Più di vent’anni fa chiudeva definitivamente l’attività della Stamperia del Lanzello di Costigliole d’Asti. Piero Nebiolo (per l’anagrafe Pier Battista, ma come diceva lui neppure sua madre l’aveva mai chiamato così) ne era stato il fondatore, la mente e il braccio. Raramente aveva usufruito della collaborazione di aiutanti e quei pochi mai disinteressati; mezz’oretta di lavoro manuale/estetico/critico davano diritto a pranzi e cene pantagrueliche. Anticipando ampiamente Slow Food, l’artista costigliolese era sempre alla ricerca di prelibatezze, di cibi strani, di gusti particolari da condividere con gli amici.
Ma chi era Piero Nebiolo?
Nacque a Costigliole d’Asti nel settembre del 1934.
Lì trascorse la sua infanzia senza infamia e senza lode. Venne, poi, mandato a completare gli studi all’Istituto dei Padri Scolopi di Savona. Pare che in quel periodo abbia avuto l’onore di difendere la porta dell’Entella, mitica squadra di calcio ligure. Non sono mai state fatte serie ricerche su questa sua affermazione. Onestamente fu un momento del suo passato che non interessava, particolarmente, ad alcuno dei suoi estimatori; ma forse era vero.
Cosa importante: aveva iniziato a muoversi nell’ambito della sua vera passione, dei suoi interessi. Frequentava atelier e studi di scultori e ceramisti. E prese, anche lui, a cimentarsi in questa forma di arte con risultati più che lusinghieri. Fu durante questi giri che conobbe l’artista torinese Clizia (al secolo Mario Giani), scultore ed incisore, e lo convinse a trasferirsi nel castello di Costigliole ad aprire una “Scuola comunale di ceramica”.
Se l’esperienza non ebbe vita lunga, fu però l’inizio di una lunga collaborazione e amicizia. Oltre a queste gite didattiche, sempre in quel periodo, collaborò con riviste quali Le Ore, Tempo, Europeo, Epoca pubblicando brevi e pungenti scritti e vignette satiriche: una via di mezzo tra Fortebraccio e Forattini.
Inizia a lavorare (impiegato in banca, pensate!), si sposa, ma apre anche una galleria d’arte “L’Ortogono”. Breve esperienza espositiva astigiana, dove si tennero le mostre di un giovanissimo Silvio Ciuccetti e dell’amico Clizia.
Il ritorno a Costigliole e la possibilità di recuperare in casa un ampio spazio da dedicare a laboratorio, segnano l’inizio della sua attività di stampatore. La frequentazione degli studi di artisti, di cui già si è parlato, e l’insistenza di Clizia lo avevano portato all’acquisto di un torchio da stampa. Ora aveva lo spazio per ampliarsi, per aggiungere al torchio a stella per le incisioni una grande e antica pressa litografica, tavoli per composizione, vaschette per bagni di acido per le morsure delle lastre e carta, tanti tipi di carta.
Era sempre più coinvolto, sempre più affascinato dallo stampare e, di conseguenza, sempre più esigente sulle carte da usare. Periodicamente visitava le più importanti cartiere italiane selezionando attentamente i fogli a seconda dell’utilizzo cui erano destinati: acquarello, litografia, acquaforte, puntasecca, ecc.
La nuova situazione – lo spazio e l’avere a portata di mano tutti gli attrezzi necessari – lo coinvolse totalmente. Terminato l’orario del lavoro “ufficiale”, tutto il suo tempo era per il laboratorio, che si stava sempre più trasformando in stamperia.
A conoscenza di questa nuova realtà, gli incisori locali, che in precedenza avevano fatto ricorso a laboratori torinesi o comunque esterni, si affidarono a lui. Così divenne il responsabile dei fogli di artisti quali Amelia Platone, Giuseppe Colli e Giancarlo Ferraris. Sempre più infervorato dai risultati ottenuti, con la collaborazione del cognato, Pier Luigi Sacco Botto, convinse a cimentarsi con l’acquaforte i pittori dell’inizio ‘900 astigiano: Giuseppe Manzone, Guglielmo Bezzo ed Emanuele Laustino. Maestri che, probabilmente, in precedenza si erano dedicati a questa tecnica solamente nelle aule dell’Accademia frequentata in gioventù. I risultati furono sorprendenti.
Ormai Piero Nebiolo e la stamperia del Lanzello erano divenuti famosi tra gli esperti d’arte e i collezionisti. E lui, in po’ narcisista, ne era consapevole e di conseguenza sempre più smanioso di cimentarsi in nuove avventure più difficili e importanti. Fondò il Club della grafica dei Venti, così denominato in quanto per ogni lastra incisa venivano stampate 20 copie (altre quattro o cinque erano destinate all’artista, allo stampatore e alla Pinacoteca astigiana, che così si arricchì di un importante patrimonio grafico). Per questa iniziativa prese contatto con i maggiori incisori italiani: Giuliano Vangi, Luciano Minguzzi, Enzo Sciavolino, Mario Calandri, Emilio Greco, Valter Piacesi, Alberto Rocco, Mino Maccari e molti, molti altri. Anche con questi altisonanti personaggi Nebiolo manteneva il suo gigionesco atteggiamento da “ragazzo di campagna”. A volte si presentava agli incontri, soprattutto con gli artisti che più gli stavano simpatici, con due capponi da spennare in una mano e una bottiglia di Grignolino nell’altra, rigorosamente avvolta in un foglio della Gazzetta del popolo, poi quando il giornale torinese chiuse passò a La Stampa.
Con alcuni artisti, Mino Maccari in particolare, instaurò un amichevole e costante rapporto di collaborazione. Due folli, piacevoli personaggi anarchicheggianti che, datisi un tema, si sfidavano nello svilupparlo graficamente e sovente il risultato aveva affinità sorprendenti. Il grande pittore di “strapaese” spesso amava definire Nebiolo il suo “maestro”. Lui fu tra quelli che più insistette perché l’incisore costigliolese diventasse uno stampatore/editore “vero”. Piero si era già cimentato in questa impresa; aveva stampato libri di poesia di alcuni poeti locali e altri con testi di Pietro Aretino e di Giorgio Baffo illustrati da sue acqueforti e puntesecche. Ma ora era indispensabile un salto di qualità. Fece fondere una vasta serie di caratteri da stampa Garamond in piombo e da quel momento compose in proprio i testi delle sue pubblicazioni.
Fedele al suo spirito dissacrante e caustico chiamò la sua collana editoriale Boletus Luridus. In essa presero corpo, tra gli altri, volumi quali La puttana errante dell’Aretino illustrata da Mino Maccari, I sonetti di Rustico di Filippo con le acqueforti di Mario Calandri, Ballads et rondeaux du testament Villon sempre di Calandri, Bestiario di Alberto Vigevani, Bertoldo di Giulio Cesare Croce ornato, come amava scrivere Piero in coda ai suoi volumi, da preziose litografie acquerellate di Emanuele Luzzati. Quest’ultimo non fu terminato da lui, ma dalla moglie Franca. Piero Nebiolo nel frattempo era mancato.
Una breve e fatale malattia.
Come scrisse l’amico Bruno Vergano: «Il 26 settembre 1993 ad Asti giunge il Papa e Piero Nebiolo decide di andarsene. Dove non si sa, comunque per sempre».
Conoscevo Pier Nebiolo di vista, come tanti costigliolesi sapevo che oltre a essere un bancario si occupava di arte e di grafica, però come tanti altri miei compaesani ignoravo il valore artistico e culturale della sua passione. Fu solo quando venne a Costigliole a fare il direttore di banca che cominciai a parlare con lui. Era seduto alla sua scrivania con altri clienti che anch’io conoscevo, quando gli portai l’aperitivo. Mi accolse con il suo particolare sorriso, alzò le braccia e mi ringraziò per il servizio. “Tornerò più tardi a recuperare i bicchieri” dissi. Lui si alzò, pagando mi diede una pacca sulla spalla e mi ricordò che i vuoti li avrebbe riportati il diretur. Tornò poco dopo con il vassoio tenuto sulla punta delle dita e canticchiando mi disse “Guarda che cameriere!”. Non se ne andò via subito, si sedette e volle parlare con me.
Ne restai stupito, pensavo fosse un tipo burbero e pieno di sé, invece restai colpito dal suo modo di fare semplice, schietto e graffiante. Subito mi sentii a mio agio come se ci frequentassimo da anni. Il rito dell’aperitivo divenne una quotidianità, anch’io venni a far parte del gruppo. Non dovevo far mancare salame cotto e crudo sul tagliere degli stuzzichini e capii che oltre a essere un bravo direttore di banca e un artista, il Nebiolo era anche un raffinato enogastronomo. A poco a poco quello che doveva essere un semplice aperitivo, divenne un vero rito con la partecipazione di persone a cui non avrei mai avuto il coraggio di avvicinarmi. Una di queste era Guido Alciati, il famoso ristoratore, il quale si presentava spesso con un bel vassoio di agnolotti dal plin preparati dalla moglie Lidia e una buona bottiglia di vino. Ogni cosa anche piccola doveva essere perfetta, dalla mostarda d’uva – una sua passione, se la faceva preparare da una anziana donna del paese – alla stagionatura della Robiola di Roccaverano con cui avevo preso l’abitudine di servirla, dal vino al bicchiere che lo conteneva. Cose che ai tempi erano a dir poco rivoluzionarie. La sua modestia la scoprii frequentandolo tutti i giorni.
Per non farci sentire troppo ignoranti non parlava mai del suo lavoro di stampatore, di vignettista e di grafico. La curiosità ebbe in me il sopravvento e un giorno decisi di andare a casa sua per scoprire quale fosse veramente il suo valore. “Ohhh… finalmente sei arrivato” mi disse, “aspetto da un po’ la tua visita”. Avviò subito un macchinario strano, una stampante d’epoca. Mi spiegò il funzionamento e mise sul tavolo alcuni dei suoi lavori. Restai basito nel vedere i suoi disegni così dissacranti, ribelli e anticlericali. Mi guardò sogghignando, prese un pezzo di carta e con il lapis disegnò un maialino con una grossa corona sulla testa, il maialino recitava “A Gino crinet più di me”.
Ridemmo e bevemmo un bicchiere, oramai ero entrato nelle sue grazie al punto che ebbi l’onore di partecipare alla cena annuale nella sua casa alla Rocca di Costigliole. La ristretta cerchia di invitati doveva mettersi in fila con la carta d’identità in mano. L’accesso era consentito solo alle persone nate a Costigliole d’Asti. Ero l’unico giovane della serata però non giovane abbastanza da essere nato in clinica. Con orgoglio gli mostrai la mia carta d’identità: Risso Luigi, nato a Costigliole d’Asti.
Gli invitati mi accolsero con simpatia e tutti mi strinsero la mano. Capii l’importanza di quella cena nella vita sociale del paese. Cominciammo subito a mangiare un succulento bollito misto, la bagna cauda con tazza di brodo finale. Alla fine della serata arrivò con una scatola di cartone sigillata, zittì tutti ed estrasse una corona di carta dorata, la posò sulla testa del suo vicino di casa, gli disse “questa è solo una prova, Costante Genta sarai ufficialmente incoronato Re della Rocca. Il prossimo anno io e Gino organizzeremo una grande festa qui nel nostro centro storico con musiche e balli, incoroneremo ufficialmente Costante a Re della Rocca”. Un grande applauso, le lacrime scendevano sul viso dell’uomo, tra commoso e stupito. Io intanto preoccupatissimo pensavo al lavoro che mi sarebbe toccato alcuni mesi dopo. Le nostre frequentazioni intanto continuavano, salame all’aglio e Barbera non mancavano mai sui tavolini del mio locale. Un giorno però entrò in modo diverso, non sorrideva. Si limitò a ordinare un caffè, si sedette e mi chiamò. “Caro Gino” mi disse, “non so se riuscirò a organizzare la festa, arrivo dall’ospedale, la diagnosi non è bella.” “Ma no” io risposi “vedrai che tutto si risolverà”.
Si alzò di scatto e disse “dài almeno tu non fingere, mi stai guardando in faccia e lì c’è scritta la parola fine”. Il suo volto non era più lo stesso, in poco tempo era tutto cambiato. Qualche tempo dopo ebbi da parte sua una convocazione ufficiale all’ospedale di Asti con alcuni amici. A stento si sedette sul letto e con il suo sorriso dissacrante ci salutò ufficialmente per l’ultima volta. Anche in quei momenti la sua ironia prevalse su ogni cosa. “E non venite più a trovarmi! Questo è il Piero che dovete ricordare!”
Nell’estate del 1971 un trio di sadici buontemponi costigliolesi si inventò il Palio Calcistico dei Borghi. La cosa, nel decennio successivo si trasformò in una epifania di umori viscerali, sfottò e scherzi, partigianeria, cialtronate, bevute… in numerose serate di gioco si contarono oltre mille spettatori che, uniti ai circa 200 calciatori impegnati nel torneo, corrispondevano a un quarto dei costigliolesi! Ogni borgo o frazione cercava il materiale umano col quale allestire le squadre. Il capoluogo – diviso in quattro rioni – stentava nel reperire un numero sufficiente di bipedi adatti al gioco del calcio. Il piccolo Borgo Centro si schierò con 3 calciatori che insieme contavano circa 115 anni e 270 chili.
Uno di loro era il Piero Nebiolo, autoproclamatosi “portiere” e “babiàs nero”: la prima affermazione era dovuta a una millantata militanza nelle giovanili dell’Entella Chiavari, la seconda era in grazia del soprannome di Cudicini, il ragno nero del Milan, al quale il Nebiolo si ispirava.
Ma come? Il Nebiolo artista, bancario, irriverente vignettista in fieri, organizzatore di baccanali innocenti, era pure un portiere di calcio? Ovviamente, partì dalla panchina. Luogo peraltro a lui congeniale: parlava col pubblico, prendeva in giro i compagni, salutava e parlava di lavoro con taluni avversari, raccontava barzellette ai sodali di panca…
Lui e Angelo Bodriti, il massaggiatore con la stampella e le mani come badili…
Fece il suo esordio contro la Motta, di nero vestito, il ciuffo abbondante e una sciarpa intorno al collo.
Anche tra i pali, era lui: teatrale, esagerato, sardonico, sboccato, allegro, talvolta sopra le righe (le sue uscite alte erano balletti) e talvolta quasi timido nello scusarsi per danni provocati o goffaggini. Finì 3 a 1 per gli altri.
Alla cena sociale di fine torneo, da Guido Alciati, il Nebiolo guidò ogni brindisi possibile, sicuramente tra i migliori in campo.
«L’indole impetuosa e il segno mordace di Pier Battista Nebiolo parevano volerne emblematizzare una personalità schietta e volitiva, sarcastica e irriverente alle ipocrite convenzioni mentre, nelle occasioni in cui avevo incontrato Nebiolo […], negli anni Ottanta, avevo percepito nella sua autenticità un margine inconfessato di riserbo all’apparire, di connaturata ritrosìa – che chi finge nella mente segni e colori si porta nell’animo, insopprimibile, una sorta di inquieta coscienza critica che mai abbandona. L’esperienza [di grafico-vignettista, ndr], viene condotta, attraverso gli anni Cinquanta, quando l’inclinazione alla manualità di Pier Battista […] intuisce nel linguaggio segnico la vocazione all’abbozzo caricaturale, allo schizzo rapido della satira umoristica, un codice congeniale alla sua analisi ironica della realtà. Nascono così le sue collaborazioni come vignettista: tratto forte e tagliente, ritmo allusivo e, tra i margini, la tensione alla grande tradizione dell’arte segnica moderna. Nebiolo ama l’immagine viva e la suggestione segreta che in essa è custodita: il disegno ne è codice visibile, gestuale e libero, frutto dell’intelletto e della percezione insieme, visualizzazione dell’emozione fantastica. […] Sono sequenze di pretini faceti, siglati dal tratto corposo e concreto, quindi vescovi e cavalli, stigmatizzati in una graffiatura lineare sciolta ed essenziale; qualche fuga prospettica collinare, il paesaggio d’elezione, còlto nel filamento dell’astrazione visuale.»
Maida Faussone, 1998
«La sua mano tocca il foglio di carta come se fosse magico. Lentamente ne considera lo spessore, la granulosità con una straordinaria capacità tattile. Se non è soddisfatto, strappa il foglio, lo accartoccia e si direbbe voglia masticarlo rabbiosamente. Quella carta accoglierà segni di vita e di poesia, perciò deve essere giusta. Prova e riprova manovrando il torchio, dapprima senza carta, senza inchiostro, alla ricerca di una docile manualità, simile al gesto di un innamorato del suo mestiere – se dici: della sua arte, si arrabbia. Gli basta la sua artigianale sapienza. Nella solitudine del suo studio, curvo incessantemente sul suo arcano strumento di magia, evoca, filtrandoli attraverso la sua emotività, il mondo poetico di quegli artisti che a lui si sono affidati. L’operazione è seducente. Se il segno o troppo lieve o troppo greve o con sbordature, non raggiunge il valore giusto, s’interrompe e ricomincia da capo. Poiché è scontroso e insofferente anche di se stesso, difficile ad accontentare, sottovaluta spesso la sua maestria. Ho visto piccoli fogli con raffigurazioni di sua creazione. Ne parla poco, te li porge quasi con timidezza. Sono immagini di malinconica ironia, pure e caste come acqua di sorgente, anche quando evocano licenziose apparizioni».
Eugenio Guglielminetti, 1998
«Vien da chiedersi cosa resti oggi di Piero, della sua intensa attività di grafico e di stampatore. Quando si parla di lui, inevitabilmente si finisce con evocarne il personaggio, gli atteggiamenti geniali, pirotecnici, a volte istrionici, ma pur sempre caratterizzati – piaccia o non piaccia – da una naturale e soverchiante carica di simpatia. Il rischio, tuttavia, è di trascurare uno degli aspetti più marcati e caratteristici della sua personalità: l’eccezionale, infaticabile tempra di chi sapeva coniugare esperienza artigianale e creatività artistica. I lazzi, i sollazzi e tanti altri “azzi” che costellavano le sue esuberanti esibizioni verbali e grafiche costituivano una sorta di sbarramento, una cortina fumogena che egli abilmente poneva tra i più – estranei alle sue radici e alla sua formazione – e la profonda, autentica vena di ironia e genialità di cui era dotato».
Bruno Vergano, 1993
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