Il titolo: “I pelagra”: la pellagra era una malattia della pelle, con conseguenze gravi, causata da un’alimentazione soprattutto a base di mais, ovvero polenta. Il termine venne poi esteso a chi viveva in condizioni di estremo disagio, ai limiti della sopravvivenza dalla povertà; in altri casi chi conduceva vita ai limiti della legalità. Come a voler significare che il Pelagra e la sua famiglia erano la pelle infetta di croste, portatore di una malattia che volendole lo rendeva incapace di dare sostentamento sufficiente ad una sopravvivenza decorosa, confinandolo ai margini della società.
Febbraio 1947: Antonio e Teresa arrivano ad Asti sul treno del Sud. Per la prima volta vedono la neve. Teresa aspetta un bambino. Poco dopo nasce Giuseppe, autore del racconto. Sono accolti da un amico con cui Antonio aveva fatto il militare.
Antonio e Teresa sono costretti a mettere in collegio-orfanotrofio, al “Vittorio Alfieri”, a quattro anni, Giuseppe e due anni dopo anche la figlia. I due bambini resteranno in collegio 9 anni: i genitori trovano lavoro come mezzadri. I bambini tornano a casa solo il sabato e la domenica, e non sempre.
La particolarità del libro sta nella capacità del narratore di raccontare parallelamente Asti e la Calabria, dove non ha mai vissuto. Ma ha ascoltato la madre, soprattutto da anziana, alla Casa di riposo. La madre gli ha trasmesso l’amore e la conoscenza per quella terra, intensa e aspra. Di più di questo straordinario libro è difficile dire. È da leggere. Non è un racconto di nostalgia, è una specie di cronaca affettuosa. E ti viene la voglia di chiedere un giorno a tua madre, tutti i giorni a tua madre, di raccontarti le cose che tu non hai vissuto, che ha vissuto lei prima che tu nascessi.