Il bombardamento notturno celebrato sulle grandi tele che erano a Toledo
È il 18 maggio 1615. Asti, presidiata da circa dodicimila uomini disposti entro le mura e nel borgo di Santa Maria Nuova, attende all’erta l’assalto di un esercito spagnolo forte di trentamila unità, che ha già preso con facilità Azzano e Rocca d’Arazzo. I soldati in città sono piemontesi, svizzeri e francesi, e alla loro guida c’è il duca di Savoia Carlo Emanuele I. Alla testa dei tercios si trova il governatore dello Stato di Milano Juan de Mendoza, marchese dell’Hinojosa, un tempo suo amico e in teoria suo feudatario, visto che gode anche del titolo di marchese di San Germano.
Hinojosa si dirige furiosamente su Asti, supera il torrente Versa, schiera le sue forze, sceglie la Certosa di Valmanera come quartier generale e il 20 maggio inizia l’assedio, facendo “cantare” le artiglierie.
Il governatore spagnolo fa cantare le artiglierie ma evita lo scontro finale
Questo è il momento catturato dai quadroni (135 x 218 cm) che per la prima volta escono dal museo di Toledo, per essere mostrati al pubblico non solo di Asti. La storia di queste opere è singolare. Sepolti per secoli nei depositi spagnoli, da alcuni anni storici e storici dell’arte li hanno scoperti e rivalutati perché “fotografano” come non mai un momento della storia di Asti, d’Italia e d’Europa. Sono un unicum. Li ha fatti fare, pare, dal miglior pittore del tempo sulla piazza a Milano (il Cerano), lo stesso Hinojosa che aveva bisogno di illustrare le sue gesta militari. In realtà saranno la prova schiacciante del suo fallimento come politico, più che come stratega. Mentre uno dei grandi quadri raffigura la pagina vittoriosa del veloce assedio sabaudo di Bistagno smantellato il 21 aprile dal marchese, gli altri tre, cupi e infiammati da squarci di luce (le bombe e le bombarde), mostrano Asti prima accerchiata sulle colline a nord, la cinta muraria e le torri sullo sfondo; nell’altra immagine la città è prossima all’attacco degli spagnoli dalla Certosa e bombardata al crepuscolo. Una scritta sulla prima tela dichiara «batalla ganada por el marqués de la Hinojosa» e in effetti gli spagnoli sbaragliano sia la fanteria sia la cavalleria nemica appena fuori le mura astesi.
Ma Asti non viene occupata, cosa che avrebbe potuto accadere facilmente. Il governatore dà fuoco alle artiglierie fino al 3 giugno ma poi vacilla, tenendo fermi i suoi tra Valgera e Valmanera. Gli astesi peraltro, avevano già respinto un pericoloso assalto spagnolo meno di un secolo prima quando, nel novembre 1526, ricacciarono le truppe mercenarie guidate da Fabrizio Maramaldo. La città per ricordare quell’evento e il suo eroe Matteo Prandone, che la tradizione religiosa vuole ispirato dall’apparizione di san Secondo, eresse nel 1592 una chiesetta della Vittoria nel punto sulle mura dove l’attacco era stato respinto (vedi Astigiani n. 18, dicembre 2016).
I Savoia diffondono la loro verità con una mappa della battaglia
Torniamo all’assedio del 1615, però visto dal fronte opposto. La didascalia di una mappa coeva, realizzata per parte sabauda, recita con piglio propagandistico: «li Spagnoli non s’approssimaro mai di detta città che da una banda, restando tutte l’altre parti libere tanto per il soccorso della gente di guerra che per li viveri quali vi furono sempre in abondanza». La mappa è dettagliata con i precisi rimandi alle posizioni dei reparti.
L’assedio degli spagnoli fu dunque rapido, ma non conclusivo e nonostante la vittoria “tecnica”, Hinojosa deve sedersi al tavolo delle trattative e ritirarsi.
Ma perché il ducato di Savoia è in guerra con il gigante spagnolo? Perché quello che Giovanni Botero, il teorico della Ragion di Stato, considerava a mala pena uno “stato mezzano”, si trova a sfidare l’Impero di dimensione atlantica sul quale, si diceva, non tramontava mai il sole? E perché la battaglia si accende proprio ad Asti?
Occorre fare un passo indietro per spiegarlo. Siamo nel pieno della prima guerra di successione di Mantova e del Monferrato (1613-1618). La seconda, immortalata da Manzoni nei Promessi sposi e combattuta fra 1627-‘30, è ancora di là da venire.
Anche in quella Asti avrebbe avuto un ruolo strategico, ma nel 1613 la città si trova a un giorno o poco più di marcia da Moncalvo e da Alba, i luoghi del Monferrato occupati fulmineamente in aprile da Carlo Emanuele I di Savoia a danno dei Gonzaga. Sua figlia Margherita di Savoia nel 1608 aveva sposato, con un matrimonio fastosissimo e celebrato con le note dell’Orfeo di Monteverdi, il principe Francesco Gonzaga, figlio di Eleonora de’ Medici e del duca di Mantova e Monferrato Vincenzo I, il costruttore della cittadella di Casale ritratto, fra gli altri, da Rubens.
Oltre a imparentare la corte di Torino con quella mantovana quasi irraggiungibile sul piano culturale, le nozze dovevano servire proprio a stemperare le mire di Carlo Emanuele I sul Monferrato e a fare in modo che esso confluisse nei possedimenti sabaudi per vie dinastiche. Margherita si fregiava del titolo di Infanta: se il padre, infatti, era il duca di Savoia, la madre era Catalina Micaela, una delle figlie predilette di Filippo II, l’Infanta per antonomasia. Il rey prudente accettò di avere per genero il figlio del cugino Emanuele Filiberto – entrambi erano figli di due sorelle portoghesi, rispettivamente Isabella di Aviz, moglie dell’imperatore Carlo V, e Beatrice, andata sposa di Carlo II nel 1528 ricevendo in dono, nel 1531, Asti e il suo contado – sapendo che in tal modo avrebbe vincolato a sé e a Madrid il ducato subalpino.
Asti, crocevia della guerra di successione dei Gonzaga
Già nel 1559, dopo la pace di Cateau-Cambrésis, la Spagna aveva potuto occupare i presidi sabaudi di Nizza Marittima, Asti e Villanova d’Asti. Con lo sposalizio del 1585 il legame diveniva di parentela e la fedeltà fra congiunti, in Antico Regime, contava più di ogni trattato diplomatico. Carlo Emanuele e Catalina, peraltro, visitarono personalmente quasi tutte le città piemontesi in un tour lungo quasi due anni. Ad Asti, dopo mesi di trepidante attesa, essi giunsero nell’agosto del 1587, accolti da archi trionfali posticci, dalle élites in festa e dalle reliquie di San Secondo esposte in un sussulto di orgoglio municipale. Asti non era più il Comune dei lombardi e delle casane (sebbene queste non fossero ancora del tutto scomparse) e dal 1531 non era più nemmeno orleanese: volente o nolente, il destino del momento era iberico e l’influenza della nuova duchessa, devotissima alla Vergine (a lei è specialmente dedicato il santuario di Vicoforte), si fece sentire anche sulle pratiche devozionali degli astigiani. Diversamente in mostra non si vedrebbero – altri pezzi forti – il reliquiario contenente la scarpetta della Madonna (uno zapato in puro stile spagnolo) e il Cristo ligneo dell’entierro.
L’unione di Francesco e Margherita, allevata alla spagnola, altera, pronta a governare come la madre, fu felice. Ma breve. Francesco morì il 22 dicembre 1612, dopo che a febbraio era morto suo padre Vincenzo. Margherita si ritrovò sola e con una figlia femmina, Maria, impossibilitata a divenire duchessa reggente nonostante le sue proteste e le rivendicazioni dei giuristi sabaudi. La bambina, contesa dal nonno e dallo zio cardinale Ferdinando Gonzaga, fu il casus belli e, nonostante la mediazione diplomatica di Spagna e del Papato, il duca di Savoia preferì aggredire il vicino monferrino piuttosto che subire l’offensiva mantovana.
Certo il conflitto non fu solo di natura dinastica: altissimi erano gli interessi economici in gioco – secondo i rapporti degli ambasciatori veneti l’invasione aveva l’obiettivo di incamerare terre e feudi ricchissimi – e logori ormai i rapporti tra Carlo Emanuele e Madrid.
Morto Filippo II nel 1598, conclusasi la guerra di Provenza contro la Francia grazie alla pace di Lione del 1601, il duca di Savoia aveva trovato un nuovo alleato nel sovrano di Francia Enrico IV di Borbone, che gli aveva consegnato il marchesato di Saluzzo in cambio di alcune valli savoiarde. Sul piano europeo, sia la Francia fiaccata dalle guerre di religione sia la Spagna uscita sconfitta dalla ribellione delle Fiandre spiavano le reciproche mosse in un clima denso di tensioni. Per queste ragioni Parigi diede subito man forte a Carlo Emanuele I con uomini e mezzi mentre il duca di Lerma, obtorto collo, fece armare le frontiere occidentali dello Stato di Milano, quelle proiettate direttamente sul Vercellese, sul Monferrato e sull’Astigiano: Alessandria, piazzaforte spagnola, sarebbe stata il cuore delle operazioni e Hinojosa il nuovo governatore. Per queste ragioni gli storici considerano oggi la prima guerra di successione di Mantova e del Monferrato come fase preliminare della Guerra dei Trent’anni.
Le tecniche degli assedi, estenuanti dentro e fuori le mura
Una fitta letteratura descrive gli assedi di età moderna. Alcuni, celeberrimi, sono passati alla storia per la durata e la durezza delle condizioni di vita degli assediati e degli assedianti: valga per tutti l’esempio dell’estenuante assedio di Casale del 1628. Altri, meno noti, hanno riguardato a più riprese il Piemonte del Cinque-Seicento: nel solo 1613 subirono assedio Alba, Moncalvo, Trino, Nizza e Canelli (vedi Astigiani n. 4, maggio 2013).
Quello di Asti del maggio 1615, per la sua rapida risoluzione, ha avuto minor fortuna nella memoria collettiva per quanto Niccola Gabiani, una delle glorie della storiografia locale, nel 1915, abbia dedicato uno studio notevole ai due trattati d’Asti del 1° dicembre 1614 e del 21 giugno 1615. Perché di fatto, in quelle due circostanze, la città fu al centro dell’attenzione internazionale: la prima volta il duca di Savoia riuscì a indurre la Spagna a una tregua, la seconda a una resa (pur se temporanea).
Quali le condizioni di vita della città allora? Sono gli Ordinati comunali, cioè i verbali pressoché quotidiani del consiglio municipale, a risponderci. Nel solo 1614 essa aveva dovuto sborsare più di 70.000 fiorini fra il tasso e le spese militari.
La città dovette pagare 70.000 fiorini per le spese militari
Nel luglio 1615, appena dopo l’assedio, 258 case ospitavano forzosamente i soldati del presidio: 688 soldati svizzeri (344 fiorini al giorno); 3136 “savoiardi”, cioè francesi (2090 fiorini al giorno); 906 piemontesi (604 fiorini); più due compagnie di cavalleria, una di corazzieri e una di archibugieri (3038 fiorini quotidiani). Gli approvvigionamenti erano garantiti, ma il costo dei generi di prima necessità aumentava. Molti abitanti erano fuggiti nelle campagne (vari nobili a Torino o nei loro castelli) e i sindaci faticavano a trovare consiglieri presenti e operativi. In tale contesto le conseguenze immediate della guerra per Asti e dintorni furono sostanzialmente due, una positiva, una negativa: nel 1616 il consiglio municipale riuscì a rientrare in possesso della gestione degli appalti e delle imposte comunali (la Ferrazza) acquistandone i diritti dal duca per 3000 scudi. Questi, d’altro canto, bisognoso di liquidità, iniziò a smembrare il contado e a vendere feudi ai migliori offerenti. Nell’ottica campanilistica, era la fine della Asti medievale e del suo districtus.
A partire da quel momento – drammatico ma vitale per Asti, di nuovo alla ribalta della storia dopo decenni di relativo torpore – la storia della città, assediata un’altra volta nel 1638 e a rischio ancora nel 1644, si intrecciò sempre più con quella del ducato di Savoia, non senza attriti. Si definirono i contorni della provincia di Antico Regime, si eressero nuovi istituti religiosi come l’Opera Pia Milliavacca, si avvertirono tensioni in seno all’élite urbana poco incline alle riforme di Vittorio Amedeo II. Si accolsero poi le grandi inchieste delle Intendenze del pieno Settecento, si rinnovarono cabrei e catasti, si costruirono le strade reali per Torino e per Alessandria, si regolò con il Vaticano la delicata questione dei Feudi della Chiesa d’Asti che pretendevano di obbedire solo al papa e al vescovo. Nel 1797, sull’onda della Rivoluzione francese Asti visse l’effimera stagione di una Repubblica giacobina, una delle prime in Italia, che finì nel sangue dopo pochi giorni e fu un impasto complesso fra ideali rivoluzionari, precoce mito napoleonico e mai sopite tensioni autonomistiche astesi.
Chi visiterà la mostra di Palazzo Mazzetti ripercorrerà a tappe queste vicende, a partire da quattro straordinarie e inedite “istantanee” astigiane del 1615.