I primi jeans Roy Rogers si trovavano in piazza al banco americano dei Guarene
E arrivarono i capelloni. Un’etichetta appiccicata addosso con facile ironia dai giornali per definire quei ragazzi degli anni Sessanta che, seguendo il vento del cambiamento, prima ancora che della contestazione, nata in Inghilterra e sviluppata nei campus americani, si fecero crescere i capelli come segno evidente di appartenenza e riconoscimento del gruppo e di cambiamento netto con le regole del passato.
Il fenomeno ebbe i suoi primi seguaci anche ad Asti. Essere capelloni in quegli anni si condensava in un mix di suoni con punti di riferimento musicali nei dischi di Rolling Stones, Led Zeppellin, Deep Purple, ma anche di Camaleonti, Corvi, Equipe ’84, Dik Dik. Si leggevano le prime riviste non ancora underground come Ciao e Noi Giovani.
Portare i capelli lunghi voleva dire cambiare i modi di vivere (zaini, sacchi a pelo, autostop, diverso rapporto con le ragazze) e anche di parlare. Nacquero neologismi subito adottati anche dai fumetti: sbarbina (la ragazza), matusa (gli adulti), grigio (il padre), lampadina (avere un’idea).
Il fondatore con soprannome da profeta biblico
Quei ragazzi si distinguevano anche per come si vestivano. «Andavamo a comperare i primi jeans Roy Rogers con le cuciture spesse e le tasche applicate, con il risvolto arrotolato sulle scarpe, che in città si trovavamo al banco “americano” in piazza dei fratelli Guarene. Cercavamo anche i mezzi stivaletti con tacco a punta e le camicie a fiori che fui tra i primi a indossare qui ad Asti» ricorda Toni Santagata, detto “Antoine”, che con l’amico Lillo Natale ripercorre oggi per Astigiani le tappe del Club Abramo.
Era il posto che raccolse per primo quei fermenti e la voglia dei giovani di stare insieme lontani dai luoghi di incontro fino ad allora collaudati come le società sportive, gli oratori, le sezioni di partito, i circoli dopolavoro. Il Club Abramo era in via Roero 4, una vecchia casa del centro storico su tre piani con cucina, varie stanze, sale prove musicali nelle cantine e all’ultimo piano due stanze dove viveva il capo Abramo.
Chi era costui e come nacque il club che portava il suo nome? Lo raccontò nel 1979 in una intervista a Il Torchio lo stesso Luciano Prevarin che oggi è commerciante ambulante di intimo e corsetterie. «Ero tornato da militare e non trovavo più i miei amici: uno era al bar, uno si perdeva in cretinate, facevano un genere di vita irresponsabile, immatura, qualunquista, per me inaccettabile. E così ho pensato di aprire un ritrovo, dove si potesse ballare, discutere, suonare, organizzare viaggi, fare teatro, incontrarsi. “Perché proprio Abramo?”
Quelle risse con i giovani dei paesi sui balli a palchetto
È un soprannome che mi hanno dato i miei amici, è preso dalla Bibbia, forse nel senso di patriarca, anche se eravamo tutti giovani. Certo c’entravano anche i capelli lunghi». L’entrata era riservata ai soci: all’inizio una trentina, poi divennero più di cento. Il nucleo iniziale era composto solo da ragazzi. Le donne arrivarono dopo. In quegli anni il loro ruolo era ancora quello di “fidanzate”.
Le centinaia di cartoline mandate all’indirizzo del Club da ogni regione d’Italia e dall’Europa testimoniano come, con il passare degli anni, Asti fosse diventata un punto di incontro dei vari “beatnik” che giravano l’Europa in autostop. Molti erano i ragazzi di altre città italiane e straniere che si fermavano al Club Abramo una settimana, quindici giorni, un mese. Nascevano amori, amicizie, incontri e viaggi. Essere capelloni era soprattutto un certo modo di presentarsi, di ribadire differenze e speranze.
«In quegli anni niente spinelli, magari una ciucca di Marsala all’uovo»
I capelli lunghi erano il segno più evidente e immediato, soprattutto all’inizio, quando la moda non era ancora dilagata coinvolgendo di fatto tutti i giovani e meno giovani di quelle generazioni. Ricorda oggi Lillo: «All’inizio portare i capelli lunghi in una piccola città come Asti, ancora legata al mondo contadino, era dura, ma noi eravamo, seppur giovani o giovanissimi delle medie, altrettanto duri e testardi e convinti». Essere fermati dalla polizia che chiedeva i documenti era normale e poi c’era da farsi accettare in famiglia.
Spesso i genitori non capivano e per alcuni lo scontro in casa fu violento. «Se andavi al cinema, in pizzeria, in un locale, erano sempre discussioni, non parliamo delle feste di paese o dei balli a palchetto dove spesso finiva in rissa. Quante volte ce le siamo prese… ricordo ancora le botte con due gemelli di Portacomaro. Finiva così tutte le volte che ci incontravano», ricorda oggi Antoine.
Finì sui giornali una grande rissa a San Damiano tra capelloni e un gruppo di giovanotti locali decisi a difendere il territorio dagli “intrusi”, giudicati “brutti, sporchi e cattivi”. «Camminavi per strada e ti gridavano “Vai a lavorare”, “Tagliati i capelli”. Mia madre me ne tagliò qualche ciocca di notte mentre dormivo – racconta Lillo – e mia zia mi invitò al suo matrimonio a patto che me li tagliassi. Non andai e fui l’unico della famiglia». «Anch’io dovetti discutere per un matrimonio – interviene Antoine –, quello di mio fratello. Tenni duro fino in fondo e ci andai, ma solo perché cedettero gli altri: fecero aprire il negozio con il mio abito nuovo la domenica mattina. Fino al sabato sera era deciso che sarei stato a casa, io e i miei capelli lunghi».
Discussioni che oggi, abituati a conflitti generazionali ben più profondi, possono far sorridere, ma che allora erano il segno di una ribellione crescente, decisa e motivata. Il Club Abramo tra il ’65 e il ’67 vive il suo periodo di maggior successo. Lo animano alcuni gruppi musicali: I Selvaggi (Nicola Toscano, Tiziano Carni, Salvatore Scalzi e Frank Taffaro ) e poi i Gattopardi (con Giustino Blandi, Valter Provera, Franco Manco, Oscar Mazzoglio e Alberto Aguglia), gli Altri con alla voce Egidio Ferronato detto il Gufo, l’Equipe 65 con il maestro Adelmo Musso e Ricky Orlando (poi noto alla cronache come Pino il palermitano) alla voce. «Fino al ’67 il Club era un luogo magnifico e magnetico – aggiunge Antoine. Si suonava, si ascoltava molta musica fino a tarda notte. C’erano feste tutte le domeniche, un’amicizia e una solidarietà fortissime. Eravamo sempre lì dentro. Ci si trovava dopo il lavoro. A ben pensarci c’erano pochi studenti, molti di noi avevano cominciato a lavorare già a 15 anni».
I due tengono a precisare una cosa: «Che ci si creda o no in quei locali non circolavano spinelli o altre droghe, le nostre “bibite” erano Martini Rosso, Martini Bianco e qualcuno prese una ciucca di Marsala all’uovo». Il club era anche un punto di incontro tra giovani di origini diverse. Molti arrivavano da famiglie meridionali fresche di immigrazione. In quei locali si superava la solita contrapposizione tra “terun” e “polentoni”.
Un clamoroso suicidio segnò il destino del club che chiuse nel ’69
La vita del Club Abramo era però destinata a cambiare repentinamente. Fu a causa di una tragica morte. Il suicidio di Rosanna che nel ’67 si fece travolgere da un treno della linea per Torino. Era la ragazza di Abramo e si disse che quel gesto disperato fosse causato dai forti contrasti che aveva avuto in famiglia.
Il fatto fece scalpore. Ne parlarono i giornali e anche i settimanali di cronache rosa come Eva-Express e Grand Hotel dedicarono pagine alla vicenda. Nei resoconti degli inviati la scoperta di una vita di provincia e un atteggiamento quasi di sorpresa sulla vera natura di questi ragazzi. Si cercò, come oggi, il titolo a effetto. Una doppia pagina su Eva-Express, propone la foto degli amici che portano la bara della ragazza e il titolo «Anche i capelloni piangono».
“Il club Abramo era un luogo dove ci sentivamo veramente liberi”
«Dopo questo fatto – ricordò Abramo nell’intervista del 1979 – l’atteggiamento della gente cambiò. La fine di Rosanna ha fatto pena, hanno capito le tragedie che possono succedere nelle famiglie. I giornali hanno cominciato a parlare di noi con un po’ più di serietà. Gli articoli erano diversi, parlavano della realtà, del perché questi giovani hanno rifiutato la società, sono diventati anticonformisti».
Ma l’incantesimo si era rotto. «Dopo il ‘67 – aggiunge Antoine – ce ne siamo andati, io Lillo e altri. Il clima era cambiato. La “notorieta” ha fatto montare un po’ la testa ad alcuni, snaturando il club. Arrivava gente da tutta Italia, ovviamente il bello e il brutto. Era finito quel magnetismo, non era più il nostro posto». «Ormai non era più un luogo alternativo – gli fa eco Lillo –, era frequentato da troppa gente… figurati, abbiamo avuto anche alcune visite programmate delle scuole».
Nel marzo del 1969 il club chiuse. Era cambiato il clima. Anche ad Asti, con qualche mese di ritardo, stava arrivando la contestazione del ’68, partita dalle università. Abramo lo ha spiegato così: «Ormai non eravamo più una minoranza, ormai tanti giovani si erano emancipati, molti avevano capito che il mondo stava cambiando e doveva cambiare il sistema di vita».
Mezzo secolo dopo che fanno Abramo, Sonny il Timido, Selvaggio, Antoine, Caco, Ringo, Camomilla, Sandie Shaw? Ovviamente quasi tutti hanno fatto mille mestieri, messo su famiglia, alcuni sono già nonni, altri non ci sono più. Molti continuano a suonare in gruppi che propongono repertori di quegli anni. C’è chi non ama raccontare quel periodo della propria vita, altri, come Lillo e Antoine, ne rivendicano orgogliosi l’appartenenza. «Il Club Abramo era un luogo dove noi ci sentivamo veramente liberi e la libertà era quella che inseguivamo, con i nostri capelli lunghi, la nostra musica, il nostro modo di vivere. Abbiamo portato una ventata di aria pulita e alla fine abbiamo vinto noi sui perbenisti. Per noi quella fu una vera rivoluzione culturale».
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