Ai piedi della collina di Azzano d’Asti non resta nulla a testimoniare l’esistenza del monastero di San Bartolomeo. Su quelli che oggi sono campi coltivati, a poche centinaia di metri dal Tanaro, dal X al XIX secolo fiorì un’abbazia benedettina che arrivò a detenere ricchezze e terreni in tutto l’Astigiano. Insieme a quella dei Santi Apostoli, fuori da Porta Torino, e alla Certosa di Valmanera, fu uno dei cenobi più rilevanti e potenti nella storia della città di Asti.
Era tra i monasteri benedettini più potenti del Piemonte
Senza più tracce sul terreno a raccontare quasi mille anni di storia, quello che sappiamo del monastero di San Bartolomeo lo dobbiamo soprattutto ai registri conservati all’Archivio di Stato di Torino. L’esistenza dell’abbazia è attestata già nel 952, in un atto tramite il quale il re d’Italia Berengario II conferma al vescovo di Asti Brunigo il possesso del monastero di Azzano, «constructum in honorem Beatae Dei Genitricis Mariae». Oltre a rivelare che in origine l’edificio era dedicato alla Vergine, a oggi è la più antica testimonianza della sua esistenza. Questo però non scioglie i dubbi sull’origine del monastero, di cui rimane ignota la data di fondazione.
Non fu istituzione vescovile, né legata al Capitolo della Cattedrale, ma probabilmente voluta dalla dinastia anscarica che governava l’Astigiano nella prima metà del X secolo. La sua posizione era strategica. A breve distanza il castello di Annone – fortificato nello stesso periodo — controllava la via Fulvia che portava ad Asti. Al di là del Tanaro, San Bartolomeo appariva solitario nella campagna astigiana: un edificio lungo e basso, raccolto in una stretta valle e lambito a breve distanza dal fiume.
A collegare le due sponde vi era un traghetto; nei pressi dell’approdo, un viale saliva fino all’abbazia, congiungendosi davanti all’ingresso con la strada che scendeva dal borgo di Azzano. Campi, frutteti e vigne circondavano il monastero, mentre all’intorno verdeggiavano boschi di querce e castagni. Nel Tanaro guizzavano carpe e anguille spesso destinate alla mensa dei monaci. In quei luoghi, San Bartolomeo costituiva certamente una presenza spirituale, ma soprattutto era il baricentro economico e colturale di possedimenti anche lontani.
Il monastero si espanse dapprima sul territorio di Annone, come attesta la donazione di un terreno in regione Riana, fatta da un certo Pietro Negri. O l’acquisto di 5 staja in regione Placium da certo Pietro Piciapane, un affare su cui evidentemente concordava la di lui moglie Marchisia, che secondo l’atto «dice di non essere stata colpita né percossa affinché approvasse la vendita». Ma la parte più cospicua delle proprietà di San Bartolomeo era lontana dal fiume: Vigliano, Montaldo Scarampi, Montegrosso, Sant’Emiliano, Montemarzo, Scurzolengo, Portacomaro, fino alle più lontane terre di Vicoforte e Monteu Roero. Mentre consolidavano le loro proprietà, i benedettini si dedicarono al risanamento dei terreni acquitrinosi della piana del Tanaro, fecero dissodare gli incolti, apportarono innovazioni tecniche e colturali. Il tutto non lontano da Quarto, al limitare di quel territorio che era patrimonio del Capitolo della Cattedrale.
Fu quello un vicino con cui i monaci ebbero una difficile convivenza, almeno fino al XV secolo. San Bartolomeo, infatti, fu spesso sotto il controllo di reggenti nominati dal vescovo di Asti e non di un abate regolarmente votato. Le ostilità con la diocesi, che si serviva del monastero a fini politici ed economici, cessarono solo nel 1479, quando i benedettini di Azzano aderirono alla Congregazione cassinese di santa Giustina da Padova. Ma il confine che scottava era quello con la città di Asti.
I mulini lungo il Tanaro erano una sicura fonte di reddito
Lo stesso Berengario II aveva donato a San Bartolomeo un lungo tratto della sponda sinistra del Tanaro, dal rio d’Azzano fino a quello dei Lebbrosi, oggi rio Valmanera. Lì i benedettini avrebbero avuto la facoltà di ancorare traghetti e mulini, esercitare diritti di pesca, conciare le pelli, predisporre chiuse. Diritti che però l’abbazia non mise a frutto fino al XIV secolo, quando iniziò a investire acquisendo quote di un mulino della Società comunale del Moleggio.
Negli anni successivi vennero acquisiti i diritti di mola a Quarto, Azzano, Montemarzo, poi anche a Portacomaro e Scurzolengo. Un’attività che garantì introiti e una posizione di monopolio in quelle località, finché nel 1397 non entrò in conflitto con una nuova società del moleggio, questa volta privata. I soci erano il duca Luigi d’Orléans, signore di Asti con grandi progetti di potenziamento per la città, e molti dei consiglieri comunali. Una lettera dello stesso duca concedeva alla società di installare mulini sul Tanaro nel tratto compreso tra Bellangero e Azzano, in barba all’antico privilegio detenuto dal monastero. L’abate non reagì, forse – suggeriscono i documenti storici – perché fratello di due fra i maggiori azionisti della Società del Moleggio.
La disputa non si risolse che cento anni dopo, a favore del monastero, ma si riaprì nel corso dei secoli ogni qual volta la città sentiva più stringente la necessità di riscuotere tributi.
Il Quattrocento vide rifiorire l’abbazia, che ospitava da 12 a 20 monaci, mentre gli abati provenivano spesso dalle famiglie della nobiltà astigiana. Cascine sparse su 2500 giornate, circa 850 ettari, erano i beni su cui facevano affidamento i monaci di Azzano, insieme a mulini, una fornace, una conceria e una officina per la lavorazione del ferro. Tutte attività che continuarono a rendere anche nel secolo successivo, ben più duro del precedente per la contea di Asti. I benedettini poterono così permettersi il restauro della chiesa, il cui campanile rimasto in stile gotico svettava nella campagna anche da lontano. Anche il chiostro era stato rinnovato e aggraziato da nuove colonne di granito. Ma per un pezzo quelli furono gli ultimi lussi che l’abbazia poté permettersi. Nel corso del Seicento le campagne si spopolarono, a causa delle continue guerre e delle pestilenze. L’economia di San Bartolomeo ne risentì, un documento dell’epoca ricorda come i monaci «nel tempo che gli spagnoli erano sotto Asti […] non potevano servirsi dei loro mulini che avevano in San Bartolomeo di Azzano a causa della soldatesca spagnola». L’abbazia invocò l’aiuto del Papa, che nel 1645 concesse l’indulgenza plenaria a chi avesse aiutato l’abbazia. Nel secolo successivo, le sorti di San Bartolomeo mutarono in positivo. Furono rinnovate la chiesa, la sacrestia e la sala capitolare.
Gli abati nel ’700 viaggiavano in carrozza con rango da gran signori
Le decorazioni sarebbero state affidate ai fratelli Pozzo, che avevano lavorato a lungo nella cattedrale di Asti. Il rilievo dell’abbazia è testimoniato anche dal fatto che nel 1777 vi si tenne il capitolo generale della congregazione cassinese, con 185 monaci ospitati ad Azzano. Eppure, dietro a tanta prosperità c’era chi vedeva un degrado morale. «Il lusso e la corruzione – scriveva il contemporaneo Gian Secondo De Canis – solita conseguenza delle ricchezze, presevi cotal piede che gli abbati e gli altri superiori marciavano in carrozza, erano serviti di livree e tenevano un rango da gran signori…».
Il contrasto con ciò che accadde di lì a pochi anni appare stridente. Al volgere del secolo, il Piemonte era campo di battaglia per francesi e austro-russi. Quando nel 1800 l’esercito di Napoleone si insediò definitivamente ad Asti, l’abbazia fu perquisita in più occasioni. Si diceva che i monaci vi avessero nascosto un arsenale, per armare la sollevazione dei contadini contro i francesi.
L’esercito rivoluzionario mise un abate filofrancese alla guida dell’abbazia, ormai un semplice cittadino chiamato a gestire un patrimonio immobiliare. La soppressione degli ordini religiosi del 1802 calò come un colpo di grazia su San Bartolomeo. Ai monaci rimasti si intimò di evacuare il monastero, oppure di accontentarsi di una misera pensione se avessero voluto rimanervi.
Nel giro di poco tempo, agli stessi monaci furono assegnati terreni da cui trarre sostentamento, ma l’abbazia lentamente si spopolò. «Questa soppressione – racconta ancora De Canis – fu accompagnata da un saccheggio orrido, e della biblioteca e degli archivi e degli altri uffici comuni […]. La quasi anarchia che allora regnava in Piemonte, avendo resi deboli, o maliziosamente ciechi, coloro che dovevan porre riparo a tanto disordine, fu quel luogo talmente spogliato e desolato in tutte le maniere che in pochi giorni sparì l’opera di otto secoli e più, e null’altro rimase che un vacuo abitato e deserto.» Le rovine diventarono una cava di pietre e mattoni per la gente di Azzano e dintorni. Colonne, pietre angolari, architravi finirono nelle costruzioni di case e cascine della zona. Le ultime tracce della chiesa, degli edifici e dei muri scomparvero definitivamente verso il 1900.
Ben poco, al di là dei documenti e della memoria, è sopravvissuto dell’abbazia di San Bartolomeo. L’altare maggiore è custodito oggi nel presbiterio della parrocchiale di Annone, la balaustra nella parrocchiale di Rocca d’Arazzo. Si dice che, di tanto in tanto, da quei campi coltivati spuntino ancora resti dell’abbazia. Il ritrovamento più recente risale all’ottobre 1995. Si tratta di una lapide datata 1785, anticamente conservata all’interno del monastero. Recuperata in una cascina nei pressi di Azzano, oggi quella lapide è conservata nel municipio.
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