Questa intervista è stata realizzata in due momenti. Il primo a settembre durante un incontro nella casa del cardinale a Isola d’Asti (nella foto con Pippo Sacco e Sergio Miravalle). La seconda parte è il frutto di uno scambio di domande e risposte scritte intercorso tra la redazione di Astigiani e il cardinale che era a Roma in Vaticano.
Qual è il primo ricordo della sua infanzia? «Quando a tre anni si andava all’asilo ricordo che non c’erano ancora pericoli sulla strada: andavamo e tornavamo a piedi con mio fratello Alessandro con il cestino per il pranzo e mia madre che veniva fino alla svolta per il paese. Ecco, la rivedo così. Sono nato nel ’27, Alessandro nel ’26 e mia sorella Assunta nel ’29, purtroppo entrambi già mancati. Poi c’è Piero, in pensione dalla banca San Paolo, Maria che cura la casa paterna qui a Isola e Ausilia in Fassio, che vive ad Asti e che ha sempre insegnato al liceo».
Com’è stato vivere in una famiglia numerosa? «Bello, perché oltre a noi in casa c’erano anche la nonna, il nonno Alessandro e altri tre fratelli di mio padre: uno si è sposato presto, gli altri due vivevano in casa. A tavola eravamo sempre tra i dieci e i dodici. La nostra famiglia era originaria di San Martino Alfieri e all’inizio dell’800 mio nonno si trasferì a Isola, sapendo che c’erano terreni da vendere. Andava a lavorare campi anche oltre il Tanaro. Nel 1901 il nonno contribuì all’edificazione della chiesa di Isola Villa, portando gratuitamente i mattoni con il suo carro trainato dal cavallo. Tutti noi sei figli siamo nati a casa, con una buona levatrice che girava per le campagne con il suo calesse».
La sua famiglia era anche molto religiosa. «Mio zio, don Pietro Sodano, ha insegnato in seminario per qualche anno, laureandosi a Bergamo in scienze sociali. Io sono andato presto in seminario e sono stato ordinato sacerdote il 23 settembre 1950 dal vescovo monsignor Rossi».
Quel vescovo ha segnato la sua vita «Era un ottimo presule. Mia madre aveva una particolare venerazione per lui anche per un episodio straordinario della sua vita. Nel ’44, con il ponte sul Tanaro danneggiato dai bombardamenti e sostituito da barche, lei una volta la settimana mi portava in seminario in un borsone un po’ di grissie di pane fatto in casa, venendo ad Asti in bicicletta o, tante volte, anche a piedi. Sul ponte di barche c’era un posto di blocco. I tedeschi e i repubblichini un giorno la fermarono, trovarono il pane e la accusarono: “Lei fa la borsa nera”. “Porto un po’ di pane a mio figlio che studia in seminario” rispose mia madre. “Sono tutte storie, in seminario non hanno bisogno di pane”. Così la arrestarono e la portarono in questura. Era mercoledì, giorno di mercato, e giorno di visite dei parenti in parlatorio. Non vedendo arrivare mia madre, lo dissi al rettore mons. Stella, che mi tranquillizzò e telefonò al posto pubblico di Isola per avere notizie. Il telefonista andò a casa nostra in bicicletta a cercare mamma Delfina e gli dissero che era venuta giù presto ad Asti a piedi perché la corriera non viaggiava. Verso sera si allarmò anche il rettore, che andò in questura. Gli dissero che avevano fermato una donna, ora in lacrime, per contrabbando di pane. Il rettore andò a informare il vescovo e monsignor Rossi arrivò in questura a testimoniare a favore della nostra famiglia. Chiarito l’equivoco, il vescovo fece riaccompagnare mamma Delfina a Isola con la sua auto, superando i posti di blocco. Tutto finì bene, però le grissie di pane se le erano già divise i questurini».
Suo padre Giovanni è stato anche deputato per la Dc «Era della classe 1901, già da giovane militava nell’Azione Cattolica. A 25 anni aveva fondato una società cooperativa tra viticoltori. Compravano tutti insieme concimi, pali da vigna e gli altri prodotti per l’agricoltura, che andavano a prelevare alla stazione di Isola. Poi il fascismo fece interrompere l’attività. Per lui fare politica, anche quella a Roma, è sempre stato essere al servizio della comunità. Era un dirigente della Coltivatori Diretti, molto amico del novarese Bonomi che la dirigeva. Il mondo agricolo e i suoi valori sono sempre stati il suo punto di riferimento».
Com’è nata la sua vocazione? «Devo dire che è maturata poco a poco. Quando uno si innamora dicono che ci può essere il colpo di fulmine, ma c’è anche chi si innamora giorno per giorno della vicina di casa o della compagna di scuola. La mia vocazione è stata un crescendo di convinzione. Da ragazzino facevo parte di un bel gruppo di chierichetti della parrocchia. Passavano missionari – era l’allora parroco don Giacomo Melano che li invitava sovente – per lo più della Consolata, ma anche un cappuccino che parlava delle gesta in Africa del cardinal Massaia e la mia vocazione nacque un po’ con l’idea di diventare missionario, più che di essere legato alla diocesi di Asti come parroco. Mi piaceva molto questo ideale missionario».
Ricorda l’ingresso in seminario? «Finite le elementari, avrei dovuto iniziare l’allora ginnasio (ora i tre anni delle medie), non c’era la comodità delle corriere ed era complicato viaggiare. Don Melano consigliò il seminario, dove avrei potuto studiare e capire se c’era anche la vocazione sacerdotale. Io ne ero ben contento. Conoscevo diversi ragazzi che da Isola erano andati in seminario e diventati preti, due dei quali missionari salesiani. Tra questi, don Fogliotti che andò missionario in Argentina. Anni dopo, quando fui alla Nunziatura a Montevideo, decisi di andare con l’aereo a fargli visita, anche se non lo conoscevo. A Rio Negro tre preti mi aspettavano e lui mi venne incontro per primo alla scaletta, dicendomi in piemontese che mi aveva riconosciuto perché somigliavo tutto a mio padre. Quando nel 1950 fui ordinato sacerdote eravamo in nove, quelli dell’anno seguente in cinque o sei, ho visto anno dopo anno calare il numero delle ordinazioni, un fenomeno che deve preoccupare tutta la Chiesa».
Com’è che un giovane sacerdote passa da Asti a Roma. Non capita a tutti. «Il vescovo Rossi, che riceveva richieste dal Vaticano di mandare sacerdoti alle università pontificie, mi disse: “Visto che ti piace studiare, andrai a Roma, poi vedremo”. Io insegnai un anno in seminario come assistente dei chierici e poi nel ’51 andai alla Pontificia Università Gregoriana, dove nei tre anni successivi mi laureai in teologia, per poi tornare ad Asti a insegnare in seminario. Quattro anni dopo dal Vaticano arrivò al vescovo una lettera del cardinal Tardini, pro Segretario di Stato, secondo la quale anche la diocesi di Asti doveva mandare qualcuno alla Santa Sede per le tante necessità di assistenza agli emigrati all’estero, per i cappellani militari, per le nunziature all’estero e per il servizio della curia romana. Una vera e propria richiesta di lavoro, con tutte le caratteristiche necessarie. Il vescovo rispose che non era possibile, ma il cardinal Tardini insistette, chiedendogli di ripensarci. Passò un po’ di tempo e il nuovo vescovo di Asti monsignor Cannonero mi chiamò, dicendomi che intendeva presentarmi per il servizio alla Santa Sede, visto che a suo tempo – quando conseguii la maturità non in seminario, ma al liceo classico di Asti – ricevetti dagli insegnanti le congratulazioni per il greco e il latino. A Roma mi fecero frequentare un altro corso all’accademia ecclesiastica per il servizio diplomatico all’estero e in Vaticano. Altri due anni, con molto diritto internazionale, storia dell’Europa e dell’America, con lingua francese e inglese obbligatorie e spagnolo o tedesco a scelta. Dopo i due anni, un po’ di pratica in Segreteria di Stato per qualche mese e poi fui destinato a Quito in Equador per i primi tre anni. Nel 1962 iniziò così la mia carriera diplomatica vaticana».
Dunque un prete con la valigia. Da allora ne ha fatti di viaggi «Quando dissi a mio padre che ero destinato in Sud America, volle venire fino a Genova per vedermi partire per gli Stati Uniti con la nave che in otto giorni raggiunse New York e costava molto meno dell’aereo (il Vaticano, che pagava il viaggio, faceva attenzione ai costi). Da New York volai a Caracas, poi sulla costa dell’Ecuador a Guayaquil e dal porto di quella città, dopo oltre tre ore di corriera, arrivai sulla cordigliera a Quito. Fu una prima esperienza. La Segreteria di Stato fa ruotare molto i giovani per la formazione del personale diplomatico, quindi andai altri due anni a Montevideo e poi quasi altri tre a Santiago del Cile, dove tornai molti anni dopo come nunzio».
Dopo l’esperienza sudamericana, si occupò dell’Europa orientale. Erano gli anni della guerra fredda, dei difficili rapporti tra la Chiesa e il blocco sovietico «L’allora segretario di stato cardinale Casaroli mi conosceva bene. Si era ammalato il prelato che seguiva i paesi dell’Europa orientale. Io conoscevo il tedesco perché d’estate, anziché restare a Isola, trascorrevo le vacanze in un convento di cappuccini sul lago di Costanza. Cominciò così, quasi per caso, perché nella vita non sempre tutto è predeterminato. La prima volta il cardinal Casaroli mi mandò a Berlino, ancora divisa dal muro, e mi chiese se me la sarei sentita. Io ero ancora giovane ma risposi che sapevo cosa dovevo fare, secondo le istruzioni ricevute. Di lì iniziò un rapporto con Casaroli che durò dieci anni».
Dalla diplomazia ai vertici della gerarchia vaticana come Segretario di Stato. Una carriera sacerdotale difficile da sintetizzare. Ci prova? «Dando uno sguardo alla seconda fase della mia vita sacerdotale posso dire che sono stati lunghi anni di servizio alla Chiesa universale. Ben 55 anni dal 1960, con 65 di sacerdozio: sono lieto di aver compiuto tale servizio, anche se molto sacrificato in alcuni momenti. Ricordo gli anni e gli incontri passati in America Latina, in Ecuador, in Uruguay e in Cile. Gli anni passati a Roma nell’allora Consiglio per gli Affari Pubblici della Chiesa e poi come Segretario di Stato del grande papa Giovanni Paolo II. Ho cercato di dare il mio modesto contributo per il bene della Chiesa e per la collaborazione con gli Stati, per la pace fra i popoli e il loro progresso sociale».
Il rapporto più intenso è stato con papa Wojtyla che fece venire anche ad Asti nel 1993 «Conservo dei 15 anni passati al servizio del compianto pontefice Giovanni Paolo II, ora santo, un ricordo speciale. Ero suo Segretario di Stato e, quindi, al suo diretto servizio, ogni giorno. Lo accompagnai anche in cinquanta viaggi internazionali, visitando più di un centinaio di Paesi. Abbiamo visto il mondo. Era un grande papa missionario, che ha segnato la mia vita. Come astigiano devo ricordare anche la sua visita ad Asti per la beatificazione del vescovo Giuseppe Marello, il 25 e 26 settembre del 1993. Fu un viaggio ben organizzato ed egli volle pure visitare il mio paese a Isola d’Asti ed entrare a casa mia, per salutare i miei familiari. Fu un incontro commovente, segno della sua grande umanità. Una statua di quel grande pontefice ne ricorda la visita sul piazzale della chiesa di Isola Villa. Il prato davanti a casa della mia famiglia è il luogo da cui la sera di quella domenica ripartì il suo elicottero».
Ha conosciuto anche altri papi «Certo. Ho conosciuto bene altri pontefici. Mi dico spesso che vorrei scrivere un libro, I miei sei papi, da Giovanni XXIII a Paolo VI, da Giovanni Paolo I a Giovanni Paolo II, da Benedetto XVI all’attuale papa Francesco. Dipenderà dal tempo a disposizione: sono giunto al traguardo degli 88 anni, non me lo devo dimenticare».
Torniamo a papa Woytyla. Facendo un paragone con altre istituzioni, lei è stato il suo “primo ministro” «In un certo senso sì. Tra i risultati più importanti del mio lavoro alle dipendenze del papa Giovanni Paolo II c’è quello di aver contribuito alla ripresa della vita della Chiesa nell’Europa centrale e orientale, dopo la caduta del muro di Berlino nel 1989. Ebbi pure la gioia di ordinare alcuni vescovi in quelle diocesi e di consacrare alcune nuove cattedrali, a Mosca, a Karaganda, nel lontano Kazakhstan, e a Tirana in Albania. Erano i simboli della ritrovata libertà religiosa».
Ci sono stati anche momenti negativi?
«I ricordi più dolorosi che ho di quegli anni sono legati alle guerre fratricide scoppiate nei Balcani negli anni 1992-1996, ai conflitti in Medio Oriente e soprattutto in Terra Santa, il genocidio africano in Rwanda nel 1994, con più di mezzo milione di morti fra hutu e tutsi. Purtroppo in questo mondo Caino continua a uccidere Abele».
Lei è cittadino onorario di Asti, si considera una “gloria” di questa terra astigiana? «A onor del vero, devo aggiungere che prima di me la diocesi di Asti nell’800 ha dato alla Chiesa tre grandi cardinali: Guglielmo Massaja, nativo di Piovà, grande missionario in Etiopia a metà dell’Ottocento, Giuseppe Gamba, arcivescovo di Torino all’inizio del Novecento, e infine Giovanni Cheli, che ci ha lasciato recentemente dopo una lunga attività per la causa della pace come Osservatore della Santa Sede presso le Nazioni Unite a New York, e poi a Roma per l’assistenza ai migranti. Diciamo che sono in buona compagnia. Io sono sempre stato orgoglioso di essere piemontese e astigiano in particolare».
Che rapporto ha con il suo paese natale, Isola d’Asti, dove tutti la chiamano “il cardinale”? «Qui ho le tombe dei miei cari, i ricordi, molti amici che ho spesso anche accolto nelle loro visite a Roma. Io penso che ciò che abbiamo ricevuto dalla Chiesa dobbiamo lasciarlo alla Chiesa o alla comunità. Qualche tempo fa avevo lanciato l’idea di costituire una grande biblioteca a Isola, offrendo il mio contributo. Pensavo nel testamento di lasciare i miei libri al mio paese. Ho raccolto in più di mezzo secolo una grande quantità di volumi, collane storiche e vere rarità come, ad esempio, tutti i poderosi volumi con i testi, le encicliche e i discorsi di ciascun papa, editi una volta l’anno. Li ho custoditi da Pio XII in poi, con dedica autografa. Si pensi che sono 40 tomi solo quelli che riguardano papa Woytila, dal ’78 papa per 25 anni. E poi ci sono molti altri documenti della Santa Sede, vere opere d’arte in edizione limitata, collane di storia, enciclopedie cattoliche, collane sulla vita dei Santi ecc. Non voglio che finiscano in un museo. Ci sono molti istituti a Roma a cui potrei donare i miei libri, ma preferirei fossero custoditi e consultabili a Isola, dove gli spazi per fare una biblioteca ci sono. Ci saranno certo dei costi per luce e riscaldamento, ma possibile che non ci siano pensionati e volontari che si prestino per far funzionare una biblioteca senza gravare sui bilanci pubblici? Credo si possa fare e non servono i miracoli».