’ottimismo inculcato da mio padre per cui «dopo i lager a 23 anni il resto della vita ritrovata è tutta in discesa».

Fra televisione, social, giornali e bollettini quotidiani sul virus carogna si cerca di rompere l’isolamento uscendo… sulla terrazza da cui si intonano coralmente l’inno di Mameli e, soprattutto per noi astigiani, Azzurro. La cantiamo a 200 metri dal giardino che ha ispirato Conte con l’oleandro e le rose innaffiate che ci sono ancora, mentre il baobab, nella realtà il pino tagliato anni fa, e il cane Leone non ci sono più. Ma l’emozione tocca l’apice con la lirica pro-Bergamo martoriata Rinascerò Rinascerai che più volte al giorno accarezza il cuore, ancor più quando un amico al telefono mi conferma di aver visto i camion militari con le salme che nei telegiornali lasciavano la Lombardia dirigersi inequivocabilmente verso il Tempio crematorio di Asti…

Così con ancor maggiore energia mi tuffo nella diffusione e nel monitoraggio delle donazioni dei club di servizio astigiani a favore della Terapia Intensiva dell’Ospedale, idealmente vicini agli eroi che cercano di salvarci la vita. Ma non sempre, purtroppo, ci riescono: così i lutti di amici e conoscenti sono ogni giorno tanti, troppi. Fra alcuni coetanei e varia umanità mi addolorano in particolare l’ex campione italiano di sci in discesa di Gressoney Davide David, padre dello sfortunato Leonardo, e ad Asti l’ex senatore Gianni Rabino e il panathleta per eccellenza Michele Serra. Per tutti loro ci vorranno più di 200 alberi nel “Bosco degli Astigiani” a ricordo perpetuo di chi non ha trovato parole, carezze ed esequie normali nel commiato da questa vita.

 

HO DIPINTO I DRAPPI DEL PALIO

Ottavio Coffano

Pittore, docente di scenografia, 77 anni

L’isolamento domiciliare non è così difficile da affrontare se non ci sono altri problemi. È terribile per chi deve cessare la sua attività e non può prevedere il futuro. Io poi sono fortunato perché, davanti a una tela, con un pennello in mano, sono quasi felice. Inoltre, ho avuto il tempo per dipingere i labari del Palio che forse non correrà e, nel farlo, ricordi, ambienti, personaggi si sono affollati nella mia mente.

Per la prima edizione del 1967 avevo dipinto un enorme fondale a coprire il retro della tribuna principale e realizzato il Carroccio, rivestendo un carro agricolo con lamiere di metalli vari lavorati a sbalzo. Furono giorni che la gioventù riempiva di speranza e vitalità.

Oggi nelle forme e nella figurazione dei drappi ho cercato di ritrovare quell’atmosfera. Le giornate ripetitive, spesso noiose, malgrado tutti i moderni mezzi di comunicazione, mi hanno spinto a ricorrere sempre più spesso alla lettura, alternata alla pittura e alla televisione. Dopo tanti anni, ho ricominciato a leggere i romanzi. Questa lettura mi ha aiutato a non cadere nel recinto autoreferenziale del ricordo, della narcisistica riproposizione del vissuto, perché la noia si nutre di se stessa, di parole che attingono a emozioni ormai lontane e il “ricordo” è spesso sinonimo di “vecchiaia”. Del resto, oggi la comunicazione quotidiana, attraverso i mezzi tecnologici, è sempre più una gabbia inespressiva, sintetica e ripetitiva.

Il linguaggio non esprime più pulsioni vitali, entra in una cornice claustrofobica: pura comunicazione di necessità. In questi giorni, ho vissuto un sentimento e una situazione onnipresente nella letteratura, nel cinema e nel teatro della mia gioventù: l’attesa. Ricordate le opere di Beckett, il cantore della tragicommedia umana, di Ionesco, l’acuto rivelatore della fragilità del linguaggio? Ricordate Il deserto dei tartari di Buzzati? Accadrà anche nei nostri giorni? Aspettiamo e speriamo, impariamo a includere l’ansia nel piacere estetico e a escludere le tante e troppe domande, ritrovando la serenità necessaria nel vuoto di queste ore. Auguri a tutti.

 

CACCA DI PICCIONE

Stefano Ragusa Psicologo, tra Torino e Tigliole, 29 anni

 

Come un piccione…

in attesa.

Il tempo scandito

da una cacca e l’altra.

Una balaustra a sostenermi,

contemplo i balconi di fronte in cerca di un segnale.

Il desiderio è sospeso…

Attenti!

In lontananza un’ombra,

si accende la speranza

di un contatto…

niente di fatto,

l’illusione si è rintanata.

E io sto qua…

appollaiato,

in cerca di una briciola di umanità.

 

ECCO COME MIO NONNO SCONFISSE LA SPAGNOLA

Marisa Novelli

Piovà Massaia, biografa del Cardinal Massaja, 78 anni

 

Mi sono tornati in mente i racconti di mio nonno materno di Piovà Massaja che ascoltavo nelle serate invernali nella stalla della grande cascina, alla luce di una lampadina da 25 candele. Nonno Lorenzo, detto Cin (cugino in terza del Cardinal Massaja), iniziava a raccontare del suo Canadà dove era emigrato a tagliar alberi per le rotaie delle prime ferrovie.

Il nonno contava di rimanerci per sempre in quella terra che amava, invece con la Grande Guerra fu uno dei 300.000 italiani richiamati a difendere la Patria e si trovò addosso la divisa di fante in trincea sul Carso. Come diceva lui, nei suoi racconti, un bel mattino arrivò la bomba giusta che fece una spaventosa carneficina.

Anche lui fu colpito e i suoi piedi vennero maciullati. Un anno e più in ospedale tra atroci sofferenze poi finalmente tornò a casa nella cascina di Piovà come grande mutilato di guerra. Dopo pochissime settimane sopraggiunse una febbre altissima: 42° e oltre. Era la Spagnola, una brutta, cattiva influenza, in paese c’erano già dei morti. Una notte nonno Lorenzo sentì la febbre altissima.

Con la forza della disperazione con le sole braccia si rotolò in cantina. Aveva in tasca una grossa testa d’aglio: la masticò tutta e bevve un pintone di buon vino invecchiato. Credette di morire, gli sembrò di vedere dei fantasmi e svenne. Al mattino fu ritrovato e due robusti vicini di cascina lo riportarono nel suo povero letto: quando si svegliò da quel sonno comatoso, la febbre non c’era più. Il nonno era guarito… visse fino a ottant’anni raccontando sempre di come aveva sconfitto la Spagnola.

Io invece ricordo “l’influenza asiatica” scoppiata a metà degli Anni’50: andavo a scuola, allora era tutto diverso, non c’era questo martellamento di radio, televisioni, giornali, ricordo che si parlava in casa di morti che si seppellivano degnamente con pianti, preghiere e rito religioso. Il mio pensiero corre ora al grande Cardinal Guglielmo Massaja. Anche lui visse il dramma delle epidemie. In Africa giunto fra i suoi Galla Oromo, c’era il vaiolo e dal pus di un vitello infetto, con un ago da materassaio trovò il modo di vaccinare la popolazione delle tribù.

 

ANSIE DA INFERMIERA E DA MAMMA

Alessandra Romagnolo

infermiera, 55 anni

 

Quando, il 21 febbraio, una mia collega mi disse: «Hai sentito? C’è un caso di Covid a Codogno…», un brivido mi è sceso lungo la schiena. Faccio l’infermiera al servizio tossicodipendenze. Il giorno dopo era sabato, una bella giornata e con mio marito avevamo deciso una gita al mare. Non immaginavamo certo che sarebbe stata l’ultima gita per un bel po’ di tempo.

Da allora è storia che conosciamo tutti. Il mio lavoro da infermiera è cambiato. Non lavorando in un reparto ospedaliero, non ho visto da vicino quello che hanno visto i miei colleghi in questi mesi. Il contatto con i pazienti del nostro ambulatorio Sert è diventato via via più distante, la paura del contagio, sia tra colleghi che tra operatore e paziente, era tangibile e l’abbiamo dovuta gestire tutti come abbiamo saputo, ognuno di noi con i suoi fantasmi e le paure.

A casa, con mio marito, ci siamo tenuti compagnia, abbiamo fatto lunghe chiacchierate, cucinato insieme, guardato film e condiviso momenti di timore per mio figlio che vive da solo a Maranello e lavora alla Ferrari. In quei primi giorni l’Emilia Romagna aveva alti numeri di contagi, il timore che potesse anche lui ammalarsi e il senso di impotenza per non potergli essere vicina nel caso fosse successo, era quasi soffocante. Pratico da anni la meditazione giornalmente ed essa mi è stata di grande aiuto in questo periodo, come in altri della mia vita.

Per fortuna siamo sempre stati tutti bene, anche i nostri genitori anziani, ma dobbiamo ancora tenere alta la guardia. C’è speranza e timore nello stesso tempo. Auguro a tutti che, terminata questa esperienza, ci si ritrovi più forti nell’affrontare gli imprevisti della vita e più solidali nei confronti del prossimo e dell’ambiente in cui viviamo. Desidero esprimere un pensiero di cordoglio per tutte le vittime di questa pandemia e a tutte le loro famiglie.

 

DIPINTO PER UNA MOSTRA CHE NON SO QUANDO SARA’

Raffaele Jachetti

pittore, Soglio, 68 anni

L’ho dipinto in queste settimane nella mia casa studio di Soglio. Fa parte di una mostra già prevista che è saltata. Non ha titolo.

 

POMERIGGI A TEATRO GRAZIE A RAI 5

Pier Giorgio Bricchi

Presidente Utea, 71 anni

 

Durante la cosiddetta quarantena, avevo in programma di dedicarmi ad alcuni lavori che avevo lasciato in sospeso. Ma tutto è saltato in virtù di Rai 5 che, nei lunghi pomeriggi domestici, ha trasmesso le registrazioni di alcuni spettacoli teatrali che giacevano negli archivi della Rai stessa.

Ho così rivisto lo storico Pirandello della “Compagnia dei Giovani”. Grazie a Romolo Valli, Rossella Falk e a Giorgio De Lullo, ho rivisto i Sei personaggi in cerca d’autore, Così è (se vi pare), Il gioco delle parti. Due grandi, Vittorio Gassman e Salvo Randone, sono stati i protagonisti di tre capolavori di Shakespeare: Amleto, Otello e Re Lear, mentre in Romeo e Giulietta, registrato nel 1977 al Teatro Romano di Verona, ho rivisto con piacere gli allora giovanissimi Ottavia Piccolo e Gabriele Lavia.

Sempre di Shakespeare, Rai 5 ha presentato due dei quattro drammi di argomento romano del drammaturgo inglese: Giulio Cesare e Antonio e Cleopatra (il secondo interpretato da Valeria Valeri ed Enrico Maria Salerno). Naturalmente non poteva mancare Carlo Goldoni,del quale, oltre a commedie più note come La locandiera (con Carla Gravina), La bottega del caffè (nella magistrale interpretazione di Tino Buazzelli) e La famiglia dell’antiquario (con Gianrico Tedeschi), sono andate in onda alcune rarità come il dittico di Bettina (prima Putta onorata e poi Buona moglie), e la rarissima trilogia degli “irrequieti” amori di Zelinda e Lindoro che Goldoni scrisse in Francia, e che non mi aspettavo mai più di vedere.

Sono state inoltre riproposte tre “pochade” di Feydeau tra cui la divertentissima Il sarto per signora, interpretata da uno spassoso Alberto Lionello (attore sommo, oggi sconosciuto alle giovani generazioni come, credo, molti artisti precedentemente citati). Ma la sorpresa più bella me l’ha riservata Eduardo De Filippo, del quale sono state presentate quattro interpretazioni delle commedie del di lui padre (il leggendario Eduardo Scarpetta). Queste commedie che conoscevo solo attraverso i film di Totò, sono state per me una vera rivelazione e le ho trovate godibilissime.

Il fatto che, accanto a testi classici, Rai 5 abbia presentato alcuni testi contemporanei (per esempio la Lehman trilogy di Stefano Massini o L’oscura immensità della morte di Massimo Carlotto) mi ha consentito di verificare le trasformazioni e le innovazioni avvenute nel teatro italiano negli ultimi decenni. I miei lavori hanno continuato a languire sulla scrivania (tranne le “conversazioni operistiche” in onda sul mio canale youtube) ma un appassionato di teatro non poteva utilizzare in modo migliore il periodo di forzata inattività.

 

DI NOTTE HO SCRITTO UNA CANZONE D’AMORE

Alfredo Gallo

paroliere, musicista

 

Di questa quarantena non dimenticherò la notte che portava al Primo Maggio.

Una notte di musica, con una premessa. Fino al 2012 ho collaborato con Rai International; oggi in pensione, come volontariato, mi onoro di fare parte della Comunità radiotelevisiva Italiani nel mondo. Maurizio Castellazzo, astigiano, figlio di quel Carlo bravo cantante dell’orchestra Angelini, è un musicista, autore e compositore. Ha lavorato al Bagaglino di Roma con la compagnia di Pippo Franco e Oreste Lionello.

Collaboriamo per un discografico svizzero. Maurizio sa del mio impegno notturno, per via dei fusi orari, 3 volte alla settimana in collegamento con le radio di lingua italiana in Australia. Anch’egli amante della notte, mi manda una traccia musicale alle due. Terminato il collegamento con la radio, lo chiamo e ascoltiamo insieme la traccia. Mi chiede un testo. Mi sento ispirato.

Alle cinque gli mando quanto ho scritto e ci scambiamo anche un selfie. È un canzone d’amore. Si intitola

Café Folies. Tu sei bella, si! / lasciami inventare, /nella fantasia/ ti ho fatta mia, /niente di speciale, lasciami inventare, /mi basta cosi. Il vento ti colora/mi fa immaginare/mille cose, e poi mi fermo a ragionare/lasciami inventare (cosa posso regalarti . inciso Occhiali colorati/ti rendono solare/immagine d’incanto sei. Cerco d’ingabbiarti /per non lasciarti andare,/resta ancora un attimo, /l’immenso è per noi Tu sei bella, si!/lasciami inventare,/nella fantasia ti ho fatta mia,/niente di speciale,/lasciami inventare, mi basta cosi .

 

VINCERE IL VIRUS CON LA DOLCEZZA

Daniela Allosio

titolare laboratorio di pasticceria Daniella, Asti

 

Al virus: sei entrato brutalmente nella nostra vita e ci hai costretto a regole che hanno sconvolto il nostro vivere. Ti parlo da donna e imprenditrice che per riuscire ha dovuto lavorare sodo e sacrificare affetti e svaghi, imparando dalla vita che con determinazione e coraggio qualsiasi difficoltà si affronta e si risolve. Di fronte alla tua invisibilità questo coraggio vacilla e s’insinua la paura di non essere all’altezza di batterti.

Per me vincere significa mantenere attiva ed efficiente l’azienda e conservare l’aiuto dei miei preziosi collaboratori. È strano, ma devo ringraziarti, ci voleva un mostro come te per apprezzare il tempo e farci capire che la vita non è solo moneta ma anche molto altro. Ti sconfiggeremo. Io farò la mia parte perché nella vita di tutti c’è bisogno di dolcezza.

 

NOSTALGIA DEL ROSET DI CASTELL’ALFERO

Viola Invernizzi
Project manager, Torino, 33 anni

 

Il “Roseto della Sorpresa” di Castell’Alfero, costruito e curato da mio nonno, Piero Amerio, da oltre quarant’anni, per me è sempre stato prima di tutto “la casa in campagna”, dove l’idea di casa si estende oltre le mura della costruzione: le stanze proseguono nel prato, lungo il fianco della collina, fino al bosco, tra le rose e le altre piante, spontanee o coltivate.

Stando in città, sento spesso la mancanza di questa sensazione di libertà e apertura, una nostalgia che durante la quarantena nei nostri appartamenti non poteva che aumentare. Un luogo che ho sempre sentito vicino, è diventato lontanissimo, proprio perché non sapevo quando sarei potuta tornarci.

Avrei voluto far sapere alla quercia, che dalla mia nascita fa da sentinella al limitare del bosco, che sarei tornata, che non mi ero dimenticata della primavera, il periodo di massimo splendore e quindi anche di massima frequentazione (umana) del Roseto. Per fortuna il giardino è stato curato, anche in questi mesi, da una persona di Castell’Alfero. Ma era frustrante dover stare in casa e sapere che i colori erano tornati a dominare il paesaggio, che le rose stavano fiorendo e sfiorendo.

La mia quarantena è stata, rispetto ad altre situazioni, decisamente privilegiata (grazie alla
vicinanza del mio compagno, al continuo contatto, anche se da remoto, con amici e parenti, al lavoro che ho potuto continuare da casa). Eppure mi sono sentita davvero liberata solo quando, a fine maggio, sono finalmente riuscita a tornare.

 

RITROVARE IL TEMPO DI PENSARE

Gian Paolo Squassino
Veterinario, 70 anni

 

Non mi era mai capitato, finora, di trascorrere due mesi consecutivi a casa e di poter apprezzare le gioie e i piaceri delle mattinate e dei pomeriggi trascorsi a fare piccoli lavori (per i quali, onestamente, sono negato) e utilizzare una considerevole parte di tempo per pensare.

Pensare è stato il mio passatempo prediletto: non avevo mai abbandonato, prima d’ora, la frenesia del lavoro concedendomi il piacere di sedermi in un prato a guardare il cielo e le nuvole che si rincorrono, dando libero sfogo ai pensieri.

L’avvento tragico di questa epidemia, per molti purtroppo funesta, ha causato danni enormi, sia economici, sia sanitari, sia morali ma, per contro, ha creato anche una condizione che io reputo positiva. Per quel che mi riguarda, mi ha consentito di fare una
considerazione sull’esistenza dell’uomo e sulla sua funzione di abitante del pianeta Terra.

Se ci guardiamo indietro, scopriamo di aver fatto disastri inimmaginabili contro il pianeta che ci ospita. E lui ci ha lanciato un avvertimento: l’epidemia, il signor Coronavirus, ci ha bruscamente riportati alla realtà, ricordandoci che basta un corpuscolo di 120 nanometri
per metterci in seria difficoltà. Nello stesso tempo ci ha offerto la possibilità di iniziare a ragionare non avendo più come unico obbiettivo il denaro, ma la salute e il lieto vivere di tutti gli abitanti della Terra, particolarmente i più deboli e disagiati.

A questo proposito mi sono tornati alla mente i giovani di colore che incontro frequentemente scendendo in direzione di Asti e che arrancano su biciclette scalcinate pedalando verso un miraggio: non mi ero mai posto domande sulla loro condizione di vita nel nostro Paese. Ho meditato a lungo su quei giovani, su cosa penseranno di noi, su come immagineranno il loro futuro, se avranno ambizioni e desideri da raggiungere. Sono giovani come i nostri che, però, al nastro di partenza, sono partiti in netto svantaggio rispetto ai nostri ragazzi nati in Europa e non in qualche sperduto villaggio africano.

Questo maledetto Coronavirus mi ha regalato il tempo di pensare e ragionare sulle ingiustizie di questo mondo così bello e, a volte, così spietato.

 

DUE VOLTE IN ISOLAMENTO, POI LA TRINCEA DEL COVID

Francesca Balsamo
Medico fisiatra, 38 anni

 

Sono nata e cresciuta ad Asti, ma la professione di medico mi ha sempre tenuta lontana da casa. Il 1° febbraio avevo appena preso servizio all’ospedale di Casale Monferrato. Credevo, dopo anni in Lombardia, di impegnarmi nella mia specializzazione: Medicina fisica e Neuroriabilitazione.

E invece no. Nei primi giorni di lavoro mi è stata diagnosticata una polmonite atipica. Non si pensava ancora alla pandemia né erano disponibili esami specifici, per cui ho trascorso due
settimane a casa. Al mio rientro in ospedale rimbalzavano le prime notizie di gravi insufficienze respiratorie e iniziava a circolare il nome nuovo: Coronavirus.

Durante un weekend di guardia, agli inizi di marzo, mi sono ritrovata a dover chiudere
in pochissimo tempo il reparto di riabilitazione perché anche lì era arrivato il Covid-19. Mi sono sentita sola, impotente, ma in quel nostro “paziente-1” ho riconosciuto i sintomi che qualche settimana prima avevano caratterizzato la mia malattia. Per me è iniziato un nuovo calvario: avevo prestato le prime cure a un paziente risultato in seguito positivo, e l’avevo fatto senza i dovuti DPI.

Al rientro dall’isolamento, è arrivato l’ordine di servizio da parte della Direzione Sanitaria che obbligava tutti medici a prestare servizio con turni di guardia diurna e notturna presso i reparti “Covid”. Significava andare in trincea isolandosi dal resto del mondo. Addio ad abbracci, strette di mano, sorrisi. Privarsi di questi gesti d’affetto, convivere con la sofferenza, rende indifferente l’essere umano. Confesso di essere arrivata al punto di non provare nulla di fronte al via vai di necrofori.

Ho assistito pazienti giovani e anziani, spesso consapevoli che non sarebbero mai usciti da quelle stanze. Il rischio contagio aveva tolto loro anche il conforto di avere a fianco i familiari. Le videochiamate non sempre erano possibili. Caschi, respiratori e DPI rendevano le comunicazioni molto difficoltose. Spesso nei pazienti prevaleva la dignità di non voler farsi vedere così per l’ultima volta dai propri cari.

I turni di guardia nei reparti Covid sono stati scanditi da brevi telefonate alle famiglie dei pazienti che terminavano con “fatevi coraggio”. E io che mi chiedevo quale fosse il senso di tutti quegli striscioni con le scritte arcobaleno “Andrà tutto bene”. Quando un paziente moriva, seguiva a distanza di giorni il rituale di riconsegna alla famiglia degli effetti personali, riposti dentro un sacco nero che talvolta non è stato nemmeno ritirato, per paura di trasmissione del virus. Spero che le lacrime, versate sotto le maschere, non siano state vane e mi abbiano insegnato a essere migliore come persona e come medico.

 

HO NOSTALGIA DELLA MIA CLASSE

Mario Bosia
Scolaro di quarta elementare, 10 anni

 

Siamo stati colpiti da una disgrazia che si chiama Coronavirus, che a pensarci bene è una cosa microscopica ma super potente. Tutte le mattine io mi alzo presto per guardare la tele e sento la nostalgia della scuola, poi arriva la mamma a farmi la colazione e dopo iniziamo i compiti, ma mi mancano le spiegazioni dei maestri e i miei amici.

È la prima volta che passo così tanto tempo con la mia famiglia e penso che anche se siamo una famiglia chiassosa è un bene avercela una famiglia specialmente quando c’è una quarantena. Ci teniamo stretti e ci sentiamo un po’ meno soli. Al telegiornale dicono che per non ammalarci dobbiamo evitare i baci, gli abbracci e le strette di mano ed è per questo che non possiamo uscire di casa.

Dobbiamo stare lontani ed è la cosa più difficile mi fa paura, però è vero che per tutto questo tempo l’abbiamo rispettata di più e lei sta guarendo. Ogni giorno di tutti questi
giorni mi manca il mondo fuori casa, ma quando sono riuscito a collegarmi con la mia classe allora un po’ di nostalgia mi è passata.

 

LA LEZIONE DEL MANZONI E I NUOVI DON FERRANTE

Alberto Bazzano
avvocato penalista e critico musicale, 46 anni

 

I libri (specie i classici della letteratura) vanno riletti, perché ogni volta svelano qualcosa di nuovo. Loro restano sempre uguali a se stessi. Ma noi no. Noi cambiamo, evolviamo. Ci
portiamo dietro un bagaglio di esperienze che restituiamo nel confronto con la pagina scritta, la quale assorbe le aspettative che ci guidano nella lettura.

Durante l’isolamento ho avuto l’opportunità di riprendere in mano alcuni testi che hanno costituito la base della mia formazione. Tra i molti che campeggiano nella mia libreria ho dato la precedenza a quelli che potevano evocare la sciagurata condizione attuale. Ho riletto alcune novelle del Decameron e, soprattutto, I promessi sposi.

Le vicende narrate da Manzoni, che sembravano appartenere a un mondo lontano, di colpo si sono fatte presenti. Nell’angoscia dei personaggi di fronte al dilagare della peste nel 1630
ho ritrovato il nostro smarrimento. Ho notato che le misure che il buon senso suggeriva per evitare il contagio erano le stesse che abbiamo messo in campo nel 2020.

Nel capitolo trentasettesimo Renzo ritrova Agnese, che lo invita a entrare in casa. Lui rifiuta. Si preoccupa di parlarle a distanza e all’aperto onde scongiurare ogni pericolo. Alla
fine del capitolo si fa cenno anche a don Ferrante, l’erudito che intendeva negare l’esistenza della peste, ricorrendo astrattamente alle categorie aristoteliche di sostanza e accidente.

Alla figura di don Ferrante possono essere ricondotte le persone che, minimizzano il rischio del Coronavirus, non indossano le mascherine protettive e non osservano il distanziamento. Voglia il cielo che non si ammalino e non facciano ammalare gli altri. A don Ferrante, in verità, non andò bene. Forte delle sue teorie non prese precauzioni. La peste gli si attaccò e lui si mise a letto a morire «come un eroe di Metastasio, prendendosela con le stelle».

Naturalmente, ho dedicato anche tempo alla musica operistica. Ho ascoltato molti dischi e ho visto qualche spettacolo trasmesso per televisione. Infine, ho registrato le puntate del “Lexicon”, una sorta di dizionario con i vocaboli del teatro musicale, reperibile sui miei profili di Instagram e Youtube, che forse sarà utile a qualcuno, una volta che i teatri saranno riaperti. Non so se la bellezza salverà il mondo.

Di certo, a me ha consentito di trascorrere questi giorni bui con un pizzico di leggerezza, quella stessa che Italo Calvino raccomanda all’inizio delle sue Lezioni americane.

 

L’UNIVERSITÀ DA CASA E “L’ESSER VECCHI”

Enrico Ercole
Docente universitario, 66 anni

 

Sono allenato all’isolamento: quando avevo dieci anni sono stato tre mesi a letto per il “soffio al cuore”. Ho un cane che mi permette di uscire quattro volte al giorno. Gli affetti
stretti sono vicini: vivo con mia moglie e mio figlio è nell’alloggio al piano di sopra. Insegno all’Università e posso lavorare da casa.

Nel tempo che improvvisamente ho a disposizione finisco di scrivere alcuni articoli che avevo da tempo sulla scrivania: la mente cerca dei diversivi per non pensare che, in quanto
ultrasessantacinquenne, sono un target di Covid-19. Penso agli anziani che muoiono soli e mi viene in mente che oggi l’età media è 83 anni, molto più dei 50 anni di metà Ottocento quando nacquero i miei bisnonni.

A quei tempi una persona della mia età era considerato un “vecchio”, sopravvissuto alla vita. I pochi vecchi, cioè quelli della mia età, morivano a casa, non in ospedale o in Rsa, perché a casa vivevano e quando stava arrivando la loro ora si mettevano a letto e lì venivano raggiunti da una morte che non destava scandalo, perché la società non aveva esorcizzato la morte separandola dalla vita in case di riposo e ospedali.

Devo smettere di farmi venire in mente troppi pensieri, se no poi divento nervoso, e quando si è in isolamento è meglio rimanere tranquilli, e augurarsi che, come dice la Tv,
la pandemia sia un’opportunità per grandi cambiamenti. E mi viene in mente che dopo la “Spagnola” del 1918, quando nacquero i miei genitori, venne il fascismo.

Ma negli Stati Uniti, dopo il ’29, venne il New Deal. Quindi tutto andrà bene non in modo automatico ma, come sempre, dipenderà dalle scelte che nel nostro piccolo anche noi
concorreremo a determinare.

 

MI FERMO E RIFLETTO “BASTA PATURNIE”

Simona Secoli
Fisioterapista, Asti Casabianca, 46 anni

 

Scrivo queste righe nel primo giorno di primavera: 21 marzo. Queste ultime settimane ci hanno messo di fronte alla precarietà della vita. Non sappiamo se e quando quest’incubo finirà… Troppe persone muoiono in solitudine negli ospedali e nelle case di riposo e questa è la parte più triste e commovente.

Penso che sia il momento di fermarci e riflettere sull’importanza degli affetti, dell’amicizia
e di ciò a cui è giusto dare peso nella vita… È il tempo per lasciarci alle spalle rancori, malumori e “paturnie” per pensare davvero alla sostanza… Sono sicura che ne verrà fuori qualcosa di buono.

 

QUEL ROSARIO DI NUMERI CHE METTEVA ANSIA

Edi Penna e Giorgio Marchisio
Pensionata comunale e impiegato comunale, Asti

 

È giunto improvviso e silenzioso nelle nostre vite questo maledetto e subdolo virus. All’inizio sfogliando i giornali e osservando le notizie su Internet non ci rendevamo ancora conto di quello che ci sarebbe accaduto nei giorni a venire. Il primo caso isolato dei due cinesi a Roma e poi la notizia del ricovero dello scrittore Sepulveda e della moglie, i primi contagiati in Lombardia e in Veneto.

Ogni sera il rosario dei numeri: positivi, ricoverati nelle terapie intensive, decessi, soprattutto di anziani nelle case di riposo, ma anche medici e infermieri. Ci siamo trovati rinchiusi fra le mura domestiche, intimoriti nel rispetto del messaggio ricorrente e anche un po’ monotono “state a casa”.

Noi siamo stati fortunati: lavoro, letture, musica. Giorno dopo giorno, con la paura e il dispiacere nel cuore per quello che stava succedendo, abbiamo risposto con voglia di vivere e di agire. Qualche ricetta nuova in cucina, perfino quella di certi biscotti non facili da fare, e poi una marea di film e serie tv e libri. In due ci siamo fatti forza e condiviso sentimenti, emozioni, preoccupazioni, paure. La quarantena ha aumentato in noi la gratitudine per chi si è sacrificato.

Ci siamo ripromessi: basta lamentele, stop alla ricerca della perfezione o di qualcosa in più di quello che già si possiede. Speriamo che questa “guerra” ponga fine a tutte le altre e soprattutto ci faccia capire quanto siamo tutti fragili e uguali. Sarà così?

 

ALUNNI SPAVENTATI ALTRI INDIFFERENTI

Emanuela Bottero
Insegnante di Lettere alla Scuola Media di Costigliole d’Asti

 

Per anni ho parlato ai miei alunni delle grandi epidemie narrate dagli scrittori: da Omero nell’Iliade a Tucidide, da Virgilio nelle Georgiche a Boccaccio nel Decameron fino a Manzoni ne I promessi sposi. Mai però avrei pensato di trovarmi a vivere una situazione simile, pur con le dovute differenze.

Tra i miei alunni, alcuni si sono spaventati per la pandemia, altri apparentemente erano indifferenti o increduli della pericolosità del morbo. Non so cosa resterà loro di questa situazione surreale di questo isolamento forzato. Molti mi hanno scritto che hanno sperimentato o riscoperto il piacere di “fare insieme” in famiglia (soprattutto dolci).

In me lascerà un ricordo indelebile per diversi motivi. Prima di tutto per la molteplicità di sentimenti che ho provato: sono passata dalla speranzosa incredulità (qui da noi non succederà nulla!) alla paura dell’untore, all’angoscia per il numero di contagi e le immagini drammatiche trasmesse in televisione.

In secondo luogo, per il piacere di vivere la mia casa con calma senza l’affanno dell’orologio. Inoltre, proprio perché tutti a casa, ho potuto godere della famiglia riunita e
chiunque abbia figli adulti sa quanto sia difficile e prezioso (un merendino di Pasquetta tutti insieme erano anni che non lo facevamo!)

Come insegnante poi mi ha messo davanti a una nuova sfida che all’inizio è stata uno stress non da poco: le lezioni on line. I miei figli mi hanno fatto da tutor, poi con il passare dei giorni mi sono inventata nuove modalità di lavoro, ho rimodulato le lezioni per renderle interessanti per i ragazzi. E faremo anche gli esami di terza media on line.

Ora però non ne posso più di vedere telegiornali che trasmettono notizie di aumento o calo dei contagiati, di accuse da parte di politici ad altri politici o ad altri Paesi ritenendoli responsabili della diffusione del virus. Ora ho bisogno di normalità e se la mascherina sarà l’accessorio più “in” dell’estate 2020 pazienza, ma usiamola, perché non sono proprio sicura che altrimenti “andrà tutto bene”.

 

CARTOLINA DA SIDNEY

Alice Orioli
Astigiana, manager d’albergo a Sidney, 26 anni

 

Eh sì, devo proprio ammetterlo, il Covid 19 ha scombussolato parecchio i miei piani. Ero entusiasta del mio lavoro come Duty manager al Vibe Hotel Darling Harbour di Sidney, 4 stelle inaugurato a fine novembre. Ma l’Australia, ai primi sentori, ha chiuso tutto: frontiere blindate, viaggi nazionali congelati, hotel fermi, incluso il mio.

Non potevo accedere agli aiuti del governo e non potevo nemmeno rientrare in Italia… quindi? Ho trovato un accordo con la mia padrona di casa e in cambio dell’affitto ho lavorato nel suo negozio finché è rimasto aperto e l’ho aiutata nei lavori di casa.

Qui a Sidney i casi di contagiati sono stati pochi, 6000 in tutto. Nella fase più critica erano aperti solo supermercati, ristoranti da asporto e farmacie. Si poteva passeggiare in coppia a distanza di sicurezza ma non si poteva visitare nessuno. Quando si sono allentate le misure di sicurezza hanno riaperto i negozi e i piccoli ristoranti, con capienza e ingressi limitati. Aspettiamo con ansia la riapertura almeno dei voli nazionali che rimetterà in moto gli alberghi. La ripresa vera del lavoro sarà probabilmente a settembre che qui è primavera.

L’immagine iconica di questo periodo resterà la spiaggia di Bondi Beach, la più famosa di Sidney, completamente deserta quando nella normalità è affollata di bagnanti e surfisti. Mi manca tanto la mia famiglia, avevo in programma di rientrare proprio a maggio. Tornerò a fine anno e faremo una grandissima festa.

 

VERDE D’APRILE E CIELO BLU

Franca Garesio Pelissero
insegnante in pensione

 

Vivo in campagna, circondata da boschi. Cosa si può chiedere di più? Nulla, o meglio nulla per me, ma il pensiero dei figli, nuore e nipoti che vivono in città (un figlio e due nuore medici!) ha amareggiato il piacere di essere naturalmente isolata. Tralascio di parlare
di ansia e di frequenti telefonate, di preghiere e scongiuri (sebbene non sia superstiziosa) e quant’altro ci poteva stare.

Ma, poiché la realtà era questa, ho cercato di fare di necessità virtù. L’isolamento forzato (evito intenzionalmente la parola lockdown perché preferisco esprimermi in italiano)
mi ha regalato un po’ di tempo in più. È pur vero che ho dovuto rinunciare ai numerosi
appuntamenti già fissati per la presentazione dell’ultimo libro, a un po’ di tennis e a qualche incontro con le amiche, ma in compenso questa esperienza mi ha insegnato una cosa importante: a guardare al di là delle apparenze scontate, a cogliere i messaggi nascosti che racchiude la natura, ad ascoltare voci diverse da quelle degli umani. Il tempo e la calma sono ottimi consiglieri.

Così ho notato che il verde di aprile è diverso da quello di agosto e che diffonde un maggiore senso di pace; che anche i piccoli fiori spontanei non hanno nulla da invidiare,
per bellezza e perfezione, ai grandi fiori coltivati; che il canto del cuculo, dal profondo del bosco, non è meno suggestivo di quello dei cardellini, mentre quello dell’upupa, verso sera,
non è “un lugubre singulto” (Foscolo), ma invita piuttosto ad affidare alla speranza l’ultimo pensiero del giorno, per inviarlo lontano, a chi ne è privo, tramite questo cielo che, non per scelta nostra, ma per costrizione, abbiamo reso finalmente più blu (ma per quanto tempo?).

 

UN SILENZIO INTERROTTO DA CAMPANE E AMBULANZE

Mirko Giacomo Faulisi
Sociologo, 32 anni

 

Vivere nel vuoto e nel silenzio. Questo ha caratterizzato la mia esperienza durante la quarantena. Vuoto di abitudini, rapporti sociali, senso contrapposto a un continuo di consigli digitali e televisivi, spesso inutili e deleteri, su come riempire questo tempo a noi sconosciuto che mi ha riportato a tempi risalenti all’infanzia e adolescenza, quando gli impegni di vita erano meno gravosi e pesanti.

Il silenzio di questo tempo è la cosa che porterò per sempre con me. Una quasi totale assenza di suoni. Abituato a sentire sotto casa il vociare continuo di scolari e turisti, mi sono ritrovato a udire solo campane, ambulanze e, con mia grossa sorpresa, anche gli echi dei treni, pur abitando lontano dalla stazione.

 

HO COLORATO MASCHERINE

Francesca Rosso
in arte MorArt. 26 anni, Corsione

Ho frequentato il Liceo artistico di Asti e ora studio Storia dell’arte all’Università. Lavoro presso l’Agrimacelleria Allegretti e mi diletto nella pittura e nel disegno, sperando un giorno di diventare una pittrice a tutti gli effetti. Durante la quarantena ho avuto un’idea per poter comunque esprimere in parte la mia vena artistica, non potendo partecipare alle mostre organizzate.

Ho dipinto mascherine in tessuto. Non immaginavo che alla gente sarebbero piaciute tanto da volerle. Così per caso è iniziata, e continua, questa piccola ma gratificante e colorata
avventura. Un’idea nata in un momento difficile e preoccupante per l’Italia e il mondo: ancora oggi dobbiamo stare all’erta sempre, ma almeno in questo modo posso donare colore e sorrisi a chi come me vuole un po’ di originalità.

Molte delle mascherine che ho realizzato si possono vedere sulle mie pagine social (Instagram e Facebook).

 

È EMERSA LA POVERTÀ SILENZIOSA

Mariangela Cotto
Assessore politiche sociali del Comune di Asti, 73 anni

 

Avevamo tanta carne al fuoco: progetti sulla disabilità e diversità nelle scuole con Sara Vergano e Mario Alciati, il progetto per il “volontariato in panchina”, gli incontri per favorire la partecipazione degli anziani nei 4 centri ricreativi del Comune. Tutto annullato.

Anche la campagna di contrasto alla solitudine, la rete astigiana per il welfare aziendale si sono fermate così come non è stato più possibile organizzare il dissenso verso la costruzione di un nuovo padiglione del carcere di Quarto.

Prima emergenza: il rientro dei 34 concittadini anziani, molti dei quali positivi al virus, reduci dal soggiorno marino di Alassio. Ci organizziamo. Intanto per aiutare gli anziani bloccati soli nelle loro case senza poter contare sui familiari nasce l’iniziativa (suggerita dal
Vescovo) della spesa a domicilio: 130 ragazzi della Pastorale giovanile hanno portato più di mille spese su ordinazione.

Molte famiglie però non potevano ordinare la spesa perché non avevano il denaro per pagarla. È nata così l’operazione “Dona la spesa” grazie alla generosità degli astigiani e alla disponibilità organizzativa della Banca del Dono con il Dono del Volo, Caritas, Croce Rossa, Banco Alimentare, San Vincenzo e la Pastorale giovanile.

Nel frattempo il Governo ha finanziato i “Buoni spesa” (404.000 euro destinati al comune di Asti) e i dipendenti dell’Assessorato alle politiche sociali riescono i pochi giorni a verificare i requisiti delle richieste e, tramite la Protezione civile, far consegnare a domicilio i buoni per fare la spesa.

Tante volte ci si accorge del volontariato solo quando si ha bisogno. Alcuni esempi. In questi mesi tanti cittadini hanno usufruito del supporto psicologico a distanza organizzato
dal consultorio “Francesca Baggio” e dall’Associazione Mani colorate. L’Associazione Migrantes con video servizi ha aiutato il Comune a inviare un messaggio informativo e comportamentale ai cittadini stranieri nelle varie lingue. Mancavano le mascherine e la ditta Dezzani ha prodotto un video su come realizzarle e raccolto un centinaio di volontarie che le confezionano.

La ricerca della povertà silenziosa (quella troppo urlata, a volte, non è veritiera) ha visto la collaborazione anche degli amministratori di condominio. È stato difficile lavorare chiusa in casa, ma grazie a whatsapp e alle videoconferenze su Skype posso dire che ho lavorato più di prima.

 

CINQUEMILA BORSE DELLA SPESA IN DONO

Caterina Calabrese
presidente associazione “ Il dono del volo”

Alle misure restrittive da tempo di guerra ciascuno ha reagito a proprio modo: i più incollati alla tv e ai social media, #tutti a casa… e tanti senza più lavoro. Mangiare però è il bisogno primario dell’uomo.

Occorreva approntare un rete di salvataggio per i più fragili. Mariangela Cotto, Assessore ai Servizi sociali propone il “Dona la spesa” e la nostra associazione “Il Dono del volo” ha l’incarico di capofila e responsabile degli acquisti.

Alla Caritas, con il presidente Beppe Amico, organizzano un elenco di tutti i fruitori, un lavoro prezioso per evitare doppioni. Poi ancora la San Vincenzo, Croce Rossa ecc. Fondamentale la collaborazione con i giovani della Pastorale giovanile. Si lancia una richiesta di fondi a cui gli astigiani rispondono con grande generosità, compresa l’associazione Astigiani che versa 5000 euro utili a pagare 200 pacchi spesa solidali. In tutto siamo arrivati in questi mesi a quasi novantamila euro.

Mio marito, Giorgio Calabrese, presidente onorario della nostra associazione, si mette a disposizione e valuta il contenuto ottimale della borsa dal punto di vista nutrizionale: pasta, riso, latte, uova, farina, zucchero, biscotti, caffè, pomodori in scatola, grissini o cracker, tonno, carne legumi in scatola.

Il valore base di ciascuna borsa è di 25 euro. Spesso tali borse sono arricchite di altri prodotti che ci sono stati donati, come quelli per la prima infanzia o le conserve della Saclà. Abbiamo ottenuto in regalo da distribuire anche 500 litri di latte dalla Centrale di Torino, 500 chili di zucchero dalla Pinin Pero di Nizza e i 5000 kg di pasta della Rey di San Damiano. Sono arrivati 5000 euro di buoni spesa Conad dalla Energas. Ci hanno aiutati anche le “borse sospese” dei clienti Carrefour organizzate da Giulia Veglio.

Gli approvvigionamenti ordinari li abbiamo avuti sempre tempestivamente grazie a Giorgio Guasco di 3A. I capofila dei volontari, Virginio Oddone con la moglie Angioletta, hanno provveduto alla composizione delle borse, instancabili ogni giorno dalle 7,30 del mattino nella sede di corso Genova presso la mensa sociale.

Con l’operazione “Doppio dono” abbiamo comprato anche prodotti locali cominciando dalle Robiole di Roccaverano, il cui Caseificio sociale era in crisi per la chiusura dei ristoranti. Ci sono arrivate inoltre uova, farina, patate, cipolle, verdura e frutta fresche, grazie alla generosità della Cia (Confederazione italiana agricoltori) e della Coldiretti- Campagna Amica.

Oltre mille famiglie sono state così servite con più 5000 borse. Un gran lavoro di squadra e una grande gioia, anche solo a scriverlo.

 

MI SONO INVENTATO LA DIETA

Gino Montalcini
medico urologo e nefrologo, 72 anni

 

Sono medico in pensione dall’ospedale, ma continuo la mia attività specialistica presso un poliambulatorio. Questa mia attività, anche se “in formato ridotto” mi ha dato un po’ di libertà di movimento che ha reso meno opprimente la clausura.

Dalla nascita sono stato sempre in sovrappeso. All’inizio del coprifuoco mi sono trovato a 105,5 kg e ho deciso per il rientro; sono per le diete bilanciate e quindi tutto pesato. Mi piacciono i gusti vari e così ho attentamente rielaborato molte ricette della nostra cucina tradizionale trasformandole in ricette compatibili con il dimagramento. Così assolutamente senza farmaci, sono sceso a 95,7.

Altro mio pallino è stata sempre l’informatica: negli anni ‘80 e ‘90 avevo informatizzato il mio reparto ospedaliero e avevo fondato con colleghi la Società Italiana di Informatica
Medica (senza scopi di lucro). Mi sono entusiasmato per internet, poi sono arrivati i professionisti e la macchina, che io dominavo, ha iniziato a dominarmi, così me ne sono
allontanato limitandomi alle cose indispensabili.

L’isolamento mi ha fatto rivalutare il legame virtuale con le persone e così ho scoperto “Zoom”, programma grazie al quale ho organizzato interessanti conferenze virtuali in cui tutti potevamo interagire in tempo reale, ho costruito dei gruppi omogenei in WhatsApp e sono riuscito anche a raccogliere consensi per la donazione di un respiratore automatico al
reparto di Rianimazione del nostro ospedale.

In questo parziale isolamento ho avuto la fortuna di vivere con una moglie che mi ha infuso grande sicurezza e un figlio e una nuora con cui, abitando nello stesso caseggiato, ho avuto
la possibilità di confrontarmi. Sul tema Covid-19 ho patito da medico: troppa confusione, troppa gente “esperta” che di esperto ha ben poco. Un esempio: nessuno ha evidenziato, ad esempio, il reale rischio legato all’uso dell’ascensore, spazio stretto e angusto magari contaminato poco prima da un precedente utilizzatore.

Ciò che non condivido sono le statistiche che ci hanno propinato: piene di valori assoluti non correlati al territorio, né alla popolazione e neppure al numero di tamponi eseguiti e
alle innumerevoli altre variabili, tra le quali le reali cause di morte. Ho così pensato a come sarebbero caduti in maniacali angosce quei parenti di pazienti che, in momenti non sospetti, quando entravo nelle loro abitazioni per una visita, già mi costringevano con un sorriso imperativo a indossare i patin e mi venivano dietro con un batuffolo di cotone imbevuto di alcool, pulendo con energia ogni superficie che toccavo…

 

GARA DI MASTERCHEF CON MAMMA E PAPÀ

Matteo Pugliese
studente di 4a elementare, 9 anni

 

Sono stati tempi difficili. All’inizio non si poteva neanche uscire per fare una passeggiata, almeno fino a Viatosto dove ci piace andare con mamma e papà. Non potevo andare a scuola o incontrare i miei parenti e i miei amici.

Un giorno di marzo con papà ci siamo inventati di fare una gara di cucina tipo Masterchef. Lui da solo contro me e la mamma. Papà ha fatto delle cose buone tipo i cestini di pasta con le verdurine che mi sono piaciuti tantissimo. Con la mamma abbiamo fatto il sartù di riso che avevamo visto in tv e non sapevamo proprio cos’era. A un certo punto la mamma
ha detto basta, perché diventavamo grassi (io no che sono magrissimo, ma a loro veniva la pancia).

Ah, dimenticavo, con mamma abbiamo anche fatto giardinaggio e riempito il balcone di gerani bianchi e rossi e di tante altre piante fiorite. Adesso è molto felice e orgogliosa del
nostro balcone e quando fa caldo mangiamo in mezzo ai fiori.

Il giorno che hanno detto che i bambini potevano di nuovo uscire insieme a mamma e papà per fare la spesa e le altre cose ero proprio contento. Ma lo sono stato ancora di più quando ho potuto rivedere i mei amici Giovanni e Andrea che stanno vicino a casa nostra. Abbiamo fatto la merenda nel parco e tante corse nei prati. Perché io sono stato felice di passare tanto tempo con mamma e papà ma dopo un po’ volevo vedere le altre persone a cui voglio bene.

Il brutto non è ancora passato del tutto però a luglio farò il centro estivo in campagna e questo mi rende davvero felice. Speriamo a settembre di poter tornare a scuola com’era prima.

 

LA MERAVIGLIA HA PRESO IL POSTO DELLA PAURA

Emma Nicolosi
Esperta informatica, Tigliole, 63 anni

 

La vita al tempo del Coronavirus è una vita sospesa, una vita vissuta a metà perché tutte le attività esterne sono sospese. Non più volontariato, non più corso di lettura interpretativa,
non più corso di nordic walking, non più francese… Scopro la pace del luogo in cui vivo, la respiro e assaporo con maggiore consapevolezza, incomincio a fare ginnastica all’aperto.

Le giornate di sole sono magnifiche e la primavera è incominciata. Queste giornate lunghe mi permettono di pensare molto al senso della vita e ad apprezzare le piccole cose. A tutta questa libertà non sono abituata, penso che potrei persino ubriacarmi del tanto tempo a disposizione.

Questo periodo voglio che serva per ordinare i pensieri e appacificarmi col mondo. Nei primi
giorni della quarantena forzata ho sentito crescere un’ansia interiore che mi ha spaventato. Era come se la paura prendesse il sopravvento, poi piano piano è accaduto qualcosa dentro di me, ho lasciato andare la mente a considerazioni più positive quali la bellezza che mi circonda, la natura che sta rifiorendo: quale grande meraviglia!

Questa esperienza collettiva ci fa riscoprire il vicino di casa, ci fa sentire tutti uguali, tutti nella stessa barca a condividere le stesse difficoltà. Speriamo di essere capaci di farne tesoro, perché non sia stata vana. E tutti allora ci sentiremo migliori e più solidali anche dopo, una volta che tutto sarà rientrato.

 

NELLA BANLIEUE PARIGINA CON I PAPPAGALLI EVASI

Manlio Graziano
astigiano, esperto di geopolitica, insegna alla Sorbona

 

Chi non conosce Parigi, o ne conosce soltanto le zone obbligatorie per i turisti, forse non sa che la capitale francese ha un anello autostradale di 35 chilometri che la circonda – il boulevard périphérique detto périph’ – e segna il confine tra due mondi estranei l’uno all’altro dal punto di vista architettonico, sociale, culturale ed economico.

Al di là del périph’, c’è la banlieue. Esiste, beninteso, una banlieue ricca (per esempio Boulogne, dove c’è il famoso Bois de Boulogne, con i suoi Roland Garros, Parc des Princes e
l’ippodromo di Auteuil) ma nell’immaginario collettivo, la banlieue è solo quella sporca, povera, pericolosa, disseminata di edifici anonimi, brutti, grigi, abitati in maggioranza da immigrati (vecchi e nuovi).

Quando ci sono venuto a stare, lasciando Parigi, ho avuto l’impressione di essere stato degradato; alcuni dei miei amici mi hanno trattato come se avessi una malattia e mi hanno
augurato di tornare presto (appena guarito, immagino). Quando ho detto che avrei avuto un giardino, anche se minuscolo, e che, a Parigi, un giardino possono permetterselo solo i capi di Stato e gli ambasciatori, uno di loro mi ha risposto: piuttosto in soffitta a Parigi che in una casa con giardino in banlieue.

Un po’, devo confessarlo, la pensavo così anch’io. Sono venuto via da Asti e dall’Italia per vivere a Parigi, non in Francia, e tanto meno nella banlieue! Poi, un po’ alla volta, mi sono abituato. Qui, dove sono, lavoro nel silenzio più assoluto, a parte i passerotti, le cinciallegre, le rondini, i tre galli dei miei vicini e il loro harem di sedici galline, e persino una nutrita colonia di pappagalli color verde bottiglia, con la coda lunghissima a punta, fuggiti, si racconta, da un cargo al vicino aeroporto di Orly. Tutt’intorno, case con giardinetti e alberi. E tutto questo a tre chilometri in linea d’aria da Parigi, col métro a cinque minuti dall’uscio.

Nelle quattro case attorno alla mia, ci stanno, nell’ordine, una coppia formata da un serbo e
un’algerina, un’altra da un bretone e una canadese, un’altra da un camerunense e una parigina e l’ultima (quella dei galli), da un normanno e una gentile signora ivoriana, che fa una salsa di banane fritte, pomodori e spezie che ve la raccomando. E poi, subito dietro, una famiglia di tamil, che organizza una domenica su due festose cerimonie religiose ecumeniche in giardino (molto, ma molto più grande del mio). Io ho declinato l’invito, ma
con garbo.

Tutta questa lunga pappardella su Parigi e la sua banlieue per dirvi, semplicemente, che i due mesi di clausura forzata da metà marzo a metà maggio sono volati via, per me, in tutta tranquillità, a parte le code al supermercato, e a parte l’impossibilità di trovare una webcam per fare le lezioni, ridotto a servirmi di un laptop malconcio che mi ha lasciato appiedato
più di una volta, proprio quando non era il caso. Il mio giardinetto minuscolo ha tratto giovamento dalla mia costante presenza.

Tutto quello che ho visto di Parigi con le strade vuote e le anatre della Senna a passeggio per i grands boulevards, l’ho visto alla televisione come voi, anzi, su you tube, perché la televisione non ce l’ho. Una mia amica russa (sposata con un siciliano nato e vissuto sempre a Parigi) è andata un giorno al suo ufficio, in place Vendôme, e mi ha detto che le è venuta voglia di piangere. È la testimonianza più diretta che ho della desolazione provocata dal confinement. Dulcis in fundo.

Un’importante casa editrice americana mi ha chiesto un volumetto che spieghi un po’ l’attuale Zeitgeist, lo spirito del momento. Si intitolerà The Geopolitics of Fear, e molto probabilmente uscirà anche presso Il Mulino, con lo stesso titolo: Geopolitica della paura.

 

QUEI 42 CLIC DAL BALCONE

Fabio Orioli
Studente Libera Accademia d’Arte Novalia (Alba), 21 anni

 

Lookdown è una serie fotografica che ho prodotto durante il periodo di quarantena, che ho dovuto spendere interamente nel mio appartamento nel centro di Asti, a pochi passi da piazza Alfieri. Ognuno dei 42 scatti è stato catturato dal balconcino della mia stanza, un punto di vista apparentemente limitante, ma che mi ha permesso di documentare giorno
dopo giorno quella poca vita che scorreva in strada.

Il mezzo della mia ricerca è stata l’attesa, il movente la noia del tempo sterile in cui siamo stati costretti a vivere. Questa raccolta di istanti diventa quindi a tutti gli effetti un fotoreportage di questo periodo, scrutato dall’alto verso il basso.

 

HASHTAG IO RESTO A CASA FACILE A DIRSI MA…

Giorgio Gianuzzi
giornalista, scrittore, esperto di comunicazione, già responsabile ufficio stampa gruppo Fiat e Fca, 63 anni

 

Vivere uno stato d’emergenza, relegato ai domiciliari, non è una bella cosa. E allora: “Hashtag io resto a casa”. E a casa sto. Da solo.

Donatella, mia moglie è da sua madre, avanti con gli anni, non può lasciarla da sola. I miei due figli in Veneto dove lavorano: Giulia a Bassano del Grappa e Gabriele a Verona. Facciamo delle video chiamate, per sapere come va. Quindi solo in casa! Sotto certi aspetti quattro mura sconosciute perché “tu a casa non c’eri mai” come mi rimproverano spesso.

È il mio momento. Dopo 43 anni di servizi in giro per il mondo, ora c’è qualcuno, il capo dello Stato in persona, che guardando fisso la telecamera e aggiustandosi il panciotto, quasi come se non osasse dirmelo, ammicca: “Stai a casa. La Nazione te lo chiede!”.

Mi organizzo. Ho pulito tutto, ho buttato via il “presunto” inutile. Sono orgoglioso di essere il “Mastro Lindo 4.0”. Poi mi giro. È tutto ancora con me. Non posso uscire! “Hashtag io resto a casa”. Ok, vado in cucina. Mi improvviso cuoco. L’approccio non è esaltante. I polpastrelli ora sono tutti pieni di vesciche da ustioni, le dita tagliate, macchie in ogni dove.
Mi accorgo che ai fornelli “l’educazione domestica” diventa “il piccolo chimico”. Mi rifaccio ai consigli di Suor Germana contenuti nella sua Agenda Casa. Spaghetti aglio-olio-peperoncino diventa un piatto gourmet.

Dopo aver litigato con la lavatrice, imprecato contro l’idraulico, maledetto il robottino delle pulizie, trovo un attimo di normalità: parlo con le piante di casa! È ormai sera, aspetto il Commissario Montalbano: la mia liberazione, l’unico che un mi rumpi i cabbasisi. Dopo
sessant’anni di dialetto piemontese ora parlo anche il siciliano! #iorestoacasa.

 

NEL CAOS DEL COVID SE N’È ANDATO CILLO

Pinuccia Cantarella
Educatrice d’infanzia in pensione, 66 anni

 

Sabato 7 marzo. Da qualche giorno Cillo non sta bene: mangia poco e si muove lentamente. Sono preoccupata, per lui e perché cominciano a essere molte le voci che dicono che qualcosa di molto brutto ci attende.

Nel pomeriggio lo porto dal veterinario. Ambulatorio affollato, tutto nella norma. Una giovane dottoressa dice che il suo cuore è molto malato: serve una terapia per aiutarlo
a battere.

Lunedì 9 marzo un messaggio mi informa che il titolare dell’ambulatorio è ricoverato in ospedale. Diagnosi: Coronavirus, o Covid19, come da lì a poco impareremo a chiamarlo. Ansia. Sono stata lì oltre un’ora l’altro ieri, c’erano molte persone e nessuna protezione. Chiamo il mio dottore: mi ordina di mettermi in isolamento volontario. In pochi giorni scoppia l’inferno, non si parla d’altro.

Ogni giorno somministro a Cillo due pastiglie: una al mattino e una alla sera. Lo imbocco, come si fa con i bambini, poi gli lavo il muso, perché mangiando sbava, proprio come i
bambini e i vecchi. Occuparmi di lui, prendermene cura mi aiuta, il tempo mi sembra meno sospeso.

Anche in città la situazione precipita, in ospedale aumentano i ricoveri, in terapia intensiva non ci sono più posti, mancano i ventilatori… oddio, se mi ammalo forse non mi intubano. Cillo sembra migliorare: è un po’ più attivo, ogni tanto scodinzola.

Intanto, il virus con tutto il suo bagaglio di morte si avvicina. Una telefonata mi informa che P. è morto, in casa, dopo una settimana di febbre e con tutti i sintomi del Covid. Nessun tampone. Le condizioni di Cillo sono di nuovo preoccupanti, ora gli inietto il cibo direttamente in gola con l’aiuto di una siringa. Lui mi guarda con i suoi occhi chiari. Sembra sorridermi dolcemente. Ho paura, la sera lo prendo in braccio e lo porto con me nel letto. Saperlo lì mi dà sicurezza.

Al risveglio però sono assalita dal terrore: temo che la notte lo abbia portato via, resto a letto ancora un po’, per farmi coraggio e controllare.

Giovedì 9 aprile è un mese esatto che sono chiusa in casa, Cillo sta male: stamattina è caduto, barcolla, respira a fatica. Conte ha detto in tv di non muoversi dal proprio Comune se non per emergenza. Il mio cane Cillo è un’emergenza e poi chissenefrega se mi fanno la multa. Andiamo a Portacomaro da A., un bravo veterinario che mi avverte che indietro non si torna.

A Cillo rimangono pochi giorni di vita. Sentire queste parole mi provoca un dolore immenso, rimango lì, con lui che mi guarda dolcemente e aspetto, con la sua zampa tra le mani, che il sonno profondo lo porti via per sempre. Tra le lacrime penso che lui, il mio Cillo, l’ultimo viaggio non l’ha fatto da solo, che se n’è andato con il calore di una carezza.

Nelle sale di terapia intensiva, nelle case di riposo, no: chi non ce l’ha fatta è morto da solo.

 

LA MIA QUARANTENA CON VISTA SUL VESUVIO

Mariachiara Squassino
Aiuto regista, 39 anni

 

Mi trovavo a Napoli per lavoro e lì sono rimasta bloccata per 60 giorni. L’appartamento in cui vivevo era minuscolo e la mia vita si è adagiata sul piccolo terrazzino: davanti, i tetti di Palazzo Reale e laggiù, monolitico, il Vesuvio.

Ho passato 60 giorni in compagnia di 2 gelsomini e 2 vasi di rosmarino. A cui si sono aggiunti Gomez – un merlo simpaticissimo che veniva a beccare le briciole –, una pianta di
basilico e decine di rondini, rondoni e gabbiani. Ho preso l’abitudine di pubblicare un piccolo video tutte le mattine, con il mio caffè appena fatto, il panorama circostante e un accompagnamento musicale la cui scelta trovava spiegazione in tre righe di commento.

Ho degustato molti ottimi vini campani e non solo, pubblicando relativa foto davanti al Vesuvio e descrizione dell’assaggio; ho mandato un Sos perché avevo una tremenda voglia di Barbera e i miei amici produttori mi hanno mandato la più buona del mondo, quella delle nostre colline. Mi è arrivato anche il Moscato d’Asti, che amo, e tutto ciò mi ha fatto sentire più vicina a casa.

Sotto il sole di Napoli ho letto molto e mi sono interrogata su cose assurde. Un giorno il mio pensiero ha ruotato tutto intorno al significato di “chiedere” e al fatto che in latino esistessero due verbi differenti a seconda che si chiedesse per sapere (quaero) o per avere (peto). E su questo concetto mi sono arrovellata per ore, riflettendo sul fatto che oggi si sia persa questa distinzione illuminante e che, in generale, forse proprio per questo, si chieda troppo per avere e ben poco per sapere. Elucubrazioni di questo tenore.

Ho partecipato alla Virtual 24x1ora correndo sul posto e alla Maratona Fenogliana virtuale leggendo un brano da Il Partigiano Johnny. Ho sentito forte il calore di Napoli e la voglia
di tornare a casa.Ho deciso che non rimanderò più nulla.

 

DA PROF A YOUTUBER PER I MIEI ALUNNI

Davide Rosso
Docente di scuola secondaria, 29 anni

 

Sapevo che questo sarebbe stato un anno memorabile per me, di certo non immaginavo lo sarebbe stato per il mondo intero. L’anno scolastico sta per volgere al termine eppure mi sembrano passati pochi giorni da quando ho messo piede in aula per la prima volta non più da alunno, ma dall’altra parte della cattedra.

Quello che è successo tra fine febbraio e inizio marzo è stato davvero improvviso. La routine scolastica è stata stravolta ma ci siamo subito ingegnati per crearne una nuova. Piattaforme specifiche per lo streaming live, un nuovo monte ore settimanale, metodi
alternativi per le spiegazioni e gli esercizi si sono rivelati il mezzo per non arrestare l’apprendimento dei ragazzi.

Nel giro di pochi giorni mi sono reinventato youtuber. Non che questo sia un mestiere facile, anzi, ho scoperto quanto possa essere complesso rendere interessante un video, stimolando i ragazzi solo con l’ausilio di immagini e musica. All’inizio di questa nuova sfida temevo che la mancanza di lezioni in presenza avrebbe svilito il rapporto che si era creato in classe. Mi sbagliavo. Ho trovato davvero piacevole poter conversare con i ragazzi e sentirli esprimersi liberamente su temi scolastici e non. Intravedere le loro camerette, o un angolo di casa loro, osservare i più timidi aprirsi perché “protetti” da uno schermo, mi ha
fatto conoscere una parte inedita di loro.

Nel giro di poco tempo si è creato un legame diverso, ma non per questo meno importante. Abbiamo letto racconti di Sepulveda, girato un video per la ricorrenza del 25 Aprile, discusso di attualità. Tutti sono stati chiamati a reagire a nuovi stimoli e tutti hanno risposto in maniera forte e decisa. Sono fiero di loro e sono felice di essere riuscito a portare a termine un’annata come questa che sicuramente finirà nel mio album – non solo digitale – dei ricordi.

 

DITEMI CHE COSA FARÒ A CAPODANNO

Beatrice Avallone
Graphic designer, 29 anni

 

Scrivo a più di settanta giorni di quarantena, e possiamo tirare alcune somme: finalmente ci siamo lasciati alle spalle quei fastidiosi bambini che suonavano piffero e pianola dalle finestre, e mi sembra già un risultato promettente. Le pizze brutte fatte in casa, le autocertificazioni compilate a casaccio e i forzati “andràtuttobene” sono un lontano ricordo.

Non abbiamo più dovuto stressare i cani per uscire, e non stiamo più subendo il reporting giornaliero di attività casalinghe, sparse sui vari social network. Non abbiamo nemmeno più il dubbio su chi siano i congiunti e sul perché il cugino di sesto grado lo possa essere, ma
soprattutto: perché mai dovremmo incontrarlo?

Il lievito madre è tornato negli scaffali dei supermercati, e i runner, prima additati e relegati nelle segrete dei castelli, adesso sono stati liberati, e possono finalmente correre liberi sui prati (o a prendere il lievito). Siamo passati dall’inverno all’estate senza accorgercene ma, soprattutto, senza dover combinare assurdi abbigliamenti a cipolla per la mezza stagione.

A Pasqua, Pasquetta, 25 Aprile e Primo Maggio abbiamo avuto i programmi chiari, e ammetto che in qualche decreto avrei sperato mi suggerissero anche qualcosa da fare per Capodanno 2021, per togliermi il pensiero. Per Ferragosto, invece, se potrò cambiar regione, so già che non potrò affogare e che non posso sostare sulla spiaggia, e guai a prendere il sole; potrò però buttarmi in mare e tornare a casa, grondante d’acqua, subito dopo.

Abbiamo imparato l’abc del vivere e della convivenza sociale, del tipo che non si sta tutti ammassati, si rispettano le code, si starnutisce senza scatarrare sugli altri, possiamo parlare senza toccarci, i mezzi pubblici vanno puliti, e ci si lava tutti i giorni (possibilmente). Siamo anche diventati un po’ virologi, statisti, politici, medici, personal trainer, complottisti, parrucchieri e chef. E dopo aver vissuto un’interminabile domenica durata oltre due mesi, vestiti costantemente in pigiama e spaesati come dal jet lag (o come dopo la visione completa della trilogia del Signore degli Anelli), ora ci ritroviamo a riappropriarci dei nostri spazi, muniti di guanti, mascherina e tanta voglia di apericena.

Sono sincera, non so se andrà tutto bene: credo, però, che il peggio sia passato.

 

IL TEATRO RIPARTIRÀ DALLA TERRA

Massimo Barbero
teatrante e ritrovato contadino, Teatro degli Acerbi, 46 anni

 

Mi ripetevo che avrei voluto un periodo sabbatico, un tempo sospeso dallo stratificarsi degli impegni senza fiato, degli incontri, delle continue “urgenze”, dalle “connessioni”. Un tempo per recuperare tempo, vederlo trascorrere osservandolo dall’uscio di casa, riordinare, rifiatare, ripensare.

E arriva questa quarantena inaspettata, la “guerra sul divano” con il telecomando e il cellulare a disposizione, l’allontanamento forzato. Che guerra non è assolutamente, come ci ricordano i nostri vecchi che abbiamo provato a proteggere dal nemico virus, ma che forse avendo davvero vissuto un vero conflitto ne hanno ben altra visione e approccio.

Mi sono sentito fortunato e privilegiato per il contesto nel quale ho attraversato la quarantena. Abito in campagna (per scelta, sono nato cittadino) e ho avuto la possibilità di accudire di più la terra, osservarla, “vedere il tempo” che scorreva, come mi ha insegnato un’attrice giardiniera. Quello raccontato nel parlare quotidiano dai contadini, dai teatranti e pensatori. E di curare la casa, luogo in cui tornare, stare, protetto. Da cui guardare il mondo.

Mi è mancato solo il contatto umano con alcune persone della mia vita, il guardarsi negli occhi, gli abbracci. Sono un nativo non digitale. Ho provato a colmare le distanze ascoltando musica, leggendo scritti e libri che si erano accumulati nel tempo o consigliati. Ho anche compiuto gli anni (o forse no) nel confino, pensando che forse nel conteggio sarà un anno a parte. Ho dovuto anche ascoltare (il meno possibile) le notizie, le decisioni, i numeri, i bollettini, osservare nella finestra virtuale sul globale la crescente inquietudine
delle persone, con un disperato bisogno di raccontarsi continuamente, di interpretare e gridare le paure, le abitudini interrotte.

E poi sì… c’è il teatro. La mia vita, il mio lavoro. Il nostro settore, quello dello spettacolo dal vivo, da sempre bello e fragile, apparentemente dimenticato e non considerato nelle rotte comuni (ma in realtà inconsapevolmente in quelledi quasi tutti e di consolazione) è stato travolto totalmente fin dalle origini dell’emergenza. Tra i primi a chiudere e tra gli ultimi a ripartire e con limitazioni, manco fosse un luogo più pericoloso di altri; forse dimenticandosi che è spazio di cura e di attenzione nelle relazioni.

Qualcuno ha addirittura pensato che si potesse trasportare in uno schermo, dimenticandosi che si fonda sull’incontro unico e irripetibile dal vivo! Può essere il fulcro della rinascita per le menti e le vite. Ora mi riaffaccio alla vita quasi normale con un germoglio spuntato nel terreno delle coltivazioni teatrali. Un seme già piantato prima di questa malattia della Terra. Una nuova narrazione che racconterò questa estate. Un “testamento dell’ortolano” che parte dalle radici, dalla terra, dai suoi (veri) saperi che si tramandano, dal suo conoscere il tempo attraverso lo scorrere di sole, luna e stagioni. “Terrigni e volanti”.

 

IL TOVAGLIOLO DELLO SCRITTORE

Rosalba Faussone
Ex titolare Trattoria del Mercato, Asti

 

Sono rimasta in casa. Io, la televisione e il telefono per parlare con le amiche. Dalle finestre la grande Piazza del Palio vuota mi faceva un certo effetto. Dall’altra parte, laggiù, c’era la mia trattoria del Mercato dove ho trascorso gli anni più belli della vita. Quanta gente, quanta amicizia e quei clienti speciali che venivano a trovarmi anche per le mie milanesi.

Tra loro c’è stato anche lo scrittore Luis Sepulveda. Ho ancora il suo tovagliolo firmato e sono stata davvero male quando ho saputo che il Coronavirus ce lo aveva portato via.
Mi ha fatto diventare protagonista di una sua storia scritta in un libro. E io lo ricordo nel mio cuore.

 

ANNA FRANK E GLI AMICI SCOMPARSI

Stefano Masino
Ufficiale giudiziario, ricercatore di storia e giornalista, 47 anni

 

Poco prima della quarantena, era il pomeriggio di sabato 29 febbraio, sono andato a trovare all’ospedale monsignor Vittorio Croce, per molti anni direttore della Gazzetta d’Asti. Era stato ricoverato all’inizio di febbraio per un controllo, e da poco era stato spostato in lungodegenza.

Mi sono trattenuto per oltre un’ora, sino alla cena, gli ho domandato se in passato era
già accaduto che sospendessero la celebrazione delle messe. Mi ha risposto che a memoria sua no, nemmeno durante la guerra. Poi è arrivato lo stop di gran parte delle attività. Non ho potuto recarmi a Cremona, in zona gialla. Noi ufficiali giudiziari ci siamo adeguati alle misure adottate dai vigili urbani: niente sopralluoghi, uscite solo per emergenze. Le giornate passano tutte uguali.

Il 25 Aprile mi ha portato a una riflessione. Mai come quest’anno possiamo intuire cosa può aver significato per i nostri nonni la Liberazione. Se per molti di noi è stato difficile restare in casa, e le piccole limitazioni alla libertà personale ci sono sembrate un germe di dittatura, immaginiamo come dovette essere la vera privazione e la paura all’interno dell’alloggio segreto di Amsterdam, dove il 4 agosto del 1944 la tredicenne Anna Falk e i suoi familiari furono arrestati dai nazisti e deportati nei campi di concentramento di Bergen-Belsen.

Il 27 aprile è giunta la triste notizia della morte di don Croce. A metà marzo era stato dimesso dall’ospedale e aveva fatto ritorno nel suo piccolo alloggio nel Seminario ad Asti. Ci mancherà.

LA 24X1 ORA DIVENTATA VIRTUAL

Michele Anselmo
architetto, vicepresidente Vittorio Alfieri, consigliere comunale, 42 anni

 

L’ultimo fine settimana di marzo è da 46 anni quello della “24×1 ora”, punto di riferimento per gli appassionati della corsa di tutto il Piemonte. Quest’anno sarebbe stata la mia 31a partecipazione consecutiva e ormai da un po’ di anni mi occupo anche dell’organizzazione, in prima persona con Giorgio Fracchia, l’ideatore e l’anima, e Silvia Binello, la Presidente della Vittorio Alfieri.

Complice il periodo di incertezze, un paio di giorni prima della fatidica data ho postato su Facebook la mia intenzione di correre ugualmente l’ora nel cortile di casa mia: se qualcuno avesse voluto farlo con me (a distanza) poteva scrivermelo. Nel giro di poche ore numerosi amici mi hanno scritto per dirmi che sarebbero stati anche loro in “pista”, ma a far nascere la prima “Virtual 24×1 ora” è stata la chiamata di Paolo Rosso, anima del Cepim, che mi ha proposto di creare un gruppo Facebook dedicato all’iniziativa, di aprirla ad altri sport e di abbinarvi un aspetto solidale chiedendo una iscrizione di 10 euro da donare direttamente all’Ospedale di Asti o alla Protezione Civile.

È nata così ufficialmente una delle avventure più esaltanti della mia vita: alle 13, orario di partenza, eravamo già un centinaio ad avere aderito, ma durante le 24 ore il numero è
cresciuto sempre più fino ad arrivare a circa 600, con adesioni da ogni parte d’Italia, dagli Stati Uniti, dall’Australia, Francia, Germania, Irlanda e Spagna. Dalla postazione ricavata sul mio terrazzo, abbandonata solo per correre la mia ora e per dormire un’oretta di notte, ho cercato di coordinare tutto l’entusiasmo che si riversava sulla pagina Facebook con dirette, foto, risultati, cercando di documentare le migliaia di interazioni che arrivavano
da ogni parte, sempre con l’emozione di essere riusciti a superare, per qualche ora, la drammatica situazione.

Ma dove si è corso? Viste le limitazioni imposte, i più fortunati lo hanno fatto nei giardini di casa o nei cortili, i più intraprendenti in circuiti entro i 200 metri dalle proprie abitazioni, ma i più encomiabili lo hanno fatto sul posto, sul balcone, intorno al tavolo della cucina, in impervi percorsi ricavati tra le varie stanze del proprio appartamento o sulle scale dei condomini.

L’idea è stata poi ripresa nelle settimane successive dalla Sba (basket), dal Canelli San Domenico Savio (calcio) e in tutta Italia le varie manifestazioni podistiche si sono trasformate in “Virtual”, regalando ai partecipanti un momento di serenità e solidarietà.

 

QUELL’INFERNALE ATTESA DEI 14 GIORNI

Giuseppe Prosio
pensionato, giornalista, Moncalvo, 72 anni

 

Sono scivolato nell’angoscia del coronavirus fin dal primo momento con due paure. La prima, quella di accedere anzitempo al regno delle ombre. La seconda, i tempi di incubazione di questa pestilenza: 7-14 giorni.

Mi consuma i nervi, il non sapere se oggi sono contagiato dato che fino a 14 giorni fa non lo ero. E cosi avanti di 14 giorni in 14 giorni, come se un’infernale ruota si divertisse a tenermi in sospeso fin quando la peste non finirà. Oltre a ciò, il caso della mancanza di mascherine.

Stavo per indossare la bellissima bautta costruita anni fa dal miglior laboratorio veneziano di maschere, se non fosse intervenuta l’abilità ingegnosa di moglie, esperta in origami,
a costruirne un paio con carta da forno. Ho ricevuto poco dopo la “chirurgica” da parte del Comune, ma sto ancora aspettando quella promessa dalla Regione.

Noi dei paesi siamo messi peggio di chi abita in città come Asti, che può usufruire di altruistici supporti dal volontariato. Quanto alla ripresa economica del Paese e a quel che verrà dopo, sono un disperante millenarista convinto che con la burocrazia che abbiamo non ci sia salvezza. Forse per spazzare via questa foresta pietrificata che ci uccide più del coronaviris servirebbe un demiurgo o un ordinatore del mondo, magari l’imperatore della Galassia.

 

SONO ENTRATA IN UN DIPINTO ANNI ‘30

Angelica Borio
Laureata in sociologia, 25 anni

Tanti, tantissimi, quasi troppi gli eventi curiosi susseguitesi in queste settimane di “sospensione”. Potrei raccontarvi della mia discussione di Laurea magistrale in Sociologia e Ricerca Sociale virtuale, dei festeggiamenti via skype oppure della soleggiata Pasquetta trascorsa sul balcone dell’appartamento in cui vivo, a fare bolle di sapone. In alternativa potrei parlarvi delle mille videochiamate alle amiche o delle partite a “nomi, cose e città”.

Ho persino messo alla prova le mie (scarse) doti culinarie. Poi ci sono le lunghe riunioni online delle associazioni di volontariato di cui faccio parte che, nonostante il momento infausto, hanno saputo far valere la loro presenza. Invece vi propongo l’immagine che trovate qui a fianco. Un’opera d’arte: la mia personalissima interpretazione de La ragazza in verde (a sinistra la sottoscritta Angelica, a destra la vera star del dipinto), icona dell’Art Decò realizzata tra il 1930 e il 1931 da Tamara de Lempicka, esempio di emancipazione, determinazione, di un pizzico di follia e di autenticità.

Il curioso invito a imitare le opere d’arte deriva dal Getty Museum di Los Angeles, che ha
saputo coinvolgere e avvicinare all’arte molte persone. In questo modo, innumerevoli capolavori hanno preso vita, promuovendo una costruttiva evasione dalla grigia apatia
a favore della fantasia, con simpatici tentativi home made.

Nonostante la paura, la rabbia, l’incertezza, lo sconforto, la tensione psicologica alla quale ognuno di noi è sottoposto, c’è e deve sempre esserci spazio per la speranza, verde come l’abito della donna dipinta dall’artista.

 

LA TIRÀ DI MIA MAMMA

Angela Castino
Insegnante di scuola primaria, 55 anni

 

Sono giorni nuovi, la sveglia non suona più al mattino. La scuola è chiusa. I miei alunni, i loro volti, il loro chiasso, non vedo e non sento più nulla. Va bene, cerchiamo di fare qualcosa di diverso! C’è più tempo da bdedicare alla cucina, si fanno esperimenti: leggo su YouTube la ricetta per dei cornetti dolci, fatti con burro e uova. Provo. Ementre mescolo gli ingredienti, farina, latte, scorza di limone grattugiata, la mente torna al passato. Sembra proprio lo stesso impasto fatto dalla mamma per preparare la tirà.

Noi la chiamavamo così. Si mangiava soprattutto nel periodo pasquale questo dolce; aveva la forma di un pane allungato, dorato in superficie e cosparso di zucchero in granelli. Dentro era di un giallo tenue, morbido, dolce. Mi piaceva inzupparla nel latte la mattina, magari spalmarla con del burro e della marmellata, fatta in casa naturalmente.

La mamma la cuoceva nel forno a legna (dove cuoceva anche il pane più buono che io ricordi). Non ho più mangiato una tirà buona come quella della mamma. Intanto l’impasto è pronto, seguo come sono capace le indicazioni per dargli la forma di piccoli cornetti… sono pronti da cuocere.

Mi resta una parte di impasto, sì, gli do la forma della tirà e mi sento già il sapore in bocca.
La cospargo di zucchero. È cotta. Alta, dorata e fragrante, profuma e assomiglia nel profumo e nel gusto a quel dolce quasi scomparso dei miei anni di ragazza. Sono felice, non
è buona come quella della mamma, ma almeno mi sono avvicinata. La mamma sarà contenta e ridendo penserà: «Brava, ma ci voleva la quarantena per fare la tirà?»

CIÒ CHE LA QUARANTENA MI HA DATO E MI HA TOLTO

Angela Bortot
Impiegata, 61 anni

 

Per mia fortuna ho trascorso la quarantena in campagna. Questo periodo ha concesso occasioni ma anche portato via molte cose.

Mi ha dato ad esempio la possibilità di godermi la mia casa intesa come luogo fisico; mai avuto tanto tempo a disposizione. La possibilità di fare le cose con calma, senza fretta e soprattutto senza mai guardate l’orologio (se non per la cottura in forno). La possibilità di “scoprire” quanto sono belle le nostre città libere dal traffico. Mi sembra di vedere vecchie illustrazioni.

La possibilità di soffermarmi a pensare quanto sono fortunata rispetto a tante persone che vivono nell’indigenza, nella povertà e nella sofferenza.

Ma la pandemia mi ha tolto la possibilità di abbracciare i miei cari, figli nipotina nuora fratello e nipoti, noi siamo una famiglia numerosa e molto unita. Abbiamo dovuto rinunciare ai nostri fine settimana con i piedi sotto al tavolo. Ha tolto la possibilità di partecipare alle funzioni religiose, in particolar modo alla messa festiva, nella Settimana Santa e a Pasqua. La possibilità di avvicinarsi ai sacramenti. Di incontrare gli amici per la solita partita a carte settimanale, le riunioni in pro loco, prove di canto e le uscite con il gruppo j’Arliquato.

La possibilità, soprattutto, di salutare e accompagnare nel suo ultimo viaggio mio cugino che non è riuscito a sconfiggere questo maledetto virus.

 

CUCÙ VITTORIO ECCOMI A CASA

Alice Avallone
Docente Scuole Holden e digital strategist, 35 anni

 

Sarei dovuta arrivare la mattina dell’otto marzo, con il solito regionale e con il solito programma: mangiare un rassicurante piatto di agnolotti fatti in casa, contemplare dal terrazzo il campanile del mio borgo Santa Maria Nuova e passare il fine settimana in famiglia.

Ad Asti, però, non ci sono più tornata. Il giorno precedente una bozza di decreto metteva la città tra le nuove quattordici province in lockdown; il giorno successivo, chiudeva tutta
l’Italia. Passerà presto, pensavo, ma avevo sottovalutato la situazione, come tutti. Prima due settimane, poi altre due, e altre due ancora, fino a che una notte ho avuto un incubo. Scendevo alla stazione di Asti e non c’era anima viva in giro, tutte le persiane erano chiuse, i negozi abbandonati. Ma si sa, la notte è abitata dalle nostre paure e lì per lì non ci ho fatto caso.

Il ritorno a casa, in realtà, stava diventando per me una piccola ossessione. Per sentirmi più vicina ho ascoltato ogni diretta del sindaco, anche quelle dal mercato di piazza Catena, ho curiosato tra i gruppi Facebook animati dai miei concittadini, ho guardato con nostalgia il feed di Instagram. E sì, ho immaginato di tornare, anche durante il giorno. Dalla stazione a casa mia, secondo Google Maps, ci sono 700 metri, percorribili secondo l’algoritmo in 9 minuti a piedi al netto della gentilezza degli automobilisti.

Che poi, lo confesso, a volte ci metto anche meno: per far prima, come la maggior parte degli astigiani, attraverso la rotonda di piazza Marconi per scivolare davanti al fioraio all’angolo e attraversare Campo del Palio facendo zig-zag tra le macchine. Fin dai tempi
dell’università, ho sempre percorso quel tragitto con una gran fretta di arrivare sotto i portici di piazza Alfieri e girare la chiave del portone.

Adesso ho escogitato un nuovo piano. Quando potrò fare ritorno, non vorrò più avere più fretta di tornare a casa e andrò lentissima. Scenderò dal treno senza precipitarmi giù per le scale, guarderò i giornali dell’edicola, fuori passerò davanti alla gelateria, poi davanti al sexy shop e stavolta attraverserò sulle strisce bianche di corso Matteotti. Ritroverò le vetrate del bar Italia, i sanpietrini di via Cavour, le tettoie verdi di piazza Statuto. Un saluto
a San Secondo e poi andrò dritta per il corso, passando sotto il porticato che ospita la cartoleria di via Gobetti.

Ho pensato proprio a tutto: dal Cocchi, arriverò alle spalle di Alfieri. Cucù, Vittorio, eccomi a casa. Così ho deciso di riappropriarmi della mia città natale, dopo così tanto tempo. E vi dirò di più: anche il palazzo della Provincia mi piacerà come non mai.

 

A BRATISLAVA LA PASQUA CON I PARENTI IN VIDEO

Roberto Vercelli
Dirigente bancario, 58 anni

 

Ero a Gyor, in Ungheria, il weekend del 23-24 febbraio per un evento sportivo con altri 500 colleghi da tutta Europa. Iniziarono ad arrivare notizie che a Milano dal lunedì avrebbero lavorato tutti in home office. Tornai a Bratislava, dove lavoro dal novembre 2017, e in cui sono bloccato dal 14 febbraio scorso.

Circa tre mesi, fatti di voli cancellati e di lunghe giornate in ufficio con mascherina e video call continue. Siamo stati aiutati dalle norme severe predisposte dalla Slovacchia prima ancora che si manifestassero casi di Coronavirus. Il primo lunedì, camminando verso l’ufficio, non ho incontrato nessuno. Tram vuoti, silenzio, macchine sparite, polizia ovunque.

Ma il rispetto di queste regole ha fatto in modo che a due mesi dalle prime restrizioni, il paese stia già pensando di riaprire tutto senza aver avuto un numero significativo di casi e morti per Covid 19. I giorni lavorativi sono volati via in fretta, ma i weekend sono stati
più complicati. Moglie, figli, fratelli e sorelle, papà anziano e un poco ribelle in Italia, contattabili solo in video call o telefonate.

Ma quante cene in video con Ornella e quante serate passate al cinema insieme scegliendo lo stesso film e commentandolo via WhatsApp! Ci si adegua. Avere tanti amici e tanti centri
d’interesse mi ha aiutato molto. Tanta la preoccupazione per lo zio Don, anziano in casa di riposo, e per parenti e amici colpiti da questo virus bastardo. Poi è arrivata la Pasqua, sempre vissuta in famiglia con oltre venti persone a pranzo, tutti insieme attorno al nonno. Quest’anno no.

Ma nel pomeriggio, tramite videochiamata, ci siamo collegati e abbiamo passato quasi due ore tutti insieme. Non è la stessa cosa, ma ci siamo sentiti vicini.

 

QUEL PIANTO SULLE AUTOMBULANZE

Marco Pappalardo
Infermiere del Servizio 118 Asti Alessandria

 

È difficile raccontare cos’è stato… di colpo ci siamo ritrovati in un contesto diverso, era tutto cambiato, la sofferenza dei pazienti era cambiata. Come si può trasmettere empatia nascosti dietro una maschera con il corpo coperto da tute che non fanno trapelare nulla di chi li indossa?

Durante la pandemia ero in forza al 118 di Alessandria e Asti, dove lavoro da 4 anni. All’inizio credo che nessuno di noi avesse realmente percezione della gravità del problema, ricordo che iniziarono ad esserci un numero di nuovi protocolli, segnalazioni, indicazioni
giornaliere inoltrate dalla centrale operativa del 118 che aumentavano periodicamente.

Ho visto persone piangere, figli di genitori in condizioni gravi che noi accompagnavamo in ospedale, piangevano perché erano consci che il proprio caro non ce l’avrebbe fatta e loro
non avrebbero potuto accudirlo, stringergli la mano, neppure rivederlo. Si dice che “la speranza sia l’ultima a morire” ma come ci si sente quando la speranza muore prima?

Il lavoro di tutti gli operatori sanitari è stato incessante. In alcuni contesti si è diventati “parenti” in altri invece complici che banalmente aiutavano a fare le video chiamate a casa.
Fra di noi ci si aiutava a vestirci, l’uno controllava l’altro, il rischio che ci portassimo a casa qualcosa era elevato. Personalmente ho vissuto in apnea accompagnato da orrori di giorno e incubi di notte o viceversa a seconda del turno di lavoro.

Concludo con un pensiero rivolto a tutti quelli che hanno sacrificato la loro vita per curare gli altri e con un pensiero a tutte le persone che hanno perso la vita a causa di questo
virus. Non vanno dimenticati, abbiamo superato una battaglia, ma la guerra non è ancora del tutto finita. Non abbassiamo la guardia, riprendiamo in mano la nostra vita, in sicurezza!

 

PER OGNI DISEGNO UNA PIADINA

Roberto Cairo
Titolare Gina La piadina

 

Ho lanciato su Facebook un gioco riservato ai bambini portatemi un vostro disegno vi regalerò una piadina

 

TORNARE LIBERI MA DIVERSI

Martina Gerbi
Psicologa e psicoterapeuta, 35 anni

 

La prima settimana è stata una vacanza inaspettata: una parentesi nella vita frenetica, sette giorni in cui mi sono concessa letture da tempo rimandate e film alle ore più disparate. La seconda settimana ho deciso di dedicarmi alle pulizie di primavera: già che devo stare a casa, perché non approfittarne per pulire a fondo il frigo, fare il cambio dell’armadio, eliminare manciate di vestiti dismessi?

La terza settimana già non vedevo l’ora di tornare alla routine di sempre. Mi sono sorpresa a rimpiangere le giornate colme di attività, di corse fra asilo e lavoro, di docce alle undici di
sera. Così l’ho dedicata a progettare eventi formativi con le colleghe, a rimettermi all’opera con colloqui in videochiamata, a produrre e mandare in onda video informativi tramite i social.

Dalla quarta settimana ho realizzato che quella che stavo vivendo non sarebbe stata una parentesi bensì una nuova routine, stabile. E chissà fino a quando. Ho cominciato a sperimentare così una serie di emozioni spiacevoli: paura, impotenza, noia, rabbia.

A oggi queste emozioni continuano a essere presenti a tratti, soprattutto la notte, quando la razionalità abbassa la guardia e la parte emotiva è più libera di dilagare. So che sono emozioni comprensibili e che è normale sperimentarle. Cerco di contenerle tramite la pratica dello yoga e il tempo trascorso con la mia cucciola di nove mesi, stupendomi dei piccoli grandi progressi che ogni giorno compie e che sto vivendo minuto per minuto. Tento di riempire il vuoto relazionale con videochiamate a parenti e amici. Cerco di adattarmi a questi ritmi lenti a cui non sono abituata improvvisando nuovi passi di danza.

E se anche non credo più all’hashtag #andràtuttobene a cui mi ero aggrappata con ogni fibra di me stessa durante i primi giorni della quarantena, penso che questa situazione possa insegnarci tanto e a ognuno un aspetto diverso. Per quanto mi riguarda so che guarderò con occhi diversi al valore della libertà tanto semplice quanto scontato prima di inizio marzo.

La libertà di uscire semplicemente per camminare spensierata per il parco sotto casa. La libertà di portare mia figlia al nido e andare in studio a riceve i pazienti, stringendo mani e dispensando sorrisi non celati dalla mascherina. La libertà di poter abbracciare le mie amiche, di concedermi una cena fuori con mio marito. La libertà che non vedo l’ora di poter riassaporare con una nuova consapevolezza.

 

HO PENSATO AI MIEI GIACINTI IN LANGA

Mario Zunino
Docente universitario in pensione, 75 anni

 

Una giornata di Ivan Denisovi. Gian Dedionisi. Stamattina mi sono svegliato con in testa Solženicyn, non so perché, saranno almeno quarant’anni che l’ho letto. Forse perché oggi sarà ancora una giornata. Una come tutte le giornate da un paio di mesi a questa parte, clausura e cercare di escogitare qualcosa per occuparmi, qualcosa che non mi faccia pensare a fuori. Che mi tolga il ricordo di Tucidide e la peste di Atene, Manzoni e quella di Milano, il colera di García Márquez.

La pandemia, le mascherine, i guanti monouso, il gel per disinfettare le mani. Come sempre, mi sono alzato presto, da tantissimi anni mi corico con le galline e mi alzo con il gallo. Pastiglietta di antidepressivo, collirio, una moka da tre. Poi i cinquecento passi sul balcone. Meno che per la sigaretta, è come per un lupo in un recinto, non ho ancora scavato un solco con questo andare e venire, ma poco ci manca.

Il rito delle notizie in internet, la posta elettronica e skype, un incrociarsi di “come state lì? Noi qua toccando ferro (o legno, o altri scongiuri a seconda del paese) per ora bene”. l tutto condito dalle solite faccine gialle più o meno espressive o spiritose. Non debbo pensare che davanti a quella vecchia casa di pietra sperduta fra le Langhe più alte saranno fioriti i giacinti.

L’anno scorso erano quasi trecento, coloratissimi, profumatissimi. Non debbo pensare
ai caprioli che mi staranno brucando i cespugli di Calicanthus attorno al cortile. O ai cinghiali che di notte butteranno tutto all’aria grufolando.

La sera ci mette un’eternità ad arrivare. Telegiornali tutti sul Covid, o su qualche politico tranquillizzante tanto da inquietare e qualche altro che ribatte isterico o ipocrita. Domani è un altro giorno. Ma forse sarà davvero altro. Forse potremo dire che andrà tutto bene. E finalmente crederci!

 

UN FERMO IMMAGINE IN ATTESA DI TORNARE A FRINCO

Lorenza Actis Foglizzo
Pensionata

 

Sono un’astigiana “stagionale”, avendo una casa di famiglia a Frinco. Nel periodo dalla primavera all’autunno, io e mio marito, che abitiamo in provincia di Torino, dove vivono figli e nipoti, ci andiamo appena possiamo.

Il 7 marzo ci eravamo tornati dopo la parentesi invernale, era una bella giornata tiepida che
annunciava l’imminente primavera. Il Covid-19 era già arrivato e dalle prime zone rosse della Lombardia cominciava ad espandersi in tutto il nord Italia. La situazione era ancora confusa.

La visita alla casa tra le colline fu breve, giusto un’occhiata con l’intento di tornarci presto. Lasciando il paese ricordo l’immagine che mi si è presentata davanti agli occhi: una distesa di dolci colline che volgevano al verde brillante accarezzate da una luce dorata, giusto
l’attimo prima del tramonto. Ho dovuto fermarmi per scattare una fotografia perché sentivo il bisogno di catturare quel momento magico in cui tutto era così perfetto e inviolabile, avrei voluto non finisse mai.

Pochi chilometri dopo, abbiamo sentito alla radio la notizia che Asti e provincia erano diventate zona rossa: un brusco ritorno alla realtà dalla quale ci eravamo allontanati per un attimo, ammaliati da un tramonto incantevole. Sono passati due mesi, ho pensato spesso alla mia casa abbandonata, so di essermi persa il momento più bello dell’anno. Mi resta una foto con le colline accarezzate da una luce dorata. Finalmente.

 

CAMMINARE IN CENTRO NEL SILENZIO MATTUTINO

Alessandro Sacco
Impiegato Asp, giornalista, 40 anni

 

Durante il periodo della quarantena ho svolto la positiva esperienza dello smart working. Tutti i giorni, di prima mattina, sono uscito di casa per una passeggiata nel centro storico di
Asti, prima di iniziare il lavoro a casa, in via Bonzanigo. In quel modo ho avuto la possibilità di prendere una boccata d’aria e schiarirmi le idee in vista della giornata.

Indossando la mascherina e rimanendo nei dintorni della mia abitazione per rispettare le disposizioni, alle 7,15, per una ventina di minuti, ho percorso in lungo e in largo il silenzioso quadrilatero parallelo a corso Alfieri. Non sono mai arrivato in piazza Roma e solo qualche volta ho toccato piazza San Secondo e piazza San Giuseppe. Mi ha sempre colpito non incontrare altre persone, fatto insolito per quell’ora, se non qualcuno diretto al lavoro, operatori della raccolta rifiuti o fornitori dei pochi negozi rimasti aperti.

In quelle passeggiate mi hanno accompagnato gatti, piccioni e il cinguettio di uccellini stranamente indisturbati grazie all’assenza delle auto. Un silenzio irreale che mi rimarrà impresso ricordando questo periodo.

 

TENIAMO LE DISTANZE MA CON UN SORRISO

Paolo Fresu
Pittore

 

IL DIARIO RESTA APERTO

Chi volesse aggiungere la propria testimonianza al “Diario della quarantena” di Astigiani può inviarla a info@astigiani.it indicando nome, cognome e numero di telefono.
Saranno pubblicate sul nostro sito www.astigiani.it

 

 

L'AUTORE DELL'ARTICOLO

La Redazione di Astigiani
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Astigiani è un'associazione culturale aperta, senza scopo di lucro, che ha bisogno del sostegno di altri "Innamorati dell'Astigiano" per diffondere e divulgare la storia e le storie del territorio.
Tra i suoi obiettivi: la pubblicazione della rivista trimestrale Astigiani, "finalizzata alla raccolta e diffusione di informazioni e ricerche di storia e cultura astigiana dal passato remoto a quello prossimo, con uno sguardo al presente e la visione verso il futuro (dallo statuto), la raccolta di materiale per la creazione di un archivio fotografico, video e documentale collegato al progetto "Granai della memoria", la realizzazione di presentazioni pubbliche e altri eventi legati al recupero della memoria del territorio.

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