Il padre mugnaio a Monale. Sacerdote dal 1943 a Mombercelli. Organizza gli scambi di prigionieri tra tedeschi e partigiani
Se nel 1929 il signor Angelo Bergoglio, dal suo negozio di commestibili di Asti non fosse emigrato a Buenos Aires, suo figlio Mario, giovane ragioniere del “Giobert”, si sarebbe probabilmente sposato qui da noi e il suo figliolo Giorgio (oggi papa Francesco), classe 1936, nato in Argentina, sarebbe forse stato uno dei “ragazzi di don Sigliano”.
La storia non si fa con i “se” e con i “ma” però quello che oggi dice papa Francesco da piazza San Pietro al mondo, tanti ad Asti cominciarono a sentirlo dire da “don Macio” dagli anni Cinquanta in avanti. Non che avesse la sfera di cristallo o possedesse capacità ultrasensoriali, semplicemente aveva imparato a leggere i segni dei tempi da uomini come don Natale Bussi, don Alfredo Bianco e molti altri, che erano “uomini di mondo” nel senso che misuravano il proprio compito sulle dimensioni del mondo e non su quelle della sacrestia.
Così quei ragazzi del Dopoguerra imparavano il francese dalle canzoni di padre Duval e dalle cronache di Informations Catholiques Internationales e, mentre ad Asti la gente si accalcava davanti alle vetrine di Spinnler in corso Alfieri per vedere in vetrina un vecchio film sulla Passione trasmesso a titolo sperimentale dalla Rai TV, leggevano Assassinio nella cattedrale di Eliot, È mezzanotte, dottor Schweitzer di Cesbron e Geografia della fame di Josué de Castro, ci piace pensare che analoga esperienza abbia avuto il giovane Jorge Bergoglio all’altro capo del mondo.
Poi, nel 1959, “scoppiò” il Concilio Ecumenico Vaticano II, ma l’Italia era troppo occupata a festeggiare il proprio “miracolo economico” per accorgersi di quell’altro miracolo planetario. Don Sigliano si trovò benissimo in quel clima. Con la prima generazione di suoi “discepoli” e le successive. Moltissimi astigiani dunque, adesso non più giovani, hanno conosciuto la figura e l’azione di don Sigliano, il suo sorriso aperto, la sua chioma candida.
Sono passati quasi venticinque anni dalla sua scomparsa, nel giugno 1993, e vale dunque la pena ripercorrere l’itinerario di questo prete speciale, all’un tempo adattabile alle circostanze e innovatore per carattere. Sempre avanti di un passo rispetto a molti confratelli, ma anche rispetto alle inerzie di certa società civile.
Aldo Massimo Sigliano nasce a Torino il 26 febbraio 1920 e presto la sua famiglia si trasferisce a Monale dove il padre fa il mugnaio. La sua giovane vocazione lo porta a frequentare il Seminario di Asti. Allievo studioso e anche un po’ insofferente della rigida disciplina, conosce insegnanti che lo apprezzano. Tra gli altri don Giuseppe Nebiolo, poi assistente nazionale della GIAC (Gioventù Italiana di Azione Cattolica).
Ordinato prete in tempo di guerra nel giugno 1943, viene assegnato come viceparroco a Mombercelli. Dopo l’8 settembre in zona si formano le prime bande partigiane e il vescovo di Asti mons. Umberto Rossi gli affiderà in quegli anni, con altri giovani preti, il delicato compito di mettere in pratica lo scambio di prigionieri tra partigiani, tedeschi occupanti e fascisti repubblichini.
È attivo nei soccorsi agli alluvionati del 1948
A Liberazione avvenuta, con alcuni dei giovani dell’Azione cattolica occuperà una parte dell’edificio e della palestra della GIL, la Gioventù Italiana del Littorio, dove si svolgevano le esercitazioni dei sabati fascisti e c’erano i primi campi da tennis, uno sport che tornerà nella sua vita. In quei mesi convulsi provvederà, usando un camion residuato bellico, a scaricare in Tanaro un carico di armi (meglio toglierle di mezzo con i tempi che correvano). L’alluvione del settembre 1948 vedrà don Sigliano prestare soccorso alla gente del rione San Rocco e a chi rischiava la vita. Si racconta che ci vollero le sue braccia robuste e una corda da roccia per trarre in salvo la corpulenta signora “Pavona” che tutti in città conoscevano per gli anni di mestiere nella case chiuse.
Per tutti i primi anni Cinquanta don Massimo sarà assistente diocesano della GIAC e dei Giovani Scout e continuerà in sedi sempre provvisorie, col bel tempo anche all’aperto sulle panchine agli Sbocchi Nord, a riunire gruppi all’epoca rigorosamente maschili, prevalentemente di studenti figli della piccola e media borghesia astigiana.
Vuole creare occasioni di incontro. In quel periodo scopre ben presto due baite, raggiungibili solo per sentiero, già punto di appoggio per le cacce dei Savoia, sopra Gressoney St. Jean in Valle d’Aosta che vengono dapprima affittate dal proprietario barone Beck Peccoz e, dopo lunga trattativa, acquistate da don Sigliano che sarà sempre orgoglioso di averlo fatto di tasca propria, aiutato esclusivamente da prestiti della famiglia.
Nasceva così nel 1953 l’“operazione Cialvrina”, il “Villaggio astigiano della gioventù”, balconata splendida di fronte al Monte Rosa, dove per decenni, sia d’estate che d’inverno, confluiranno gruppi e associazioni di vario tipo e arriveranno anche ospiti internazionali. Il suo obiettivo era la formazione dei “dirigenti” della GIAC, non solo come fatto organizzativo ma per sperimentare l’amicizia, il senso della comunità, leggere insieme il Vangelo, lavorare manualmente per realizzazioni comuni. Nascerà l’associazione interparrocchiale “San Secondo” che accoglierà tutti, indipendentemente dalle loro idee o dallo spessore del portafoglio dei padri.
Fu allora che i ragazzi frequentando quel prete anomalo cominciarono a chiamarlo “don Macio” anche se spesso non aveva la tonaca perché doveva scaricare mattoni e cemento nel cantiere di ristrutturazione delle baite.
Era straordinaria la sua capacità di coinvolgere in un percorso educativo decine di giovani – ragazzi e ragazze – che ebbero poi destini umani e professionali differenti.
In piazza Cattedrale la Casa della Gioventù e i campi da tennis
Dal 1951 il centro propulsore della sua attività divenne la “Casa della Gioventù” in piazza Cattedrale 2, sorta sistemando il cadente Palazzo dei conti Amico di Castell’Alfero: struttura che funzionò per ospitare centinaia di studenti di scuola superiore costretti fino ad allora a un faticosissimo pendolarismo. Mensa, doposcuola e pensionato. Nel cortile un campo da basket che serviva anche per chi si divertiva con i pattini a rotelle. Negli anni successivi, dove c’erano gli orti, sorsero due campi da tennis in terra rossa (diventeranno il Kim Club), circondati dal vecchio muro di cinta in mattoni, poi demoliti per far posto all’allargamento di piazza Castigliano. Così fu anche finalmente disponibile una sede per il Centro Diocesano GIAC, un luogo in cui poter riunire, al sabato, gruppi di giovani astigiani: sia studenti medi conosciuti nell’ambito del suo insegnamento di religione al Liceo Scientifico e poi all’Istituto Tecnico “Giobert”, sia universitari.
Qui bisogna soffermarsi su alcuni spunti di sostanza. Dopo gite e campeggi in montagna e al mare (Bonassola) e sulle Dolomiti (Canazei), nei primi anni Cinquanta don Macio intuisce che i modi tradizionali di “fare azione cattolica” appaiono insufficienti. C’erano stati gli anni dello scontro a livello nazionale tra Mario Rossi e Luigi Gedda ovvero la crisi dell’Azione Cattolica. Due sono gli elementi sui quali scommette. Puntare sul “movimento d’ambiente” (inventato in ambito francese), incentrato sulla scuola come contesto naturale del mondo giovanile e farlo attraverso gruppi misti di ragazze e ragazzi. Insomma praticare la coeducazione tra femmine e maschi.
Cosa non facile nella Asti tradizionalista e benpensante. Matura intanto, all’alba degli anni Sessanta, la stagione del Concilio Vaticano II e don Sigliano vi giunge vedendo adesso possibile l’attuazione di molte delle cose che già aveva sperimentate. La centralità della Parola di Dio, l’affermazione della Chiesa come popolo in cammino, la sottolineatura del ruolo dei laici non più “cristiani di serie B”.
La generazione cui appartengo ha avuto la fortuna di arrivare a frequentare don Macio proprio in quel momento effervescente. Negli incontri in piazza Cattedrale ci spiegava, anche alla luce dei documenti conciliari, cosa significhi incontrare la proposta del Gesù evangelico, depurato da tutte le incrostazioni che ci portavamo dietro. E l’invito permanente era quello di non accontentarsi mai, di essere sempre in ricerca. Applicando in ogni situazione quotidiana l’impegnativo metodo del “vedere-giudicare-agire”: non basta saper raccontare (magari con la chiacchiera del liceale saputello…) la propria esperienza personale, ma la si deve saper confrontare con criteri di valutazione, di giudizio e di senso umano ed evangelico per darsi da fare per mutarla.
Già a metà anni Sessanta la sua sollecitazione è a impegnarsi nei nascenti organismi e giornali d’istituto per svecchiare la scuola, imparando a prendere la parola in pubblico e assumendosi le relative responsabilità. Anche quando arriverà il Sessantotto don Sigliano non si troverà spiazzato: le nostre discussioni si faranno ovviamente più accalorate e intense, ma la sua insistenza sulla responsabilizzazione personale ci servirà a evitare fanatismi e sbandamenti.
Prima di tutto “essere se stessi”, esercitare sempre la propria libertà di coscienza (ho sempre pensato che don Macio fosse un po’ “protestante”, allergico come era ai dogmi di qualunque specie). Ovvero non accettare niente a scatola chiusa.
Il confronto e il dialogo con gli studenti che animano il ’68 astigiano
E imparare a “pensare con le mani”. Non è un caso che, proprio nel 1968 dei mille discorsi palingenetici, due gruppi di ragazzi – volontari di protezione civile ante litteram – accorrano con lui su un furgone Ford a spalare fango e macerie durante l’alluvione della Valle Mosso nel Biellese e il terremoto siciliano del Belice. Una delle preoccupazioni fondamentali di don Sigliano è stata quella di educare a costruire la pace: fece conoscere a me e ad altri del gruppo studentesco il Movimento internazionale “Pax Christi” con il quale, zaino in spalla e testi sulla non violenza in mano, percorremmo fisicamente le “routes” (così si chiamavano) in Piemonte e all’estero (Francia, Spagna, Germania, Olanda) con giovani di varie nazionalità.
Quando nel 1963 fu pubblicata la dirompente enciclica Pacem in terris, prontamente don Macio volle concretizzarne lo spirito coinvolgendoci nella edificazione alla Cialvrina della chiesetta dedicata a “Cristo Principe della Pace”. L’entusiasmo dovette fare i conti con il duro lavoro manuale, ma alla fine l’impresa riuscì.
Dal 1981 per 11 anni parroco a Ferrere
Dopo il pensionamento dalla scuola, don Massimo accettò di “cambiare mestiere”: nel 1981 divenne, lui che si era sempre occupato di giovani, parroco a Ferrere, paese dell’Astigiano ai confini con il Torinese. Anche lì e per undici anni, le sue doti di tenace intraprendenza non mancarono di manifestarsi: ricostruì la canonica fatiscente, rinnovò le celebrazioni liturgiche, inventò un collegamento via radio perché malati e anziani potessero seguirle e così via. E non mancò di polemizzare con chi tardava ad assimilare una cultura di tutela del paesaggio che sarebbe diventata dominio comune vent’anni più tardi. A proposito di anziani proprio a loro dedicò particolare cura. La casa di riposo di Castel Rosso fu modernizzata completamente nelle attrezzature e riorganizzata qualificandone il personale. Ricevette i complimenti anche da Rita Levi Montalcini che a Castel Rosso aveva soggiornato con la famiglia. Trasformò il bollettino parrocchiale L’Amico di Ferrere in uno strumento per “dare la sveglia” con decisione alla comunità. Vi scrisse una volta queste parole con le quali concludo: «Tutti i giorni, ogni uomo scrive una riga per comporre il tema della propria vita. Chi ama e lavora in qualunque maniera scrive lettere che nessuno può cancellare. Chi non ama e non fatica scrive parole inutili e tristi come la morte. Tutti i giorni e tutte le notti, fa più rumore un albero che cade di mille alberi che crescono».