I quindici giorni per savane e deserti di un commercialista e fotografo astigiano
Ho viaggiato in molti paesi del mondo posso affermare che ogni nuova meta mi ha sempre regalato emozioni.
Eppure non ho faticato a scegliere “il viaggio della vita” da raccontare per questa rubrica. È quello che nel settembre 2011 ha portato me e mia moglie Irma in Namibia, paese sulla costa sud occidentale dell’Africa. Quindici giorni lontani dai soliti percorsi turistici proposti dalla maggior parte dei tours operators. Con la nostra guida Davide Pianezze, fotografo professionista di Torino, avevamo deciso un percorso che ci avrebbe fatto attraversare luoghi ricchi di fauna selvatica. Ma è stato soprattutto l’incontro con le etnie locali a lasciarci i ricordi più vividi.
Le leonesse cacciatrici che si scambiano coccole e la corsa dei ghepardi
Una delle prime tappe fu il parco nazionale dell’Etosha, popolato da leoni, elefanti, rinoceronti, giraffe, varie specie di antilopi, zebre, facoceri, iene, sciacalli, scimmie. E poi struzzi e numerose specie di altri uccelli. Tutti soggetti che riuscimmo a osservare e immortalare, anche da vicino, grazie alle sofisticate attrezzature messe a disposizione dal nostro amico fotografo. Davanti a noi, i cuccioli di leone giocavano fra loro e con i genitori, le leonesse si scambiavano coccole e contammo ben tredici leoni adulti abbeverarsi contemporaneamente in una pozza d’acqua. Eccitati, e anche un po’ intimoriti, assistemmo a poca distanza a una lotta tra due elefanti maschi. A non più di venti metri dalla nostra auto, con sonori barriti se le davano di santa ragione, finché uno dei due prevalse mettendo in fuga l’avversario.
Un altro incontro ravvicinato con la fauna della Namibia è stato quello con il ghepardo, specie in via di estinzione. Grazie alle credenziali del nostro amico fotografo, visitammo il Cheetah Conservation Fund, centro per la salvaguardia di questi carnivori in grado di raggiungere i 110 km/h. Qui ancora oggi sono curati, allevati e rieducati i cuccioli orfani delle madri, e si mettono in atto strategie per evitare l’uccisione dei ghepardi da parte degli allevatori. Appostati in punti strategici, ammirammo la corsa nella savana di alcuni esemplari del più antico e veloce felino africano, fotografandoli nelle loro evoluzioni di caccia; non solo, emozionatissimi, potemmo addirittura accarezzarli, come teneri gattoni. Fu una delle esperienze più gratificanti del nostro viaggio.
Gli incontri con i popoli indigeni ci regalarono emozioni diverse, umanamente commoventi e decisamente interessanti da un punto di vista antropologico. Con i Boscimani, o San, abbiamo trascorso quasi un intero giorno. Secondo molti ricercatori furono loro i primi abitanti dei territori dell’attuale Namibia. Per consuetudine nomadi, cacciatori-raccoglitori, sono stati spinti progressivamente verso le regioni più aride a est, dove, assai ridotti di numero, ormai solo in pochi vivono secondo tradizione. La maggior parte si è quasi completamente sedentarizzata, svolgendo lavori umili al servizio dei bianchi. Noi riuscimmo a visitare un loro villaggio in una zona remota del nord-est e, nel tempo trascorso insieme, abbiamo conosciuto e apprezzato le loro straordinarie doti di sopravvivenza in terre inospitali.
“Lezioni” di antropologia a contatto con le diverse etnie
Con gli Herero, ormai pochi e molto riservati, ci incontrammo di sfuggita lungo la strada, giusto il tempo di ammirare e fotografare gli ampi e coloratissimi abiti di foggia vittoriana delle loro donne, che esibiscono anche un buffo cappello bicorno. Tale abbigliamento era stato imposto nei primi anni del secolo scorso dai colonizzatori tedeschi che, sfruttandoli come mano d’opera nelle loro fattorie, trovavano disdicevoli i loro tradizionali costumi: le donne, a seno nudo, indossavano solo corti gonnellini. Per incontrare gli Himba nel loro ambiente naturale, ci inoltrammo nel Kaokoland, regione del nord-ovest arida e montuosa al confine con l’Angola, passando per le bellissime cascate Epupa. Il nostro programma prevedeva un percorso di cinque giorni e quattro notti in tenda: prima di iniziare il viaggio fu necessario rifornirsi a Opuwo, città di ingresso e capitale del Kaokoland. Ripartimmo con abbondanti scorte di cibo, una buona riserva di gasolio e due ruote di scorta che si rivelarono provvidenziali!
Due pneumatici sacrificati per scendere con il 4×4 il pericoloso Van Zyl Pass
Per scendere verso la costa dal Kaokoland bisogna superare il Van Zyl Pass, considerato uno dei più spettacolari e pericolosi passi africani, molto amato dai sudafricani che vi organizzano vere e proprie gare di bravura in fuoristrada. Lungo la ripidissima (oltre 45 gradi di pendenza) discesa tra spuntoni di roccia, salti, dislivelli e strettoie, Davide guidava quasi alla cieca percorrendo poche decine di centimetri per volta mentre io, sceso dalla macchina, cercavo di indicargli i pericoli da evitare e i passaggi corretti. Sapevamo che il minimo errore avrebbe potuto danneggiare irreparabilmente il veicolo e compromettere il viaggio. Due pneumatici furono sacrificati per raggiungere la meta. E, come usano i temerari del Van Zyl Pass, scrivemmo la data e i nostri nomi su una delle pietre ai piedi del grande albero che segna la fine della discesa.
Prima di arrivare al Van Zyl Pass incontrammo alcuni “Kraal” Himba, piccoli villaggi, di solito unifamiliari, recintati da rami di mopane e mimose irte di spine.
Incontrammo quasi solo donne, bambini e anziani, perché gli uomini adulti e i ragazzini erano al pascolo. Caratteristico è l’abbigliamento delle donne, in genere molto belle: le bambine, fino alla pubertà, portano in avanti sul viso due trecce che sembrano due cornini. Con l’età, dividono le trecce e ricoprono corpo e capelli con una miscela di grasso animale e ocra.
Serve come repellente per gli insetti, protegge dai raggi del sole, cura la pelle e conferisce loro un particolare colore rosso-bruno. Sulla testa si formano così placche di argilla rossa, da cui cadono numerose trecce, anch’esse ricoperte di quell’impasto, a formare lunghi cordoni rossi che terminano con grossi batuffoli di capelli crespi sulla schiena. Indossano gonnellini di pelle o stoffa, il petto scoperto è ornato da collane: molto importante è la grande conchiglia in mezzo ai seni, donata dalla madre alla nascita del primo figlio.
I contatti tra di noi, all’inizio un po’ impacciati, furono agevolati dall’offerta di utili doni: farina, riso, zucchero, tè, tabacco che anche le donne dimostrarono di amare molto. Il piccolo impasse provocato dalla mancanza di fiammiferi fu superato grazie alla loro capacità di accendere il fuoco con gli sterpi. Una volta superata la diffidenza iniziale, chiedemmo il permesso di fotografare. Le donne si prestarono senza difficoltà, collaborando come fossero fotomodelle, e ci concessero di entrare nelle loro capanne e assistere alle loro attività quotidiane. La maggior parte di loro non aveva più di 14-15 anni e già uno o due figli, che tenevano sempre con sé. Il viaggio in Namibia era stato ricco di emozioni, ma quell’incontro con gli Himba resta ancora oggi una delle esperienze più entusiasmanti e coinvolgenti della mia vita. Superata la splendida vallata del Marienfluss, dalle dorate erbe ondeggianti, scendemmo verso la Skeleton Coast attraverso la valle del Hoanib River che a settembre, data la scarsità d’acqua, era facilmente guadabile. Avevamo sentito parlare molto di questa zona perché sapevamo che era possibile incontrarvi gli elefanti del deserto. Appartengono alla stessa specie di quelli incontrati nell’Etosha, ma vivendo in un habitat più severo hanno dimensioni ridotte e una vita più breve. Molto sfuggenti e rari da osservare, hanno l’abitudine di scendere a valle per abbeverarsi e cibarsi, per poi tornare verso le zone desertiche.
Un raro incontro con i pachidermi che vivono nel deserto
Non sono numerosi e non sempre le spedizioni organizzate per avvistarli hanno successo. Ma noi fummo fortunati: ben presto scoprimmo orme ed escrementi freschi che ci portarono a incrociare tre grossi esemplari maschi. Già soddisfatti da questi incontri, all’imbrunire, cercando nel deserto un posto sicuro per le nostre tende, cedemmo il passo a un’intera famiglia di elefanti composta da tre femmine, tre piccoli e, più distante, un grande maschio. Lo stupore fu indescrivibile e con grande entusiasmo immortalammo quell’irrepetibile momento. Dopo cena, ancora esaltati da questo incontro, abbiamo brindato con vino sudafricano. Il mattino successivo, usciti dalle tende, vedemmo passare altri due elefanti in mezzo alla nebbia, quasi come fantasmi a pochissimi metri da noi.
Lo spettacolo della Skeleton Coast non fu altrettanto esaltante, ma c’era da aspettarselo: è una arida distesa di pietra e sabbia, quasi perennemente avvolta dalla nebbia. Ci rifacemmo con la visita alle “otarie del capo” di Cape Cross, la più grande colonia di questa specie, urlanti e puzzolenti – per fortuna era inverno e il tanfo ridotto – ma buffe e simpatiche. Le rosse e alte dune del deserto del Namib, uno dei più antichi deserti del mondo, qualcuno dice il più antico, e la “Dead Vlei”, bianca e arida spianata punteggiata da scheletri di acacia centenari, hanno completato il cerchio delle nostre emozioni. La Namibia è un paese dove il viaggiatore si può sentire anche un vero esploratore.